Quella mattina, ormai arrivati al nono mese, il medico controlla il tracciato e con tutta tranquillità ci dice:
“finora no, nessuna”.
“beh allora glielo dico io, ha delle contrazioni, vada a casa a fare la valigia, ci vediamo qui verso le tre”.
Ci dirigiamo verso casa per nulla preoccupati, anche perché stavolta mia moglie è decisa a fare l’anestesia epidurale.
Arriviamo a casa e fatta la valigetta si riparte alla volta dell’ospedale. Io che dentro ho la tremarella, mi impongo una calma apparente per tranquillizzarla durante il viaggio, e poi “non sei svenuto per la tua prima figlia e non succederà nemmeno stavolta” mi dice la mia voce interiore indossando un caschetto giallo da esploratore con una torcia attaccata sopra.
Allo sportello accettazione dell’ospedale ci danno indicazioni e saliamo al piano, reparto, accettazione, la caposala accoglie mia moglie con la gentilezza sperata, le dice due o tre cose e poi:
Ed è in quel momento che la risposta affermativa alla frase “abbiamo preso tutto?” pronunciata all’uscita di casa, si disintegra come polvere nel cosmo.
I nostri sguardi si incrociano, in quello di mia moglie vedo incredulità per la situazione, nessun rimprovero, io vorrei strisciare sotto la pancia di una formica ma ostento sicurezza:
“Ci penso io, vado a prenderle a casa”.
Ed ecco che arriva la mazzata:
“Mi raccomando, se non torna entro le 17 penso che dovremo fare senza…”
A quel punto lo sguardo dell’adorabile panciona si blocca come sullo schermo blu di un PC, io stento un sorriso mentre casa rispetto all’ospedale non mi è mai sembrata così lontana.
Ho una missione da compiere e ho solo un modo per farlo: violare qualsiasi regola esistente del codice della strada senza ammazzare nessuno, in fondo è giusto l’ora di uscita dal lavoro di mezza Roma.
Ho il cuore in gola, ma le mie ghiandole surrenali hanno strizzato così tanta adrenalina che se non la consumo dormirò per tre settimane. Vado.
Faccio retromarcia nel parcheggio con la mia monovolume e rompo un faro posteriore su un palo. Ingrano la prima, mi lancio verso l’uscita e poi mi butto su strada.
Comincio a suonare all’impazzata nel primo imbuto di macchine e ottengo la prima amara delusione, in questa città nessuno si sposta.
Ora ho le fiamme negli occhi.
Il mio suonare intermittente diventa fisso, ogni piccolo spazio tra le auto diventa un punto dove incunearsi e suonare più forte, più vicino, mentre con sguardi intorpiditi, sorpresi, esterrefatti, spaventati, quelli alla guida delle auto si spostano di qualche centimetro. Brucio strati di pneumatici sull’asfalto sgommando come se fossi in pista ma sono fermo, mentre il sangue mi si gela nelle vene per quello che vedo.
Avrò tempo di riflettere sul cinismo di questa città che ci ha assuefatto alle sirene delle ambulanze di chi sta morendo, al clacson di chi vuole far partorire la moglie senza dolore, o al suono dei pompieri per una casa che va a fuoco.
Finalmente riesco a strappare la mia monovolume dalle sabbie mobili del lungotevere e mi lancio su strade più larghe, sorpasso e sfido il semaforo rosso, passo per primo sempre e comunque, vado addosso agli altri per farmi lasciare il passo (parolacce incluse) e così via. Spingo sul pedale dell’acceleratore, la mia rabbia scorre attraverso la mano sul cambio e senza freni, odio tutti, odio profondamente tutti.
Finalmente comincio a riconoscere palazzi e negozi del mio quartiere e casa mi sembra più vicina, l’orologio non è riuscito a correre più di me.
Accelero, vedo davanti a me che la strada dove sono finisce su un bivio, obbligando me e chi proviene in senso opposto a confluire entrambi su una strada più piccola a senso unico. È in situazioni come queste, quando devo prendere decisioni istantanee che si accende nella mia testa la colonna sonora adatta, in quel momento parte Money for nothing dei Dire Straits, batteria e tastiere in un crescendo che culmina nella chitarra elettrica di Mark Knopfler, a detonare nel mio cervello mentre calcolo i metri a tempo di musica perchè devo assolutamente passare per primo e ci riuscirò.
La macchina davanti a me è un’utilitaria che ha visto tempi migliori, io ho comunque centoventicavalli sotto le chiappe e guadagno terreno ogni secondo di più, sempre più vicino alla curva, sempre di più e.… tampono.
L’auto che mi precedeva ha appena girato ma inchioda ed io pesto sul freno con qualsiasi cosa, anche con le orecchie, ma non riesco ad evitare l’impatto.
Abbasso la testa, sconfitto.
La bolla cinematografica nella quale ero esplode e con la coda dell’occhio mi accorgo di essere osservato. Il tipo nell’utilitaria mi sta fissando. Faccio appello a tutto il mio self control anche se il mio sentirmi Superman è evaporato in un istante. Dentro quell’auto c’è la mia kriptonite; un uomo sovrappeso con barba sfatta e una sigaretta penzolante dalla bocca che mi guarda e mi dice:
“a Schumache, hai finito??”
Scoppio a ridere. Dopo aver lasciato i miei dati al tamponato riparto subito in accelerata rombante, mentre aumenta il rumore sordo di specchietti schiaffeggiati dal mio pachidermico monovolume, sferzando con il clacson le auto incolonnate finalmente mi faccio strada. Sono ormai quasi a casa, vedo più avanti l’ultimo semaforo e dopo il rettilineo che mi porterà sotto casa. Guardo l’orologio, ho meno di un’ora per salire a casa, scendere con le analisi e ritornare in ospedale.
C’è una macchina in doppia fila a sinistra e una a destra che si sta immettendo, sento che stavolta ce la posso fare e sempre strombazzando, scalo in seconda, accelero e lancio il cuore oltre l’ostacolo…. ma non l’auto. Prendo in pieno lo specchietto dell’auto a destra staccandolo e davanti a me il semaforo diventa rosso.
Fottuto.
Quello dello specchietto a destra scende dall’anziana berlina anni novanta ma lucida come una lussuosa auto da esposizione. Il compìto e minuto signore comincia ad imprecare, mentre io scendo dalla macchina intenzionato a dargli solo i miei dati e ripartire. Lui sembra essere in preda ad una crisi isterica, mentre io cerco di dirgli che ho un problema immensamente più grande del suo specchietto.
Nel frattempo il giovane in auto dietro di me suona ripetutamente, poi scende e con la mano aperta protesa in avanti mi urla di spostarmi ed io gli rispondo:
“mi sta per nascere una figlia! devo andare all’ospedale!!”
Accade allora l’inaspettato, la catarsi di questa cinica città.
Il giovane mi vede visibilmente nel panico, e allora si lancia sul vecchietto che intanto ha preso a tamburellare le mani sulle orecchie, visibilmente provato.
“Aoh!! ma nun l’hai capito che glie sta pe’ nasce er fijo ??!!” urla il giovane.
“Si ma a me lo specchietto chi me lo ripaga???
Questo è troppo. Lascio i dati al giovane, ci pensasse lui a darli a medioman, e scappo verso casa. Arrivo sotto il palazzo, lascio la macchina con la portiera aperta, salgo le scale a quattro gradini per volta entro, cerco nella cartellina e quando trovo le analisi, mi prende un dubbio atroce: e se non riesco ad arrivare in tempo?
Ed è allora che mi ricordo di avere un fax. Con le mani che mi tremano chiamo, mi faccio dare il numero e foglio dopo foglio il pancione è salvo. Prendo finalmente la via dell’ospedale e arrivo in tempo per assistere al miracolo della nascita.
Mentre gli altri romani sono con le gambe sotto il tavolo perché è ora di cena, viene alla luce dalla sua mamma una splendida bambina, figlia di un papà che in un pomeriggio ha perso 10 anni di vita, poi li ha ritrovati, ha tamponato auto e distrutto specchietti, in una città tutta da rifare.
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