Come eravamo finiti a cena in casa di sconosciuti dall’altra parte del mondo era una vicenda da non credere. Davanti a noi doveva esserci solamente Lima, e invece avevamo trovato parenti, case da visitare e tavole imbandite.
La calle Rico, che avevamo scovato nella notte piovosa del nostro arrivo, tra una costruzione in mattoni scrostati e un cimitero di ferri arrugginiti, era diventata casa nostra, e Paco ed Esperanza i nostri ospiti. A una settimana dall’arrivo anche questo pareva perso nel tempo, senza una collocazione reale nello spazio e nella memoria.
L’arrivo, il controllo passaporti, Marco che rimedia un bacio furtivo dall’uruguaiana che gli aveva fatto il filo per tutto il tempo del volo, il tassista che ci aveva abbandonati per strada nel buio della periferia, la lunga camminata verso una destinazione che pareva sciogliersi come un’aspirina dentro al bicchiere, e poi quel foglietto a quadretti che mi aveva forzatamente infilato in tasca mia madre e che improvvisamente era diventato l’unico appiglio nella notte, come un faro per la barca al largo di un molo sconosciuto. Avevamo dimenticato ogni passo che ci aveva portati lì e, tra le quattro mura di quella cucina, i vetri appannati delle finestre, il fumo caldo del caffè appena fatto e le pentole che borbottavano già dal primo mattino, ci eravamo ritrovati a casa: tra familiari veri, concreti, affezionati e sinceri.
Le giornate divennero allora scandite da una liturgia sempre uguale: ci alzavamo la mattina e facevamo colazione con Esperanza. Stavamo ad ascoltarla per ore mentre le parole scivolavano sulla cerata a fiori.
Marco aveva finto sin dall’inizio di essere mio fratello e da subito era riuscito a riscuotere più successo di me che mi limitavo a seguirlo tra le strade della periferia di Buenos Aires.
A un paio di cuadras da casa c’era un locutorio dal quale ogni mattina chiamavo Bianca che puntualmente mi chiedeva: «State ancora dai parenti?».
«Sì,» rispondevo vergognandomi «ma domani partiamo» sapendo quanto difficile risultasse ogni giorno prendere quella decisione.
«Andrà bene, lo so» provava a confortarmi ogni volta lei, sfiorando soltanto il motivo per il quale avevo messo diecimila chilometri tra noi due.
Le raccontavo allora della gente che incontravo, delle giornate, delle sensazioni che provavo nell’aver scoperto un mondo del tutto ignoto, eppure così familiare: gli immigrati italiani provenienti dal paese dei miei genitori, in tempi e modi differenti, avevano sentito il bisogno di ritrovarsi e stabilirsi in quella colonia argentina. Bianca, dall’altro capo, se ne stava in silenzio e di tanto in tanto ridacchiava. Poi, dopo avere prosciugato il fiume di cose da raccontare, le chiedevo di lei e restavo ad ascoltarla fino a quando terminavano gli spiccioli e c’era solo il tempo per dire: «Devo andare». Allora riagganciavo e uscivo dalla cabina con l’impressione di non averle detto abbastanza.
Che Villa Hermosa non fosse un posto tranquillo lo avevamo capito dalle eccessive premure con le quali i nostri ospiti pretendevano di tenerci in casa, ma smettemmo quasi subito di avere paura ignorando cosa sarebbe potuto capitare.
La periferia era un posto ruvido, dove nonostante la serenità ispirata dalle case basse e dal reticolo preciso di strade nelle quali erano incastrati i giardini, un’atmosfera cupa si celava dietro ogni cosa: noi tiravamo avanti pensando fosse solo l’inverno.
Così giravamo come turisti, tentando di estorcere ai parenti che incontravamo il maggior numero di informazioni utili che un giorno ci avrebbero fatto arrivare a Lima. Prendevamo nota dei posti da non perdere e immaginavamo un viaggio interminabile: sentire parlare delle Ande le trasferiva dal sogno alla realtà, le concretizzava, e finalmente ce le metteva di fronte, a portata di mano.
Poi tornavamo a casa, spogliandoci dei panni di semplici turisti e indossando quelli dei parenti ospiti. Sin dal primo giorno, infatti, eravamo entrati in un circolo infernale dal quale, anche volendo, non avremmo potuto sottrarci: tutti gli italiani volevano conoscerci, ospitarci, sfamarci. Per farlo, facevano la coda al cospetto di Esperanza per chiederle di averci in casa propria, occupando rapidamente le caselle della nostra agenda immaginaria alla quale avevamo faticosamente imposto il limite di una settimana. Senza saperlo, in un posto dalla geografia sconosciuta, eravamo sbarcati al sud. Il sud dei pranzi interminabili, degli adulti a tavola e i bambini in un tavolino separato, della padrona di casa che non si siede mai e quando lo fa, tiene una gamba rivolta verso la cucina per essere pronta a rimestare nella pentola e prendere altro cibo, dei fiaschi di vino rosso, delle partite chiassose a scopa o tressette, della frutta secca a fine pasto, del caffè, della grappa, delle parannanze, del fritto, dei santi con le aureole alle pareti, delle risate sguaiate, del dialetto arcaico e della pasta al ragù consumato da ore di cottura. Lo stesso sud che ricordavo da bambino ma che lì, a distanza incolmabile dal luogo dove ero cresciuto, aveva improvvisamente un sapore più forte. Autentico.
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