Chiara, nonostante tutto, per me era stata la porta d’ingresso alla fotografia. Suo padre con un camper faceva il giro dell’Europa, comprava corpi macchina e obiettivi e li rivendeva clandestinamente a prezzo raddoppiato in Italia. Io allora avevo solamente una vecchia Yashica meccanica. Chiara me lo presentò, lui s’arricciò i baffi e disse:
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- Giovane, non bisogna affezionarsi alle cose, – mi mise in mano una Minolta elettronica e mi diede una pacca sulla spalla.
Gli mollai la differenza e cominciai a scattare dentro un mirino luminoso. Per questo sono affezionato al ricordo di Chiara, anche se non l’ho più vista e non ne ho saputo più niente.
Purmamarca era un punto impercettibile sulla mappa a grande scala, un quadrato di case, mattoni, conci, cactus e ostie incastrate nel tabernacolo della chiesa col tetto spiovente come il telo di una madonna sotto l’eterno riparo della montagna. La base migliore per osservare il Cerro de los siete colores: il massiccio granitico che, stando a quanto ci avevano detto, aveva il potere ipnotico di cambiare colore nel corso della giornata.
Un vecchio scuolabus sgangherato c’avrebbe portato fino al villaggio, verso quel nord e quelle montagne alle quali puntavamo ostinatamente, a 1500 chilometri da Buenos Aires e distanza incolmabile dall’arrivo.
All’improvviso l’autobus si fermò. Fuori del finestrino il manto della notte ricopriva qualunque cosa. L’autista fece una torsione all’indietro e urlò “Purmamarca!”. Io guardai la notte cercando di scorgere un appiglio al quale affidare quel toponimo mentre Marco dormiva ancora indefesso: non poteva essere la nostra fermata. L’autista continuò a urlare. Lo raggiunsi allora attraversando lo stretto corridoio:
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- ¿Es esto Purmamarca? – gli chiesi.
- ¡Sí, muévanse, muévanse! – rispose lui.
Gli altri passeggeri seduti e annoiati ci guardarono indifferenti mentre ammucchiavamo gli zaini sul ciglio del precipizio e restavamo gli unici umani nel raggio di chilometri. Le due luci rosse e parallele dell’autobus sparirono dietro una curva e la pece della notte ci ingoiò.
Tutto intorno c’erano solo le montagne, eravamo sopra le montagne, dentro le montagne. A 360 gradi non c’era nulla di visibile, solo la notte occupava lo spazio sterminato. Sopra le nostre teste però, una galassia di stelle che non avevamo mai visto ci diede il benvenuto: una distesa di lucine bianche affollava un cielo meno scuro. Il fumo dei nostri fiati si colorava del colore delle stelle e la mente dimenticò il freddo e si fece rapire. Una luna superba, bianca e nitida stava, come un direttore d’orchestra, al centro della galassia. Pallida in viso e avvolta da un mantello di stelle, governava lo spazio, i cieli, la terra, le cose.
La nostra realtà era però precaria e lo stupore fu immediatamente svestito dall’angoscia:
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- dove cazzo siamo? – chiesi a Marco.
- Non ne ho idea, – rispose, – fa un freddo cane.
- E adesso?
Il cerchio completo intorno a noi era l’immensità vuota ma, più avanti, sulla strada che aveva ingoiato l’autobus, si vedeva una lucina rossa intermittente. Il tremolio delle stelle era sufficiente a guidarci nella notte e, a mano a mano che i minuti passavano, gli occhi sembravano ambientarsi. Più avanti, sulla strada, trovammo una casetta di legno e dietro la lucina rossa, un militare immerso nel fumo della sua sigaretta e nella quiete della notte. Ci guardò arrivare senza timore. Era un ragazzo di vent’anni, con una divisa militare, gli anfibi e un giubbottone con l’interno di lana. Le nostre voci rimbombarono nella notte che faceva da cassa di risonanza mentre lo salutavamo. Quello ci guardò fingendo di non stupirsi e senza comporre una frase completa racchiuse il suo stupore in un “que coño…”.
Disse di entrare nella casupola e spalancò la porticina di legno. Un ambiente scarno, riempito da una semplice branda con le coperte di lana disfatte, un tavolino e una sedia erano il suo riparo. Nient’altro. Mi fece impressione pensare a quel ragazzo solo nella notte desolata.
Prese posto sulla sedia mentre noi due ci sedevamo sul suo letto.
Marco tirò fuori il fidato thermos dallo zaino e si mise a preparare un mate. Il soldato si sciolse un po’: eravamo un punto nello spazio.
Quella postazione di passaggio serviva a sorvegliare la strada perché vicina alla Bolivia, spiegò il soldato. Quella notte era il suo turno di guardia e il giorno dopo sarebbe tornato nella caserma di San Salvador de Jujuy. Purmamarca stava a tre chilometri: una strada si inerpicava sulle montagne per raggiungere il pueblo ma, a quell’ora della notte, senza guida e senza luci, era impossibile arrivarci.
Così, mentre lui finiva il suo turno di guardia fuori della capanna, noi due ci sdraiammo sulla branda e dormimmo le ultime due ore prima del mattino.
D’improvviso una luce tagliente penetrò dalla finestrella e il legno della casetta si tinse del suo colore originale e vivo: era finalmente giorno.
Rafael, questo il nome del soldato, apparve dalla porta e io, che ero già sveglio, lo vidi entrare e armeggiare con un fornelletto da campo. Alla fine riuscì ad accenderlo e mise a scaldare una moka. L’aroma forte del caffè invase la stanza e riscosse anche Marco.
Il caffè aveva un sapore che non scorderò mai mentre il giorno disegnava forme e colori. Un paesaggio lunare riempiva ovunque la vista e la roccia predominante era tutto intorno. La temperatura era salita, il cielo era di un azzurro cobalto, pulito, senza nuvole. La strada correva tra le montagne stringendosi ora in curve, ora riprendendo la direzione dritta, ora salendo, ora scendendo. La vegetazione era arida e il paesaggio brullo.
Rafael ci mostrò la strada che si inerpicava verso Purmamarca e ci spiegò che, con un po’ di fortuna, sarebbe prima o poi passata una macchina che ci avrebbe raccattato. Eravamo però impazienti e volevamo camminare, così salutammo il compagno della notte, imbracciammo gli zaini e partimmo a piedi.
Gli zaini sembravano però pesanti e ogni passo pareva affondare nel fango e, dopo poche decine di metri, eravamo già disfatti e stanchi. L’andatura divenne sempre più lenta e cedevole mentre non rimaneva più niente né davanti né dietro: distrutti ci afflosciammo sugli zaini. Non passarono più di dieci minuti che però udimmo penetrare tra la roccia il rumore inconfondibile di un motore sotto sforzo. Ci piazzammo al centro della strada: avrebbero dovuto investirci per passare. Da dietro una curva apparve un pulmino danzante. L’autista frenò bruscamente e il motore si spense. La porta si aprì mentre in coro ripetevamo “Purmamarca! Purmamarca! Purmamarca!”. L’uomo al volante sorrise mentre il resto della ciurma, una decina di turisti orientali, ci guardava sbalordita.
In pochi minuti fummo a Purmamarca. L’autobus, avvolto in un polverone sabbioso, entrò nel villaggio attraverso una strada sterrata e fermò nel centro di una piazza, il fulcro del paese. Tutto intorno c’erano bancarelle che vendevano cianfrusaglie e tessuti colorati, mentre ad un lato stava solitaria e austera una chiesetta bianca.
La piazza era il centro, il lato e la fine del paese. Tutto era lì, racchiuso in quell’incrocio di strade di sabbia e sassi. Intorno, sparute case bianche con le pareti consumate dal vento e dagli anni, costituivano il villaggio, mentre una popolazione di poche anime riempiva le strade, avvolta nei suoi panni colorati e intenta nelle sue attività.
Dietro al bancone di un locale coi tavoli a vista stava un uomo avvolto in un poncho. Gli chiedemmo se conosceva un posto dove passare la notte e rispose che era difficile che i turisti si fermassero a Purmamarca: solitamente, arrivavano, scattavano fotografie, compravano souvenir e se ne andavano com’erano venuti. Uscì però da dietro al bancone e ci condusse attraverso un corridoio mattonato all’aperto, nel cortile interno della casa. Ai lati del vialetto c’erano due porte di legno grezzo. Ne aprì una e ci mostrò una camera spoglia con quattro letti a castello.
Non fu difficile individuare la montagna che cercavamo perché il paese stava poggiato esattamente alle sue pendici. A quell’ora del mattino, la montagna stava quieta e solitaria, variegata in due, tre colori. La base era di un colore marrone, mentre via via che si saliva con lo sguardo, la cima rastremata si tingeva di ocra intervallato di filari più scuri. Decidemmo di attendere il momento migliore per scattare delle foto, ammucchiando dei massi per farci un sedile. Alle nostre spalle stava sdraiato il villaggio, tranquillo e indifferente. Eravamo soli. Di tanto in tanto, a mano a mano che il giorno si componeva, la montagna cambiava aspetto e si vestiva di un abito nuovo. Mentre il giorno procedendo cambiava l’aria, tingendola delle quattro stagioni. Quando eravamo saliti sul ciglio era mattino, la primavera fresca e ammaliante, nel corso della giornata giunse l’estate, torrida e accecante con i suoi colori bruciati e indistinguibili. Al pomeriggio arrivò l’autunno, con le sue arie malinconiche e le tinte rossastre, la sua aria placida, svogliata e graffiante. Poi, verso sera, sopraggiunse l’inverno, gelato e tagliente, affilato come un foglio di carta. Così, seduti su quelle pietre dure, trascorremmo l’intera giornata, vivendo le quattro stagioni del tempo, soffrendo per il caldo e poi per il freddo. Durante l’autunno però l’attesa fu ricompensata e la montagna ci premiò rivelando i suoi sette veri colori. Mentre, dietro la sua cima, il giorno si trasformava in tramonto e il sole moriva, le pareti della roccia rivelarono la loro composizione stratigrafica e la montagna si trasformò in teatro e inscenò uno spettacolo cromatico di rosso, blu, grigio, giallo, nero, bianco e verde. Vidi tutto questo attraverso il mirino della mia macchina fotografica, tentando ripetutamente di ritrarre lo spettacolo che la montagna a noi aveva riservato.
Schiacciavo il dito sopra al pulsante e nel clank clank della tendina sentivo l’impressione di star perdendo qualcosa, come se quel panorama enorme non sarebbe mai potuto entrare in un semplice fotogramma di 35 millimetri. E dentro quel mirino vidi lo spettacolo iniziare e finire.
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- scendiamo, – dissi ad un tratto mentre mi scoprivo le braccia arse dal sole e la temperatura farsi pungente.
- Scendiamo, – rispose Marco, – è stato uno spettacolo, no?
- Sì, – risposi nascondendo la preoccupazione che covavo, – speriamo siano venute delle belle foto.
La piazza era spoglia, disadorna, priva del bailamme del mattino e del brulicare di turisti.
Purmamarca, autentica e concreta, era davanti a noi.
Nel ristorante-albergo la sala era quasi spoglia, ad eccezione di un paio di tavoli occupati da famiglie di locali.
La notte era calma e fredda, la nostra stanza accogliente. Al lume di una lucina mi misi ad aggiornare il diario. Infilai le cuffie nelle orecchie e il Boss cantò per me No surrender. Il mio compagno, invece, raggomitolato dentro al letto, sfogliava le foto scattate sullo schermo della macchina fotografica. Forse ignorandolo, eravamo dentro al viaggio che avevamo sempre sognato.
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