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Ora che il tempo non vola più

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Come si può seguire un filo logico quando una mente naviga nel mare dei ricordi? Come può L decidere quando e come scrivere di Mandorla, la donna che amava e che ama?
L è sempre stato impaurito dal futuro; preoccupandosi inutilmente di eventi che non sarebbero mai avvenuti si è consumato la vita. Mandorla non è mai riuscita ad accettarlo, così un giorno ha preparato le valige e ha sbattuto la porta del loro appartamento. Ma, ancora una volta, L non riesce ad affrontare in modo diretto il distacco e si rifugia nella scrittura di lettere che Mandorla non leggerà mai, creando un monologo in cui rievoca il loro primo incontro, alcuni momenti della loro convivenza e le sue paure.

L alimenta continuamente il ricordo che ha di lei, il distacco si trascina, fino a divenire impossibile per lui. Come ci si può staccare da qualcosa che non si è perso? L ci insegnerà che per alcune persone l’intensità di un secondo può passare in un istante, mentre per altre durare un’eternità.

LETTERA PRIMA –
ORA COME ALLORA
Cara Mandorla,
mi era bastato un tuo sguardo per immaginarmi
una vita e qualche giorno in più insieme a te.
Sono le esatte parole che ti avrei scritto e imbucato
nella cassetta delle lettere la mattina del nostro quarto
anniversario, come ho sempre fatto ogni 25 maggio.
Avrei preparato la mia “pergamena” in modo accurato,
bruciando i bordi del foglio prescelto, come da piccola
facevi tu, facendo attenzione che non presentasse righe
o quadretti perché le parole scritte col mio corsivo
sinuoso che tanto ti piaceva avrebbero dovuto viaggiare
libere nello spazio messo a loro disposizione. Avrei
cercato poi di dare una forma a tutto quello che vomitavo
attraverso la penna, in modo che venisse fuori un
disordine di parole che avrebbe potuto far fremere la
tua anima, se mai tu ne avessi avuta una.Continua a leggere
Continua a leggere

Adesso invece è la mia anima che si perde. Lo fa tra
le strade della nostalgia, che è in grado di far bruciare
il mio petto. Bruciando al solo tuo pensiero, ogni volta
che torni alla mia memoria, aumenta la cenere che porto
con me. Tossisco nuvole di fumo e gocce di catrame,
ma questo è un prezzo che pago volentieri per ricordare
perfettamente ogni curva del tuo sorriso, le fossette
che la tua pelle chiara formava a ogni tuo cambio d’espressione,
il suono della tua voce e le sue linee sinuose che facevano
vibrare le mie arterie. E poi le sinfonie
che creavi con le tue dita sulla mia armatura, quando
dolcemente accarezzavi il mio corpo inerme, mentre
nudo mi poggiavo sulle tue gambe lisce, ancora sudate
dopo aver fatto l’amore (o sesso, se eri tu a dirlo).
Da quando sei volata via il mio tempo non vola più,
non riesco più a sentire il tic-tac dell’orologio,
quel rumore che odiavi così tanto e che il destino beffardo ha
voluto zittire nello stesso istante in cui i tuoi passi
hanno smesso di fare eco dentro casa, ma non dentro di me.
Riesco ancora a sentire il tuo Narciso che si aggrappa
alle lenzuola, ma piano piano allenta la presa, prima o
poi si dissolverà. Dovrei comprarne un flacone e farci
colazione, sarebbe di certo la degna fine di un decadente.
Adesso chiudo gli occhi e respiro forte, ed ecco
che il buio viene squarciato dalle onde di luce che
attraversano i tuoi capelli lisci, le onde del tuo corpo
che variano col tuo modo di vestire e che io non riesco
mai a decifrare. Il rosso che ti si incolla addosso come
quella notte nel nostro appartamento in Grecia, dove
posso ascoltare ancora la musica provenire da qualche
playlist casuale del tuo cellulare, e vivo il ricordo
opaco dettato da postumi dell’alcol di sette notti nutrite
da paura dell’abbandono e da “per sempre” mescolati
senza rispettare alcuna proporzione.
Ti vedo seduta mentre ti allacci le scarpe e poi
allo specchio quando ti sistemi il rossetto intonato
al vestito. Posso circumnavigare tutte le tue isole con
le mie mani tremanti, come se fossero navi scosse da
un vento impetuoso. Posso baciarti il collo, respirando
dolcemente dietro il tuo orecchio per drogarmi del
tuo profumo. Ti metto i brividi. Sorridi e ti scansi
leggermente. Gioco con le dita tra le tue gambe e ti sfioro
quel che basta per sentirmi dire con tono divertito ma
castrato: “Smetti, L, dobbiamo andare!”.
Adesso mi basterebbe solo stringerti forte al
mio petto per trasmettere il tuo battito cardiaco al
mio cuore in ibernazione. Vorrei abbracciarti come
un polpo rischiando di stritolarti e sussurrarti che è
solo colpa mia. Poi staccarmi dalla culla perfetta che
la tua spalla forma col tuo collo per accogliere i miei
ricci, guardarti negli occhi e senza dire niente farti
capire che adesso sono di nuovo io, che sono guarito,
che tutta questa libertà mi rende solo insicuro, che
sei tu a rendermi libero davvero. Ti convincerei mettendoti
davanti a tutto, questa volta, perché io voglio
te, ora e sempre.
Mi cullo un po’ nella mia fantasia e iniziano a
tremarmi le gambe di paura non appena rinvengo dai
miei sogni. Così penso che se avessi messo la metà
della cura che metto nelle mie fantasie in quello che
avevo, potrei dirti ora che ti amo. Ma tu chissà se mai
leggerai queste mie parole, e chissà se ne riderai, se le
straccerai in mille pezzi, oppure se sorriderai ripensando
a tutto quello che siamo stati e a tutti i ricordi
che hanno creato una dittatura nei miei pensieri.
Cosa starai facendo mentre scrivo tutto questo?
Magari per un po’ stanotte mi penserai. Se anche sarà
solo per un istante, sappi che in quell’istante entrambi
ci penseremo. Come faccio a esserne così sicuro?
Semplice, io penso sempre a te. Sei stata la mia Luna
e il mio Sole per così tanto tempo che adesso, senza di
te, i miei giorni non iniziano e non volgono al termine.
Come posso guarire se ogni giorno è sempre l’ultimo
che ho passato con te? Non c’è cura per chi perde il
cuore e lo ritrova infilzato alle lancette del tempo.
Allora non mi rimane che continuare a pensarti,
scrivendo pochi versi strazianti che tu nemmeno leggerai,
lasciando al mio veleno il potere di plagiarmi
ancora una volta, ancora un po’. Rimarrò testa di serie
del sacchetto di coriandoli che hai limato da tutti
i cuori che hai infranto, e ci soffierai lontano come
bolle di sapone che bruceranno guardando te che sei
il nostro Sole.
Scriverò di te. Scriverò a te. Abbracciato all’idea
che un giorno, presto o tardi, tu possa tornare da me.
L

LETTERA SECONDA
Cara Mandorla,
colorerò poesie su Polaroid di ricordi opachi.
L

LETTERA TERZA –
L’INIZIO
Cara Mandorla,
ho sempre immaginato che ci saremmo trovati
casualmente in uno di quegli incontri dettati unicamente dal destino.
Il tuo treno in ritardo, la ruota della mia Batmobile forata,
quel semaforo sempre rosso
per una volta verde, l’ombrello lasciato a casa, il tuo
cinema preferito chiuso per ferie estive in ottobre.
La tua borsetta che si incastra nella cinghia del mio
impermeabile posato sullo schienale della poltrona
della caffetteria dove stavo bevendo caffè scuro. Tu
che perdi l’equilibrio e ti poggi tra le mie ginocchia, i
nostri sguardi che si specchiano mentre il tuo tè caldo
ci bagna i piedi e il rumore delle porcellane crea un
frastuono a noi sordo, perché nulla di più bello e puro
di quel momento sarebbe mai esistito.
Ho sempre immaginato che avrei trovato la persona con cui
specchiare il mio sguardo così, casualmente, in uno di
quegli incontri dettati unicamente
dal destino, e così per noi è stato. Eri seduta a fumare
Marlboro rosse sulle scale antincendio della facoltà
di Medicina di Perugia, era il primo anno e sognavi di
diventare un neurochirurgo, ma ancora tutto questo
non lo sapevo. Io salivo gli scalini cigolanti di metallo
arrugginito e fantasticavo sul mio futuro da psichiatra,
mentre con le dita armeggiavo del tabacco nella
speranza di riuscire a finire di costruire il drum prima
di raggiungere il tuo scalino, così da avere tempo
per chiederti un accendino e magari fare due, tre o
quattro chiacchiere.
“Non dovremmo fumare, non è molto consono alla
professione che sogniamo di fare!” ti dissi con labbra
ferme mentre stringevo tra i denti la mia sigaretta
artigianale e con le mani mi frugavo nelle tasche per una
finta ricerca di fuoco. Quello che mi hai dato tu.
“Sono sicura che il giorno in cui smetterò sarà
lo stesso in cui un’auto mi investirà, o magari sarà
un’ambulanza a investirmi. Sarebbe un bel colmo!
Smetterò prima o poi, ma non adesso.” E invece non
ci siamo mai riusciti.
Ti ascoltavo parlare di test d’ammissione passati
ed esami futuri, e si vedeva bene che appartenevi già
a qualcun altro, non lo nascondevi affatto, perché per
cuori puri come i nostri può esserci solo un protagonista
nel cinema dei pensieri. Per me il resto del mondo
continua a non esistere nemmeno adesso.
Il mio essere dandy e il tuo stile bohémien non si
incastrarono nel puzzle che sognavo già di costruire,
almeno per il momento, almeno per quei primi mesi
di corsi insieme. Chissà se anche adesso hai bisogno
solo di qualche mese prima di tornare a posizionare il
tuo pezzetto mancante nel vuoto che hai lasciato.
Ti guardavo in disparte mentre seguivi tutte le
lezioni in prima fila e adoravo il tuo cinismo quando
con aria autoritaria ti voltavi verso le file posteriori,
zittendole perché non riuscivi a seguire per via
del loro chiacchiericcio. Ti importava solo di te, non
dell’opinione di chi ti circondava, per questo splendevi
di luce propria senza il bisogno di essere sostenuta
da nessuno.
Io cercavo di non considerarti e di non darti più
importanza di quella che in quel momento avrei già
voluto meritassi. Giocavo con te come giocano i bambini
all’asilo, attirando la tua attenzione in modo goffo
e impacciato, come se non avessi mai flirtato con altra
ragazza prima di allora, come se con te fosse tutto una
prima volta, dove la paura di sbagliare e commettere
un errore la faceva da padrona. Tu questo lo vedevi e
forse ne eri anche compiaciuta.
Ogni volta che entravo in aula e il mio sguardo non
ti trovava all’istante guardando la prima fila mi sentivo
come si sente ogni alunno quando alle elementari
scorda il quaderno con i compiti a casa: inadeguato,
vuoto, sbagliato, perso. Tutto questo mi spaventava,
perché sapevo già che se fossi entrata nel mazzo della
mia vita, lo avresti fatto senza chiedere il permesso,
mescolando tutte le carte che disegnavano stancamente
il mio equilibrio precario.
Hai sganciato una bomba nel raccordo autostradale delle
mie arterie. Se non fosse stato per l’incombente esame
di Fisica, per il quale immancabilmente
non avevo studiato nulla a pochi giorni dallo scritto,
non avrei mai trovato la scusa per avvicinarmi ancora
a te prima dell’inizio dell’estate. Ti ho chiesto gli
appunti e tu non potevi e non volevi dirmi di no, perché
diciamocelo, sentivi anche tu che tra noi prima o poi
sarebbe dovuto succedere qualcosa, non sapevamo
bene cosa ma sicuramente qualcosa.
Con fare furbesco, dopo aver rubato un ventisette, ti ho
invitata a prendere una birra per ringraziarti.
Una birra che non abbiamo mai bevuto perché abbiamo passato
la notte a passeggiare sotto le stelle parlando di noi,
cercando di capire senza esporci troppo
se uno dei due fosse in grado di riconoscere qualche
costellazione. Eri già tutte le mie stelle.
“Sai, io sono un tipo al quale piace conoscere tutte le
persone, ma conoscerle in un modo inusuale.
Non voglio sapere quanti fratelli hai, che lavoro fanno
i tuoi, il tuo segno zodiacale o a quanti anni hai
fatto sesso per la prima volta, ma mi piacerebbe sapere
quali sono i tuoi sogni, quali sono le tue paure.
Diciamo che voglio sapere cose fuori dal comune per
capire davvero che tipo di persona sei” ti dissi con
aria compiaciuta.
E tu prontamente: “Be’, se fai la stessa domanda
fuori dal comune a tutte le persone e le donne che vuoi
conoscere, diventa una domanda non poi tanto fuori
dal comune”. Ecco, in quel momento ho capito che tu
eri diversa dalla maggior parte delle persone che avevo
frequentato, e mi spaventavi, perché mi avevi già
dimostrato che eri in grado di farmi cambiare idea.
Adesso ci vedo ancora dentro la tua Fiesta blu ad
ascoltare musica che ti fa ridere per i testi “originali”
mentre l’orologio sta a cavallo tra il 24 notte e il 25
mattina, tu che giochi con la tua gonna verde, io che
poggio la mia mano sulla spalla della tua giacca scura
e lentamente mi avvicino al tuo viso, ti scosto i capelli
e appena ci sfioriamo le labbra penso: Questa volta mi
innamoro davvero.
L

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Commenti

  1. Grazie di cuore per le belle parole Agnese! Spero che il libro su carta possa emozionarti ancora di piú! Un abbraccio

  2. (proprietario verificato)

    Ho avuto l opportunità di leggere questo libro quasi per caso. Quel caso fortunato che ti cambia la giornata e in qualche modo anche una parte di te.
    E’ bello vedere che in questo mondo esistono ancora persone che credono nelle loro passioni.
    E’ bello vedere persone che credono nei sentimenti e nelle emozioni e riescono ad esternarli attraverso la passione stessa.
    E’ stato bello mettermi in discussione leggendo queste pagine , credermi abbastanza forte ma ritrovarmi travolta da un emozione commuovente già all’inizio delle prime pagine.
    Libro consigliato a tutte le persone che vivono le loro pene d’amore e hanno voglia di sentirsi meno sole nel loro dolore, consigliato a chi sta vivendo la sua storia d’amore per avere un motivo per amare di più . Consigliato anche a chi non crede, o fa finta, nell amore vero per capire che prima o poi arriva e non basta allontanarlo per non provarne i sintomi.
    Tecnica di scrittura perfetta e piacevole:
    lettere corte e coincise per arrivare dritte al cuore.

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Lorenzo Arrais
Lorenzo Arrais, toscano, classe 1994, è laureando in Biotecnologie presso l’Università di Perugia. "Ora che il tempo non vola più" è il suo romanzo d’esordio.
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