ANTEPRIMA NON EDITATA
Prima parte
- Hai freddo?
- Un po’, ma stiamo ancora un po’ qui, è.. non so come spiegarlo.
- Ho capito.
Era arrivato il buio. Si riusciva a malapena a seguire il sentiero fino a dentro il bosco. Rimanemmo seduti sul prato a guardare il cielo per qualche altro minuto. Ci stringemmo piano in quei minuti di silenzio. Quei minuti che spesso chiamiamo momenti, lunghi e densi respiri di tempo che hanno inizio e fine sfocati, nessun crescendo se non quello dell’attenzione verso le piccole cose. La brezza che punge la pelle, la profondità incredibile del cielo. Attimi di silenzioso ordine.
Quando capii chi era mio padre avevo 25 anni. Avevo appena finito l’università e iniziato il tirocinio in un’azienda che avrei lasciato pochi mesi dopo. Erano giorni di sentimenti altalenanti, di lunatismo feroce. Avevo tra le mani la possibilità di fare un tirocinio a Bruxelles e ancora non sapevo che sarebbe diventato il mio lavoro e la città che mi avrebbe ospitata per così tanti anni. Era un periodo di grandi decisioni e di ore passate a meditare.
Precisamente era il 18 Ottobre e scendevo con la macchina dal traghetto che da Livorno mi aveva portata in Sardegna. L’odore dei porti mi ha sempre dato fastidio, un misto acre di salsedine e benzina, sudore, corde marce e ruggine. La mia macchina mi aspettava lì, nella pancia del traghetto, tra le grida dei marinai napoletani e i fumi dei tubi di scappamento.
In neanche un’ora arrivai a casa dei miei genitori. La casa dove sono nata. Un modesto casolare immerso nella campagna, un oasi verde di bosco e orti tra il giallo bruciato d’agosto.
Mio padre e mia madre vivevano insieme da qualche anno prima che nascessi. Avevano iniziato ad abitare in questo splendido rudere dopo anni in cui lei, dopo essersi laureata in biologia, aveva lavorato in vari istituti di ricerca e università, mentre lui lavorava per varie associazioni e organizzazioni umanitarie. Da come me l’avevano sempre raccontata era stata una scelta obbligata dall’incapacità di vivere in centri troppo grossi. Mio padre aveva vissuto a Roma, mentre mia madre si era divisa per anni tra Torino e Milano. Non si erano mai sposati, semplicemente a un certo punto avevano deciso che era ora di fare una scelta forte e vivere per se stessi e stare bene. Dopo aver girato un po’ avevano trovato un casale praticamente abbandonato, avevano chiesto al proprietario di poterlo abitare in cambio di cure e ristrutturazione, e lui morendo gli aveva lasciato sia il casale che gran parte del terreno attorno. Quelle cose che non capitano più o che, almeno a me, sembrano favole di un mondo antico. Ci avevano messo praticamente 12 anni a ristrutturarlo tutto nella sua interezza. Mi ricordo ancora quando la casetta degli ospiti e il laboratorio erano praticamente inagibili. Vedere la casa crescere insieme a me è uno dei ricordi più incredibili. Ricordo tutti gli amici dei miei che arrivavano nei fine settimana ad aiutarli a costruire parti di tetto e di muri, ad allacciare la corrente in certe parti della casa, ad allargare l’orto e a fare conserve, olio e passata. Tutte quelle domeniche piene di gente finivano in pranzi lunghissimi e buonissimi in cui spesso cantavo con un mestolo per microfono o finivo per tuffarmi in una pozza di fango facendo finta di costruire un forno o una casa.
I miei sono sempre stati appassionati di permacultura e agricoltura naturale, di artigianato e autoproduzione. Parlavano spesso di come fare a essere autonomi e di quanto sia fondamentale per un essere umano l’indipendenza. Penso sia uno dei motivi per cui non si sono mai sposati.
Quell’Ottobre trovai mio padre a raccogliere le zucche e mia madre a sistemare un vecchio mobile tarlato. Avevano tutti e due delle grosse felpe, pantaloni da lavoro e le mani sporche. Mio padre era piegato a raccogliere e gli occhiali gli erano finiti sulla punta del naso e alzandosi se li mise a posto col polso. Mia madre si asciugò la fronte con la manica e mi venne incontro sorridendo. Ogni volta che tornavo la prima mezz’ora era di chiacchiere, domande e abbracci stretti, dopodiché era come se non me ne fossi mai andata. Andavo a sistemare la valigia in camera mia, mi mettevo la tuta morbidissima che mi accompagnava comodamente dalle superiori e andavo in cucina a preparare qualcosa. A seconda dell’orario poteva essere il pranzo, la merenda o la cena. La cena era la cosa più facile. Solitamente consisteva nel riscaldare quello che era avanzato da pranzo. Quel giorno preparai la merenda, pane con un filo d’olio e sale spalmato poi con della crema di lenticchie avanzata da pranzo e sopra una fetta di pomodoro cuore di bue. Bistecche di pomodoro le chiamava mio padre. Misi tutto in tre piatti, con un vecchio vassoio portai tutto in veranda e apparecchiai spartanamente il tavolo di legno. Tre piatti, tre bicchieri e una brocca d’acqua fresca. I piatti, i bicchieri, le posate, la brocca, erano tutti oggetti che c’erano sempre stati. Sempre uguali, sempre con la loro aria tozza e artigianale. Anche le posate, le uniche cose che i miei avevano comprato in un mercatino dell’usato, avevano l’aria di essere state fatte a mano, battute sopra un incudine e consegnate ai miei da grossi guanti di cuoio bruciacchiato. I piatti e le ciotole li avevano fatti loro due, credo durante un corso di lavorazione della ceramica.
La brocca invece aveva una storia tutta sua.
Mio padre ha sempre adorato camminare, quindi appena poteva si faceva lunghe passeggiate in campagna, a volte su sentieri che già conosceva, a volte guidato dall’istinto e dalla sete di scoprire cosa c’è più in là.
“Mi attraggono i confini” mi diceva sempre, spiegandomi in quattro parole quella voglia di scoprire cosa si nasconde dietro una curva, dietro una collina o dopo uno strapiombo. È così che si scoprono le cose belle. È così che ha trovato la brocca.
Lui la raccontava sempre come una passeggiata meravigliosa. Quando viveva ancora a Roma andava qualche volta a passare il fine settimana da degli amici nella zona di Viterbo. Quella mattina si alzò presto, si mise dei pantaloni spessi, di quelli con i tasconi da operaio, una felpa, gli scarponi e uscì. La casa dei suoi amici era l’ultima di un piccolo paese dimenticato da chiunque, con poche case, poche persone e molti gatti. Dietro la casa la civiltà finiva e cominciava un bosco fitto attraversato solo da un sentiero che partiva da qualche metro dopo la casa. Mio padre quel sentiero l’aveva fatto tante volte, sapeva che dopo una cinquantina di metri cominciava una discesa dolce e poi il sentiero si apriva in due lunghe braccia divergenti. A sinistra continuava a scendere e si andava verso il fiume, a destra saliva. Spesso era andato al fiume a bagnarsi i piedi o a raccogliere l’argilla, questa volta invece scelse di salire. Era stato anche in quel sentiero, sapeva già che avrebbe incontrato un’altra biforcazione che a destra l’avrebbe portato a una casa con un uliveto molto grande, mentre andando a sinistra sarebbe passato per un paio di campi lasciati a pascolo e continuando a salire avrebbe continuato a inoltrarsi nel bosco. Seguì il bosco, senza una meta, semplicemente lasciando andare i piedi e controllando il respiro che, in salita, si faceva più pesante. In altre camminate era arrivato alla fine del bosco, dove cominciava una grande vigna e una vallata coltivata a grano e uliveti. Si era sempre fermato lì a riposare e riprendere fiato prima di tornare indietro. Quella volta c’era un confine che lo chiamava. Era la linea misteriosa di una piccola collina, abbastanza alta da coprire il mondo che le si nascondeva alle spalle. In quel momento era un richiamo troppo forte. La camminata doveva continuare.
Dopo quella piccola collina c’era una valle che si apriva, tagliata in due da un canalone. Come se due colline, una a fianco all’altra, si toccassero, spalla contro spalla, sorreggendosi. La seconda collina aveva sul lato destro una lunga fila di alberi che cingeva quello che sembrava un campo aperto. Più ci si avvicinava e più si scorgeva una vecchia costruzione dall’altro lato del campo. Le poche centinaia di metri che mancavano alla casa erano di avvicinamento circospetto e curioso, seguito dall’abbaiare lontano di cani. Era una casa a due piani praticamente integra ma chiaramente abbandonata. Metà dell’edificio era divorato dall’edera che ne sbarrava la porta e buona parte delle finestre. Girandoci intorno si scopriva che erano due costruzioni contigue unite da quello che era un forno a legna. Il secondo edificio era la stalla. Un grande stanzone col soffitto alto fatto di grandi travi dipinte di un bianco screpolato che col tempo si era in buona parte staccato. Le mangiatoie erano quasi intatte ma riempite di calcinacci e intonaco caduto.
Ma era la casa il pezzo forte. Mio padre raccontava sempre che nel camminare attorno alla casa aveva guardato dentro una finestra e aveva visto una sedia. Una sedia bianca, intatta, rivolta proprio verso la finestra. Quasi lo volesse chiamare. Non poteva non entrare.
Qualcuno aveva sfondato un pezzo della parete a fianco al forno a legna, ricavando un piccolo passaggio che dava nella stanza della sedia. La sala era grande, il pavimento coperto di polvere, piante, legno e calcinacci, le pareti scrostate interrotte da finestre sfondate, un piccolo armadio a muro e un grosso lavello. Il buco di entrata invece era ricavato dentro quello che era stato un grande caminetto.
Poi c’era la sedia, inspiegabilmente con la struttura e l’impagliatura ancora intera, senza neanche troppa polvere sopra. Bianca, a sottolineare ancora di più l’assurdità di tutto quel quadro. In mezzo alla devastazione di un lento abbandono, una sedia bianca rivolta verso la finestra che dava sul campo aperto. Mio padre la descriveva come una situazione incredibile.
Il set di un film.
Le altre stanze erano più o meno devastate allo stesso modo, il piano di sopra era molto luminoso, con le pareti coperte di ragnatele e scritte divertenti e blasfeme.
Prima di uscire dal buco nel caminetto mio padre notò lei. Dentro il lavello, tra vecchie bottiglie di birra vuote e rotte c’era una splendida brocca. Intera, sporca, ma intera. Era capiente, trasparente, senza fronzoli. Bellissima.
Mio padre tornò a casa degli amici due ore e mezza dopo essere partito, sudato, sporco e con una brocca di vetro in mano.
Tutte le storie di mio padre raccontate da lui erano avventure eroiche, anche i posti più squallidi, se scoperti durante una particolare circostanza diventavano luoghi magici.
Tra l’altro, lui adorava raccontare le proprie storie. Era il primo ad emozionarsi mentre faceva facce diverse a seconda di chi parlava, imitava lo sforzo di scalare un pendio aggrappandosi alle radici degli alberi mentre era tranquillamente seduto in poltrona.
Mia madre aveva sentito quelle storie milioni di volte, a volte per prenderlo in giro glielo faceva notare, ma lo faceva sempre finire.
Mia madre, oltre ad aggiustare qualsiasi cosa, scriveva poesie, disegnava e dipingeva. Aveva montagne di quaderni con appunti e schizzi. Completamente autodidatta aveva imparato a dipingere a olio, a scolpire il legno e a mettere insieme poesie di una crudezza disarmante.
Dormiva poco e mi era capitato spesso di tornare tardi e trovarla seduta sul divano a scrivere sui suoi quaderni o a disegnare coi gessetti su grandi fogli di carta fatta in casa recuperando la carta che gli uffici buttavano. Casa era piena dei suoi quadri, negli anni ne aveva persino venduto qualcuno, ma la maggior parte li aveva sempre regalati. Un regalo prezioso diceva lei.
Diceva di avere bisogno di raccontare. Non importava come, poteva essere un quadro, una fotografia, una poesia, un racconto o un piccolo cortometraggio. Aveva mille storie da raccontare. Solo che a differenza di mio padre lei le raccontava con tutti i mezzi tranne che con la parola. Forse si vergognava o semplicemente non era il suo mezzo.
Il segreto per raccontare buone storie è leggerne di più, così diceva lei, puoi avere in mente di raccontare dieci storie, ne devi leggere venti se vuoi saperle raccontare bene.
Quel giorno, dopo la merenda, mi lesse una poesia.
Ha un vago accento dell’est.
Probabilmente portoghese.
Parla veloce, fiato che sa di fumo e baffi ingialliti,
bicchiere di birra a metà che ha perso anche il ricordo della schiuma.
Porta la sigaretta alla bocca e ne ingoia metà.
Ha un cappello a falde di lana. Polveroso.
Come il suo cappotto, il suo maglione e i suoi occhi.
Piccole fessure tra le rughe, probabilmente ricavate con un vecchio scalpello poco affilato.
“Chiamala cloaca. Ora.
È tempo di abbandonare questo fetido labirinto ferito
e lasciare le sue ceneri infette ai millenni a venire.
Che sia giudicata, insultata e calpestata.
Sono questi i pensieri che tappezzano la lunga lingua della tangenziale,
sfrecciano davanti alle finestre annerite e ai tetti di San Lorenzo.
Forme aguzze e piani cadenti, spigoli di macerie e intonaci crepati.
A perdita d’occhio.
Certo, senza mai dimenticare le rovine che sfregiano di tanto in tanto questo affresco dedicato alla follia”
Spegne la sigaretta sopra il muro e mette il mozzicone nella tasca del cappotto.
Ha mani gonfie e coperte di calli,
di chi ha visto le due guerre,
quella del mattino e quella della sera.
“Migliaia di volti. Passano in questo preciso istante davanti ai miei occhi.
Blocca questo fotogramma adesso,
guarda i suoi occhi, la forma incredibile delle sue labbra.
Ha i capelli rossi e una manciata di lentiggini,
sembra persa in questo tappeto d’asfalto e vecchie pietre.
Non scappare.
Questo mi dissi qualche tempo fa guardando il cielo.
Quello che ti insegue non è che la tua ombra, non sono fantasmi o streghe.
Solo l’ombra dall’altro lato della luce.
Vorrò ricordarmelo quando mi specchierò nella prossima pozzanghera.”
Saluta il barista, mette il cappello sopra i lunghi capelli canuti e si avvia,
deciso, verso il palazzo a fianco.
Dentro al portone di legno sparisce, inghiottito dal buio delle vite degli altri.
MI disse di essere stata a Roma qualche settimana prima a trovare zia Grazia, la sorella. Questo era quello che ne era uscito. Mia madre non riusciva a tollerare le grandi città, non più. Ogni volta che andava a trovare zia tornava e parlava della tangenziale est. Zia Grazia abitava in una via che moriva su Via dello Scalo di San Lorenzo. Proprio sopra quella via c’era un tratto di tangenziale, sopraelevata e mostruosa. Una concezione di architettura e urbanismo che mia madre non ha mai accettato. E neanche io.
Dopo la poesia ci abbracciammo e mi disse che era contenta che fossi tornata.
La sera, dopo cena, feci una passeggiata nei sentieri che correvano lungo i campi vicino alla casa. C’era un posto in particolare in cui mi piaceva passeggiare, il bosco edibile che i miei avevano progettato e fatto crescere negli anni. In inglese è la food forest mentre mia madre l’ha sempre chiamato ortobosco. È un modo di progettare un orto imitando la natura, e in particolare il bosco. Si progetta tantissimo all’inizio in modo da far si che poi con gli anni diventi sempre di più un ecosistema autonomo in cui il lavoro umano possa essere il meno possibile. Gli strati, l’assenza di suddivisione e la consociazione sono alla base di questa agricoltura, non c’è aratura, il terreno deve rimanere sempre coperto, proprio come un sottobosco in cui la terra è sempre umida, viva e fertile. Si può partire dai tuberi fino agli alberi da frutto, passando per ortaggi, arbusti e rampicanti. Tutto insieme, nessun filare, nessuna divisione. Almeno, questo è quello che ho sempre capito io. Per i miei era una fonte incredibile di cibo e soddisfazioni, per me era sempre una scoperta. Passeggiare e notare delle piante di fagioli da una parte, più in là gli ultimi peperoni, gli spinaci, l’albero di cachi carico di frutti che si coloravano, il kiwi. Mentre passeggiavo era buio, ma potevo scorgere dei limoni, una vite attorcigliata dolcemente su un melograno. Un modo di fare agricoltura che calzava perfettamente con il modo di vivere dei miei. Ricco di idee, progetti, passioni che si compenetrano e si sviluppano insieme, senza compartimenti stagni, ma in una ibridazione continua.
Era una passeggiata decisamente piacevole.
Faceva freddo, non si gelava, ma il giubbotto era necessario.
Quando faceva freddo mio padre portava sempre dei grandi maglioni di lana, sempre a girocollo. Gli ho visto azzardare un paio di volte il collo alto, ma mai quelli a V.
Anche quella sera aveva uno dei suoi maglioni di lana, nero con delle strisce colorate all’altezza dello stomaco. Quel maglione doveva avere la mia età, se non di più.
Vestiva comodo mio padre. Anche i pantaloni erano sempre abbastanza larghi e le scarpe sempre uguali. Pelle marrone con un grosso nodo a stringere dei lacci. Mi misi a pensare che una persona come mio padre non la notavi sicuramente dal vestiario. Eppure lo notavi. Aveva quello sguardo felice, quel sorriso facile che addolciva tutto. Non aveva la battuta pronta, non era verace, era semplicemente sicuro e calmo. Era uno che suonava la tromba insieme agli amici e le amiche, soprattutto nei dopo cena sparecchiati. Non potevi non notarlo.
Erano persone bellissime i miei genitori. Diversi dai genitori di molti miei amici. Per prenderli in giro spesso gli dicevo che erano dei fricchettoni. Loro facevano finta di prendersela e per un po’ mi rinfacciavano di vivere in città, di inquinare e altre cose. Ma finiva praticamente subito.
Erano davvero bellissimi.
Eppure li ho odiati. Visceralmente. Soprattutto mio padre.
Non c’è mai stato un motivo reale o scatenante, se non la calma imperitura e la sua continua ricerca di una soluzione accomodante per tutti. L’ho odiato per le sue scelte che poi hanno determinato il modo in cui sono cresciuta, il deciso rifiuto per un sacco di cose che avrei voluto nella mia vita e che le mie amiche e i miei amici avevano. Ho odiato lui e mia madre per questo. Li ho ritenuti degli stupidi abbraccia-alberi per un sacco di tempo. Anni. Precisamente gli anni delle medie e del liceo, cioè quelli che in cui ho frequentato le scuole in città.
Purtroppo è una storia abbastanza banale di conflitto tra genitori e figli. Lo è stata. Ero insoddisfatta. Volevo bere la Coca-cola e parlare dei film e dei programmi che gli altri ragazzi vedevano. Volevo mangiare un hamburger e uscire la sera senza l’ansia di farmi venire a prendere o dover chiedere a qualcuno di ospitarmi perché i miei avevano deciso di essere dei campagnoli e io non potevo vivermi la mia vita in pace. Insomma, banali esplosioni giovanili, forse a volte anche giuste, ma che hanno lasciato il tempo che trovavano. Li ho odiati perché non li conoscevo. Non li capivo.
Detestavo il loro concetto di rispetto e di ecosistema, di creare una food forest attorno a casa. I miei amici avevano il cortile o un balcone con due vasi, perché cazzo in casa mia doveva essere tutto più pensato e complesso? Questo è quello che pensavo.
Abbiamo litigato qualche volta, ma niente di veramente serio. Sapevo di volergli bene, sono sempre riuscita a ragionare e a capire che era la loro vita e che non gliela potevo stravolgere dopo anni che se l’erano costruita a modo loro semplicemente perché le mie amiche avevano il balcone col gatto. Però mi giurai di fare l’università il più lontano possibile e di costruirmi la mia vita. Autonomamente, proprio come avevano fatto loro. Ma lo capii col tempo. Come loro. Compresero praticamente subito la mia necessità di volare lontano.
La mattina dopo essere arrivata trovai il pane e la marmellata, frutta secca e le loro mani rilassate. Si svegliavano presto e facendo colazione decidevano cosa fare durante la giornata. Ogni volta che tornavo era come vivere in un mondo parallelo. Tutto era più lento, più calmo. Scesi in cucina e trovai la teiera fumante sulla stufa e loro che sorseggiavano una tisana dividendosi i compiti. C’erano carezze, baci e la luce del sole che abbaiava tutto dalla finestra. Dalla finestra si vedeva quella che abbiamo sempre chiamato la casetta. Era una costruzione di una trentina di metri quadri dove originariamente era collocato il forno a legna e dove, per qualche anno, era stata adibita una residenza per artisti. Sei mesi l’anno arrivavano due artisti, tre mesi ciascuno, e creavano opere. Inizialmente erano opere destinate ad essere disposte in diversi punti della nostra proprietà, poi col passare del tempo venne coinvolto anche il paese vicino e alcune opere vennero inserite in alcune piazze e corti. Lo ricordo come un periodo completamente folle. Casa nostra diventava un porto, persone ovunque. A volte era divertente, altre più pesante. Raramente riuscivo a capire subito quanto fosse bello quello che facevano i miei genitori. Ci ho messo un po’ di anni per accordarmi a loro.
Quella mattina, dopo colazione, andarono in paese a fare delle compere e a incontrare degli amici. Dopo alcune buffe e ironiche raccomandazioni mi lasciarono da sola. Presi la mia tazza di tè fumante e mi misi in veranda. Stretta nel mio pile, nella mia tuta di felpa imbottita e con dei coloratissimi calzettoni di lana ai piedi, conquistai la poltrona in legno.
Ci sono momenti da assaporare con lenta e profonda contemplazione.
Mi misi in testa di dover fare una sorpresa ai miei. Volevo prendere qualche foto vecchia, posizionarla casualmente sul tavolo e aspettarli. Volevo che mi raccontassero delle storie.
Cominciai a frugare in casa come una bambina che scarta i regali.
Era una busta abbastanza anonima, di quelle marroni con dentro uno strato di pluriball che si usa per spedire documenti. Stava immersa in un faldone con vecchie foto e documenti di decenni. C’erano attestati, una laurea di mio padre e pacchi di foto di lui da bambino, con i nonni, sia i suoi che i miei. Stavo cercando vecchie foto, ma mi soffermavo su tutto ciò che trovavo. Documenti, ritagli di giornale o biglietti di concerti, stavo navigando in uno di quei momenti di profonda nostalgia che ti prendono quando torni a casa dei tuoi genitori. Gli album impolverati, con i fogli di plastica sottilissima che servono a non far prendere polvere alle foto, con le copertine disegnate. Un album che sfogliai con estrema attenzione fu quello del matrimonio dei miei nonni, i genitori di mio padre. Sembravano foto vecchie di secoli. La mia bisnonna col costume del suo paese, i piatti rotti per terra, mio nonno con i basettoni. Bellissimi e avvolti in una luce morbida. Della mia infanzia c’erano meno foto stampate, la maggior parte stava in qualche hard disk che mia madre teneva da qualche parte. Però, fortunatamente, proprio mia madre aveva il pallino dello sviluppare le foto. Ogni tanto, in occasione di un viaggio, di una festa, comprava una macchinetta usa e getta, di quelle che penso non producano neanche più e scattava una trentina di foto. Lei diceva che era più bello così. Nessuna posa, nessun “dai rifalla che sono venuto male”, nessun numero esorbitante di foto da salvare. 39 foto. Non mille. Solo quelle per ricordare un viaggio, una serata tra amici. Fissare pochi momenti, magari incomprensibili, per far capire l’atmosfera, per rubare un attimo. Ovviamente c’erano foto fatte meglio e stampate con ottima qualità in giro per casa, soprattutto della mia nascita e crescita, ma queste avevano un sapore diverso. Erano dei pezzi di un puzzle che raggruppava le vite di tante persone e di tante epoche.
Continuai l’esplorazione guardando delle lastre e capendo solo che si trattava di un gomito, guardai un referto medico in cui c’era il nome di mio padre più un secondo nome che non avevo mai sentito, Serafino, e già pregustavo il momento in cui l’avrei preso in giro.
Quella busta era semplicemente lungo un cammino di semplice curiosità.
La aprii come avevo fatto con le altre buste. Dentro c’erano sei plichi di più o meno una decina di pagine, due mini audiocassette e un registratore.
Sul momento fui incuriosita più che altro dalle cassettine. Non ne avevo mai viste. Per me le audiocassette erano mitologia. Sopra c’era solo la marca, nessun’altra scritta che ne potesse identificare il contenuto, solo su una c’era un numero 1 scritto con un pennarello indelebile. Stavo per inserirle in quell’altro pezzo da museo che era il registratore quando lessi distrattamente uno dei documenti che stavano dentro la busta. Era datato 28 Luglio 2018 e nelle prime due righe c’era scritto così:
Alla cortese attenzione della vostra redazione,
Sono Giuseppe Pani e oggi mi farò esplodere davanti al Parlamento italiano.
Giuseppe Pani era mio padre.
Rilessi quelle due righe decine di volte prima di continuare a leggere per capire se era uno scherzo o qualcos’altro.
Istintivamente mi sedetti a terra incrociando le gambe, mi sistemai gli occhiali sul naso e presi il documento.
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