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Storia di una fecondazione poco assistita (dalla mia testa)

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Consegna prevista Dicembre 2024
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Concepito all’impiedi, quasi fosse il tracciato mentale di una stand-up comedy, “Storia di una fecondazione poco assistita (dalla mia testa)” è un continuo scudisciare e accarezzare, ridere e piangere, prendere sul serio e dissacrare il più intimo desiderio di una co(p)pia, la genitorialità.
Con estrema franchezza e con la responsabilità che una prima persona femmina impone, ricostruisco in queste pagine l’iter di una infertilità: dall’urinare sul test di gravidanza al tracollo matrimoniale in regime di separazione dei bagni, dall’infelicità di scoprire che il maschio ama troppo il suo varicocele alla decisione di entrare in un percorso di Procreazione Medicalmente Assistita.
E ora, raccolta in posizione ginecologica, disciplina nella quale sono oro iridato, pronuncio il mio credo: «Credo in una sola ginecologa, ecografista onnipotente, creatrice di beta e progesterone, di embrioni visibili e corpi lutei invisibili…». Il resto della lettura, così sia.

Perché ho scritto questo libro?

Ho scritto questo libro perché nel mentre cerchi un figlio che non arriva accade che tutte le altre restano incinte, e tu resti e basta, con il tuo senso di inadeguatezza e tutti a chiederti: “Perché non fai un figlio?”. Nell’immondo chiacchiericcio che il tema dell’infertilità attira, ho trovato toni dolorosi, motivazionali, parascientifici, escatologici. Mai nessuno che avesse la voglia di riderci su, con intelligenza cinica e tatto, perché vada come vada, restiamo noi e va bene anche così.

ANTEPRIMA NON EDITATA

La vita fertile

Allora cominciamo. La vita fertile di una donna si suddivide più o meno in questi periodi. Ti arriva la prima mestruazione. La fazione delle giovani piccole ipocondriache acculturate, consce del dover bastare a se stesse, accoglie l’evento con un’abbondante dose di depressione stranita. Ciclo uguale sangue, sangue uguale sporco, sporco uguale problema, problema uguale meno libertà. Ora non si sa come si possa già essere consce a undici anni di tutto ciò, ma questo è quanto accade. Ci deve essere una disfunzione del cervello femminile che oscilla tra l’irrefrenabile bisogno di sentirsi donne e il necessario ritorno, a comando, di risentirsi bambine. Un po’ come quando facciamo l’amore. Ci sta la volta che vogliamo essere sbattute, ci sta l’altra volta (che può essere la stessa volta, solo poco dopo) in cui vogliamo essere coccolate. Ma l’argomento «Prossemica femminile del rapporto sessuale» lo affrontiamo dopo. Promesso.

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Torniamo a noi. Questa era la fazione delle piccole donne per le quali «Il corpo è mio e ne faccio quel che voglio». L’altra fazione, quella delle preadolescenti già femmine, preoccupata di tette, culo, farò sesso prima io, accoglie l’arrivo del menarca come una liberazione. A proposito, ci avete mai pensato che menarca è un sostantivo maschile? Ebbene sì. Il ciclo è nostro, i dolori sono nostri, la fase pre e post mestruale è totalmente femminile, la figura di merda di sporcarsi il pantalone bianco al concerto (ditemi che l’avete fatta in molte, vi prego) è nostra, ma il sostantivo che definisce l’inizio dell’età fertile della donna no, quello è maschile. Piccole contraddizioni di una breve storie triste, amen.

Comunque, parlavamo delle “pre-enni” femmine precoci. Ebbene, per loro, la prima mestruazione è un evviva, il convincimento che il corpo non è piatto, un po’ come la terra, salvo poi imbattersi nell’idiozia ipersnobista dei terrapiattisti … ma questa è un’altra storia.

Dunque, dal momento in cui una donna inizia la sua età fertile, tendenzialmente passa un terzo della sua storia a evitare una gravidanza, un terzo a rincorrerla, un terzo a rimpiangere i due terzi precedenti. Questo, a prescindere da come sia andata. Più che matematica, è geometria. Come dice il primo teorema della genitorialità: siamo tutti splendidi con i figli degli altri ma, con i propri, le cose cambiano. Secondo teorema della genitorialità: non esiste alcun teorema della genitorialità.

Ovviamente, un terzo, un terzo e un terzo, sono frazioni che stimano una certa parte di popolazione. Perché c’è chi a un figlio non ci pensa, chi non lo vuole, chi l’ha voluto e non c’è mai riuscita, chi prova ad aspettarlo con la stessa partecipazione con cui si attende l’autobus. Cioè, un misto di rabbia rassegnata all’impotenza. E sto parlando del bus, perché le altre impotenze, almeno quelle, arrivano! Poi c’è chi non dice cosa pensa, chi lo grida in ogni momento, chi si confida, chi confonde, chi si confessa, chi tace, chi continua ad aspettare l’autobus. Ci sono le donne che sanno cosa vogliono, quelle che dicono di saperlo e invece non lo sanno affatto, quelle che dicono una cosa, ma ne vogliono un’altra e lo sanno benissimo. Ci sono le donne che un figlio lo vorrebbero e non possono, quelle che possono ma la legge non lo consente. Ci sono le donne che stanno con le donne, le donne che stanno con gli uomini, quelle che lottano per le donne, altre che soccombono agli uomini. Ci sono gli uomini che amano le donne, quelli che amano gli uomini, chi è oltre l’essere donna o uomo.

Ci sono verità plurime e, in fatto di figli, io che ancora non ne ho, mi sono fatta un’idea talmente precisa da valere adesso, mentre scrivo, e non tra qualche ora, quando avrò spento il pc. Qualunque cosa una donna possa dire, fare, pensare, dichiarare rispetto alla maternità è attendibile quanto la bacheca di Facebook. Per quel che riguarda me, credo i figli siano la cosa più importante, per chi ce li ha e per chi non li ha. Questa, quasi quasi, la posto sul social network.

Fate l’amore finché potete

La ricerca di un figlio può farti impazzire.

All’inizio è tutto bellissimo. Decidi di restare incinta, lo comunichi al partner, fate l’amore e…

No, mi correggo. All’inizio è quasi tutto bellissimo. Decidi di restare incinta, lo comunichi al partner e…

Nemmeno. All’inizio niente è bellissimo. Decidi di restare…

Se non fate l’amore regolarmente, siete già impazziti, per cui proseguire la lettura di questo libro non vi sarà di alcun aiuto. E un eventuale figlio non farà che peggiorare la vostra pazzia.

Non c’è un giorno preciso in cui ho cominciato a volere un figlio, né esiste un attimo specifico in cui abbia detto a me stessa, bene, ora sei fatta grande e prendiamo questa decisione. A un certo punto però hanno cominciato ad accumularsi nella mia spam messaggi del tipo: «Lo shop online per mamme e super bimbi», oppure «Prezzo speciale sui giochi estivi più divertenti», e ancora «Fatti trovare pronta per il rientro a scuola dei tuoi figli». Ciò che mai mi aveva interessata prima, costringendomi a skip ads compulsivi ogni qual volta bramavo l’accesso a un video, ora aveva il pieno possesso della mia attenzione. Ma perché continuavano ad esortarmi a usare un test di ovulazione digitale? Perché il mondo fertile aveva cominciato a bombardarmi con i suoi slogan da bellicismo ormonale e psicotico? Da quando il mio portafogli si era gonfiato di offerte dei biscotti Plasmon? Dove erano finiti i coupon con il diviso tre delle scarpe? La risposta mi si è manifestata in tre sillabe, mentre posavo lo scatolone di biscotti in offerta, nel cofano della macchina. Un vent’enne, con la sua vettura in doppia fila, mi fa: «Mi scusi signora, mi sposto subito!». Allora Ciccio, passi pure il “lei” e il “signora” perché sono più grande di te e non voglio confidenza, ma se ti sposti velocemente perché pensi io abbia un figlio a casa, ti sbagli amico, io a casa non c’ho manco il gatto!

Ni-po-ti, eccola la risposta, ecco la spiegazione. Figli di sorelle, di fratelli, di amici, di colleghi. Insomma una mole di bambini che, a un certo punto della vita, tu incolpevole, prende a circondarti e di fronte alla quale non c’è deep web che tenga.

Ora aspetto la prossima ignara che mi griderà, con in braccio il nipote, la fierezza di essere diventata zia. Sì, sì, stellina. Fai le tue ricerche su internet. Regali di Natale, compleanno, battesimo, regalo per nessuna ricorrenza. Registrati sui siti dell’infanzia per fare i tuoi acquisti online. Compila la tessera degli shop più fighi che possano esserci, per regalare ai tuoi nipoti gli oggetti, che né loro né i loro genitori hanno mai visto prima. Fallo stellina, ti prego, googla e registrati come non ci fosse un domani, prenditi lo scettro di super zia che meriti solo tu. Poi vediamo se non ti vieni a lamentare di essere rimasta nuda e impantanata, come una Venere degli stracci, di fronte al resto del mondo, reale e virtuale, che ha preso a lanciarti messaggi, mica tanto subliminali, sulla maternità. All’inizio sono mezze frasi blande e scostanti, lasciate così, in aria, come briciole in piazza da lanciare ai piccioni. Ma non lo sapete che non si fa? Che è vietato? Che causa sporcizia? Mi riferisco al cominciare a rompere le palle a ventitré anni, mica ai piccioni. Ti dicono: «Eh, io alla tua età …». Alla mia età cosa? Dillo brutta stronza. A ventotto anni ti chiedono, a questo punto incessantemente: «Quando ti fidanzi?». Se ti fidanzi, a trenta ti chiedono, con mitragliate di persona e telefoniche: «Quando ti sposi?». Se ti sposi, a trenta e un giorno cominciano a chiederti: «Quando fai un figlio?». E te lo chiedono tutti, indistintamente e forsennatamente. Da questo momento non te ne liberi più, perché se a trentacinque, trentotto, quaranta, quarantacinque il figlio ancora non ce l’hai, loro non pensano che tu possa non volerli, o che tu non possa averli. Loro non pensano che ti stai già sbattendo nella tua vita ordinaria per essere almeno un po’ felice con te stessa, in relativa pace con l’amore, in consapevole lotta col destino. Loro comunque continueranno a chiederti: «Ma un figlio quando lo fai?». Questo fino a che la demenza non si impadronisce di loro e pure allora, se ti dice sfiga, l’unica cosa di cui si ricorderanno della loro vita sana di mente sarà: «Perché alla fine un figlio non l’hai più fatto?».

Che poi, sapete chi, prima fra tutte e più copiosamente di tutti, ci rompe le palle non appena varchiamo l’impercettibile soglia che ci fa scivolare dall’essere ragazza all’essere donna?

La madre, nostra madre, mia madre, tua madre, la femmina per eccellenza, quella che ce l’hai o non ce l’hai, travestita da zia, da nonna, da amica, da cugina, da educatrice, da suocera no, non ve lo concedo, diventa la tua figura femminile di riferimento. E, per tutta la tua vita, non ha fatto altro che ripeterti: «Sii libera, sii indipendente, pensa a studiare, non ti fidanzare, non ti innamorare, non restare incinta, non ti sposare, non fare come ho fatto io». E tu cresci pensando che la donna ha proprio una vita di merda e invece… è proprio di merda, sì.

Perché tu, per tutta la vita pre e post adolescente, credi a tua madre, le credi, perché lei rappresenta per te tutte le tue future proiezioni. Allora studi perché ti devi emancipare, anche se ancora non sai e forse non lo capirai mai cosa sia davvero questa emancipazione, anche se cominci a subodorare che questo emanciparsi sia un po’ il grande incipit del prendersela in quel posto. Esperienza di vita nella quale, le femmine ipocondriache acculturate si distinguono presto per meriti sul campo.

Tutte noi bambine degli anni ‘90 abbiamo studiato come delle forsennate, più dei nostri fratelli, meglio dei nostri cugini, con più cazzimma dei nostri compagni di banco, perché nostra madre, o quella di cui ci siamo in qualche modo riconosciute figlie, ci ha cresciute nella fata morgana della laurea, traguardo imprescindibile senza del quale non avremmo potuto parlare, pensare, respirare, figliare. Per le nostre coetanee di venti anni prima il motivo era che le loro madri non avevano potuto laurearsi, per noi l’esatto contrario, cioè che le nostre madri si erano magari laureate, ma anche questo non era bastato alla benedetta emancipazione. Allora, lanciate in gare di competizione minorile su chi risponde prima alla maestra, sa meglio a memoria la poesia, sta seduta più composta in classe, non si assenta da scuola nemmeno un giorno, siamo migrate prima nell’adolescenza e poi nella post adolescenza, età gloriose tra i quindici e i vent’anni, dove le madri nutrono un unico terrore: il sesso. Non il loro, che forse hanno smesso di fare, ma quello delle figlie, di noi figlie che vorremmo farlo, vorremmo tantissimo, ma mamma non vuole. Perché non vuole? Perché il sesso sporca, distrae, allontana, ti fa sposare e ti fa avere figli.

E noi, con una conoscenza del sesso che non è mai andata tanto oltre l’incappucciare banane con profilattici, abbiamo cominciato a fare sto benedetto sesso, cioè più o meno, come ci veniva, come meglio ci riusciva, ma sempre in testa con l’urlo di una madre che ci diceva: «Attenta a non restare incinta, che poi non studi, non ti laurei, non vai in Erasmus, ti sposi, non lavori, non ti emancipi».

Ora vi voglio, a sedici, diciotto, vent’anni, prima o dopo fate voi, a tentare di fare sesso avendo fissa negli occhi la faccia di nostra madre disperata e la banana incappucciata, mentre, a scuola, l’unica cosa che ci hanno detto è stata: «Tranquille, un contraccettivo naturale è il metodo Ogino-Knaus».

Non vi ricordate? Conta che ti conta, basta calcolare uno al primo giorno di ciclo ed evitare i giorni dieci, undici, dodici, tredici, quattordici, quindici, sedici e per stare proprio in una botte di ferro, diciassette e diciotto, che sicuro l’ovulazione è passata e non si resta incinte. Inutile dire che sono nati un sacco di figli di nome Ogino e di cognome Knaus!

Ma perché è accaduto tutto questo? Per una sola ragione. Perché, finché noi femmine siamo nella fase dell’età evolutiva genericamente indicata col termine “ragazza”, per le nostre madri, non è morale, non è accettabile, non è giusto avere figli. Bisogna invece studiare, fare esperienze all’estero, imparare le lingue. E, dal momento che non siamo mica sceme, le lingue le abbiamo imparate e pure parecchio! Solo che sempre, di scopata in scopata, con la faccia di nostra madre che continuava a urlarci: «Non restare incinta, è la fine!».

Così siamo diventate prime azioniste della Durex (perché i maschi manco i preservativi sono buoni a comprare), consumatrici seriali della pillola del giorno dopo, diaframma addict, spacciatrici di spermicidi, rappresentanti porta a porta di pillola, mini pillola, cerotti, spirale. Pur di ascoltare nostra madre ed evitare di restare incinte, ci siamo ficcate più cose noi in vagina, di quanta materia, antimateria, radiazione elettromagnetica e nerdate varie sia in grado di assorbire un buco nero.

2024-04-29

Dica33

Il progetto editoriale di Storia di una fecondazione poco assistita (dalla mia testa) va avanti e sono felicissima di condividere con voi l'intervista che ho rilasciato per Dica33, il portale di salute e benessere per il cittadino. Sono stata ospite della rubrica Aperilibri condotta da Mercedes Bradaschia e ho avuto l'opportunità di raccontare il libro, la storia in esso contenuta e un po' di me stessa. Qui il link all'intervista: https://www.dica33.it/notizie/39427/mariantonietta-pugliese-storia-una-fecondazione-poco-assistita.asp, rintracciabile anche su You Tube: https://www.youtube.com/watch?v=-AJL86nuf_Q. Fatemi sapere cosa ne pensate e grazie sempre per il vostro prezioso sostegno!

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Mariantonietta Pugliese
Nata nel 1984, ha vissuto a Putignano, in provincia di Bari, fino ai tempi dell’università. Giornalista dal 2011, laureata in lettere, con un master in giornalismo e comunicazione, vive a Roma e lavora come communication manager.

Sposata, con una bimba, crede negli affetti veri, nel silenzio terapeutico, nel Martini Tonic e nella scrittura che, fra tutte le arti, le è devastante e salvifica.

“Ultimo spettacolo a Buenos Aires” in “Xena Tango. Le strade del tango da Genova a Bunos Aires, Compagnia Nuove Indye, Roma 2014 è la sua prima pubblicazione. La sua ultima è “Non di fame, ma d’amore”, in “Raccontando Roma”, Edizioni Ponte Sisto 2019. Racconto vincitore del Premio Tullio Capocci.

“Storia di una fecondazione poco assistita (dalla mia testa)” è il coraggio di non tacere l’intimo desiderio di maternità, anche quando si è inadatte al concepimento.
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