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Tanto bastava per sapere ogni cosa dell’altro

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Gli anni dell’università sono trascorsi, ma per due amici la laurea non è una fine, bensì un inizio, il punto da cui partire per cercare se stessi altrove. Con zaini, macchine fotografiche e la voglia di esplorare il mondo, attraversano il Sud America da Buenos Aires a Lima, inseguendo la luce, le storie, i volti. Nel cammino incontrano radici e appartenenze, scoprono quanto il sangue e la memoria sappiano annullare le distanze, e quanto ogni incontro – con l’altro, con sé, con la solitudine – sia una forma di conoscenza.

Tra paesaggi immensi e silenzi che pesano più delle parole, comprendono che il mondo è vasto, ma sa farsi intimo, e che la vita è piena, eppure sempre pronta ad accogliere altro.

INQUADRATURA

Villa Hermosa

Il vecchio si alzò di scatto, puntando le braccia sul tavolo. La sedia sulla quale era seduto cadde all’indietro con un tonfo fragoroso. Sua moglie accorse per tirarla su, mentre l’uomo tentava di rimanere in piedi. La platea di parenti si ammutolì, il vecchio alzò il bicchiere colmo di rosso al soffitto e disse: «Nu brindisi a ’sti guaglioni!».

«Salute!» ripetemmo in coro tutti quanti, imitando il gesto dei calici.

Tranne Marco che irruppe sovrastando le voci degli altri e aggiunse con accento non suo: «Alla famiglia!».

«Alla famiglia!» ripeterono tutti. Io risi dentro al tovagliolo.

«’Sto guaglione somiglia tutto a suo nonno» aggiunse il vecchio.

Finalmente bevemmo.

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Come eravamo finiti a cena in casa di sconosciuti dall’altra parte del mondo era una vicenda da non credere. Davanti a noi doveva esserci solamente Lima, e invece avevamo trovato parenti, case da visitare e tavole imbandite.

La calle Rico, che avevamo scovato nella notte piovosa del nostro arrivo, tra una costruzione in mattoni scrostati e un cimitero di ferri arrugginiti, era diventata casa nostra, e Paco ed Esperanza i nostri ospiti. A una settimana dall’arrivo anche questo pareva perso nel tempo, senza una collocazione reale nello spazio e nella memoria.

L’arrivo, il controllo passaporti, Marco che rimedia un bacio furtivo dall’uruguaiana che gli aveva fatto il filo per tutto il tempo del volo, il tassista che ci aveva abbandonati per strada nel buio della periferia, la lunga camminata verso una destinazione che pareva sciogliersi come un’aspirina dentro al bicchiere, e poi quel foglietto a quadretti che mi aveva forzatamente infilato in tasca mia madre e che improvvisamente era diventato l’unico appiglio nella notte, come un faro per la barca al largo di un molo sconosciuto. Avevamo dimenticato ogni passo che ci aveva portati lì e, tra le quattro mura di quella cucina, i vetri appannati delle finestre, il fumo caldo del caffè appena fatto e le pentole che borbottavano già dal primo mattino, ci eravamo ritrovati a casa: tra familiari veri, concreti, affezionati e sinceri.

Le giornate divennero allora scandite da una liturgia sempre uguale: ci alzavamo la mattina e facevamo colazione con Esperanza. Stavamo ad ascoltarla per ore mentre le parole scivolavano sulla cerata a fiori.

Marco aveva finto sin dall’inizio di essere mio fratello e da subito era riuscito a riscuotere più successo di me che mi limitavo a seguirlo tra le strade della periferia di Buenos Aires.

A un paio di cuadras da casa c’era un locutorio dal quale ogni mattina chiamavo Bianca che puntualmente mi chiedeva: «State ancora dai parenti?».

«Sì,» rispondevo vergognandomi «ma domani partiamo» sapendo quanto difficile risultasse ogni giorno prendere quella decisione.

«Andrà bene, lo so» provava a confortarmi ogni volta lei, sfiorando soltanto il motivo per il quale avevo messo diecimila chilometri tra noi due.

Le raccontavo allora della gente che incontravo, delle giornate, delle sensazioni che provavo nell’aver scoperto un mondo del tutto ignoto, eppure così familiare: gli immigrati italiani provenienti dal paese dei miei genitori, in tempi e modi differenti, avevano sentito il bisogno di ritrovarsi e stabilirsi in quella colonia argentina. Bianca, dall’altro capo, se ne stava in silenzio e di tanto in tanto ridacchiava. Poi, dopo avere prosciugato il fiume di cose da raccontare, le chiedevo di lei e restavo ad ascoltarla fino a quando terminavano gli spiccioli e c’era solo il tempo per dire: «Devo andare». Allora riagganciavo e uscivo dalla cabina con l’impressione di non averle detto abbastanza.

Che Villa Hermosa non fosse un posto tranquillo lo avevamo capito dalle eccessive premure con le quali i nostri ospiti pretendevano di tenerci in casa, ma smettemmo quasi subito di avere paura ignorando cosa sarebbe potuto capitare.

La periferia era un posto ruvido, dove nonostante la serenità ispirata dalle case basse e dal reticolo preciso di strade nelle quali erano incastrati i giardini, un’atmosfera cupa si celava dietro ogni cosa: noi tiravamo avanti pensando fosse solo l’inverno.

Così giravamo come turisti, tentando di estorcere ai parenti che incontravamo il maggior numero di informazioni utili che un giorno ci avrebbero fatto arrivare a Lima. Prendevamo nota dei posti da non perdere e immaginavamo un viaggio interminabile: sentire parlare delle Ande le trasferiva dal sogno alla realtà, le concretizzava, e finalmente ce le metteva di fronte, a portata di mano.

Poi tornavamo a casa, spogliandoci dei panni di semplici turisti e indossando quelli dei parenti ospiti. Sin dal primo giorno, infatti, eravamo entrati in un circolo infernale dal quale, anche volendo, non avremmo potuto sottrarci: tutti gli italiani volevano conoscerci, ospitarci, sfamarci. Per farlo, facevano la coda al cospetto di Esperanza per chiederle di averci in casa propria, occupando rapidamente le caselle della nostra agenda immaginaria alla quale avevamo faticosamente imposto il limite di una settimana. Senza saperlo, in un posto dalla geografia sconosciuta, eravamo sbarcati al sud. Il sud dei pranzi interminabili, degli adulti a tavola e i bambini in un tavolino separato, della padrona di casa che non si siede mai e quando lo fa, tiene una gamba rivolta verso la cucina per essere pronta a rimestare nella pentola e prendere altro cibo, dei fiaschi di vino rosso, delle partite chiassose a scopa o tressette, della frutta secca a fine pasto, del caffè, della grappa, delle parannanze, del fritto, dei santi con le aureole alle pareti, delle risate sguaiate, del dialetto arcaico e della pasta al ragù consumato da ore di cottura. Lo stesso sud che ricordavo da bambino ma che lì, a distanza incolmabile dal luogo dove ero cresciuto, aveva improvvisamente un sapore più forte. Autentico.

2025-05-13

Evento

Shakespeare&co Il 13 maggio ci vediamo alla Certosa per parlare di Sudamerica, viaggi, speranze, precarietà, amicizia e fotografia. L'appuntamento è alle 19:00 da Shakespeare&co, Via dei Savorgnan, 72 - ROMA
2025-04-15

Evento

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Cari amici, il 15 aprile presento la campagna e il libro insieme a Sergio Lo Gatto, giornalista e docente universitario.

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Michele Tosto
È nato nel 1980, ha trascorso l’infanzia a Roma, l’adolescenza nel Sannio ed è ritornato nella capitale a diciannove anni per restarci. Ha una figlia, alcuni amici veri, cammina, legge, lavora, ama, porta avanti una grande carriera da tecnico di FC, canta De Gregori o Guccini sotto la doccia, trascorre le domeniche in curva urlando Giallorossa e unica. Qualche volta scrive.
Tanto bastava per sapere ogni cosa dell’altro è il suo primo romanzo.
Michele Tosto on Instagram
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