E brillano ancora. Anche dopo le loro morti. Morti violente disposte non solo dalle mafie, ma da ‘menti raffinatissime’ (come le definiva Giovanni Falcone), che guidano il gioco. Più precisamente, ‘gli intoccabili: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, vertici dei Servizi segreti e Polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro. Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole, che affollano i migliori salotti, che nelle chiese si battono il petto dopo aver partecipato a summit mafiosi. Un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i Provenzano (ex villici che non sanno neppure esprimersi in italiano) sarebbero stati Nessuno e mai avrebbero osato sfidare lo Stato, uccidere i suoi rappresentati e questo Paese si sarebbe liberato dalla mafia da tanto tempo’. Questo scrive il giudice Roberto Scarpinato nella lettera rivolta a Paolo Borsellino nella commemorazione del 2012 in via d’Amelio, per la strage del 19 luglio 1992. E invece siamo ancora qua a parlarne: da 400 anni di camorra, da 150 di mafia (Cosa Nostra), da 100 di ‘ndrangheta.
(E quanto ne dovremo ancora parlare, purtroppo! Soprattutto oggi, in tempo di pandemia, con una crisi economica che sta falcidiando le imprese, con centinaia di migliaia di disoccupati, i clan riverseranno nel mercato la loro spropositata liquidità, acquistando tutto l’acquistabile: ristoranti, hotel, negozi, le più disparate attività. Per cui sarà sempre più difficile distinguere economia legale da economia criminale, dopo che il denaro frutto di attività illecite sarà passato nelle ‘lavatrici’ del business. Politica, magistratura, società civile devono conoscere queste dinamiche ed essere sentinelle sul territorio e custodi di legalità democratica).
Anch’io sono qua a parlarne. Forse perché ad un certo punto nasce l’esigenza di fare un viaggio catartico a ritroso nel tempo, per (ri)conoscerti sempre meglio e cominci a scrivere canzoni ‘a tema’. Nasce prima il cd (In)canto Civile, poi ‘Di notte in giorno’. E poi ci sono gli incontri che ti cambiano la vita: don Luigi Ciotti e Libera (Associazioni, nomi e numeri contro le mafie). A qualche evento racconti e canti queste storie. Un po’ con l’ossessione del racconto, per non dimenticare. Poi ti viene l’idea di laboratori di scrittura creativa e musica d’insieme ‘a tema’. Cominci a girare le scuole, i beni confiscati alle mafie in Campania, Calabria e Sicilia, durante E!State Liberi, i campi estivi d’impegno e di formazione di Libera. Tutto con uno strumento e come uno strumento. A don Ciotti piacque molto, un giorno, questo mio gioco di parole. In effetti, il senso è tutto qua: io s(u)ono uno strumento. Suono il mio strumento, la chitarra, ma mi sento io stesso uno strumento, al servizio di queste storie di memoria e di riscatto. È il dovere morale di fare la tua parte, invertendo il detto ‘faccio quello che posso, succeda quello che deve succedere’ in ‘faccio quello che devo, succeda quello che può succedere’.
E raccontando raccontando, cantando cantando, ti accorgi che ti stai raccontando. Visto che adolescenza e giovinezza della mia generazione sono state scandite proprio dalle storie di veri e propri martiri della giustizia e della fede, chi con in mano la Costituzione, chi con il Vangelo, chi con tutt’e due. Martiri che hanno sacrificato il bene più prezioso, la loro stessa vita, per un ideale. Martiri, non eroi. Martire in greco vuol dire testimone. Hanno testimoniato le cose in cui credevano, la realtà dei sogni che sognavano. Martiri, non eroi. Perché definirli eroi vorrebbe dire collocarli su un piedistallo, idealizzarli ed allontanarli da noi, per tenerci a debita distanza dalle nostre responsabilità. Potrebbe rappresentare una sorta di autoassoluzione. Ego me absolvo dai miei doveri. Che è un po’ come dire a te stesso: ‘Figurati, io non potrei mai! Purtroppo non sono come loro. Loro erano esseri speciali’. No, erano esseri normali. Mi viene in mente don Tonino Bello, un prete poeta e vescovo ‘scomodo’ pugliese, che brillava per il suo impegno sociale. Sosteneva che i santi sono stati uomini fino in fondo, fino in cima. E che quindi essere uomini fino in cima vuol dire essere santi. Pensiamoci: cosa facevano questi ‘santi’? Andavano per strada urlando: ‘Venite fuori, uomini d’onore! Venite fuori e ditemi, quale onore può avere un uomo che uccide anche donne e bambini?! Siete sì uomini, ma uomini di merda! Venite fuori, vi sfido!’. No, nulla di tutto questo. Nessuna vocazione al suicidio o al martirio. No. Facevano semplicemente il loro lavoro. E lo facevano bene. I magistrati facevano i magistrati, i giornalisti facevano i giornalisti, i preti facevano i preti, gli imprenditori facevano gli imprenditori, e così via. Certo, facendo bene, ‘interferivano’, come disse un pentito ad un giudice che gli chiedeva conto di alcuni delitti di persone innocenti. Persone che, per dirla con il giudice Rocco Chinnici, avevano ‘la religione del lavoro’. Aggiungerei: avevano la vocazione al sogno. E quei sogni dovremmo sentirli nostri e salvarli. Uno ad uno. Perché hanno sognato anche per noi. Sono morti per questo. Tutti loro, per aver sognato un mondo migliore, sono morti. Per noi.
‘Sono morti per noi e abbiamo un grosso debito verso di loro. Questo debito dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera, rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne, anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro, facendo il nostro dovere. La lotta alla mafia. Il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e quindi della complicità’.
Paolo Borsellino.
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