Un’odissea dell’animo
moderno: introduzione
critica
Rescalli ci offre un’opera di rara intensità, dove il viaggio diventa lo specchio dell’anima e la geografia uno spazio emotivo, una mappa che unisce luoghi fisici e stati interiori. Attraverso la figura di Alessandro, protagonista e testimone delle proprie inquietudini, il libro ci guida in un percorso che è tanto un’odissea fisica quanto un’indagine esistenziale. Tra camere d’albergo, trasferte lavorative e incontri occasionali, Rescalli tratteggia un affresco dell’animo moderno, catturandone con precisione le sfumature di solitudine, disincanto e desiderio di senso.
Struttura e forma narrativa
La narrazione si articola in una serie di episodi apparentemente disconnessi ma legati da una coerenza sotterranea che emerge lentamente, come il disegno sulla tela di un tessitore. Ogni capitolo si presenta come una finestra sul mondo del protagonista: scene di vita quotidiana, scambi di battute con sconosciuti, momenti di riflessione solitaria. La mancanza di una trama lineare è compensata dalla costruzione di un ritmo interno, scandito dai viaggi di Alessandro e dai suoi ritorni, veri punti di ancoraggio narrativo. La struttura, frammentata ma mai casuale, riflette la natura stessa del protagonista: un uomo che vive nell’intervallo tra un luogo e l’altro, tra un pensiero e il successivo. L’alternanza tra descrizioni dettagliate e riflessioni intime crea una tessitura narrativa che invita il lettore a esplorare non solo la superficie degli eventi, ma il loro significato più profondo.
Lo stile: tra precisione e lirismo
Rescalli scrive con una penna che sa essere chirurgica nei dettagli, ma anche capace di improvvisi slanci lirici. Le descrizioni dei luoghi, dai vicoli di Genova ai paesaggi della Toscana, non sono mai semplici sfondi: diventano personaggi a loro volta, intrisi di vita e simbolismo. La prosa oscilla tra una lucidità quasi documentaristica e una vena poetica che emerge nei momenti di maggiore introspezione. Un elemento distintivo dello stile di Rescalli è la capacità di catturare il quotidiano e trasfigurarlo in qualcosa di universale. Un piccolo gesto, una colazione silenziosa o un breve scambio di battute diventano il pretesto per riflettere su temi più ampi, come la vulnerabilità delle relazioni umane o il senso di appartenenza.
La poetica del viaggio
Il viaggio è il motore della narrazione e il cuore della poetica del libro. Alessandro si muove incessantemente, ma il suo peregrinare non è solo fisico: ogni spostamento è una tappa di un viaggio interiore, una forma di autoesplorazione. Le città che visita – Livorno, Genova, Pisa – diventano specchi della sua anima, luoghi che riflettono il suo stato d’animo e lo mettono a confronto con le sue paure, speranze e contraddizioni. La poetica del viaggio si intreccia con quella del tempo: il tempo scandito dalle sveglie, dai chilometri percorsi, dagli incontri fugaci. Rescalli mostra come esso, nel suo scorrere inesorabile, possa essere tanto un peso quanto una liberazione, e invita il lettore a riflettere su cosa significhi veramente tornare a casa.
Chiavi di lettura
Il cuore dell’opera di Andrea Rescalli è costituito da tematiche universali che emergono con forza dalla vicenda personale di Alessandro, offrendo molteplici chiavi di lettura. La solitudine, per esempio, è una presenza costante, quasi un personaggio invisibile che accompagna il protagonista in ogni suo viaggio. Non si tratta però di una solitudine totale o disperata: Alessandro vive sospeso tra il desiderio di isolamento, che gli permette di preservare la sua identità più autentica, e il bisogno di connessione umana, soddisfatto solo in parte da incontri fugaci e relazioni superficiali.
La narrativa esplora questa tensione senza mai risolverla del tutto, riflettendo una condizione esistenziale tipica del nostro tempo, in cui la comunicazione è immediata ma le connessioni autentiche restano sfuggenti. Un altro tema centrale è quello del viaggio, che nel libro assume una duplice valenza. Da un lato, il viaggio è un’esperienza fisica, concreta, scandita dai ritmi della vita professionale: partenze all’alba, strade da percorrere, città da attraversare. Dall’altro, esso si configura come un processo di trasformazione interiore. Alessandro non è mai lo stesso alla fine di un viaggio, anche se il cambiamento avviene spesso in modo impercettibile, quasi involontario. Rescalli costruisce così una metafora potente del viaggio come rito di passaggio, in cui ogni tappa rappresenta una sfida e un’occasione di crescita. Il protagonista affronta le sue paure, le sue incertezze e i suoi limiti, trovando nelle città che visita non solo dei luoghi geografici, ma degli specchi della propria anima. È in queste città, con le loro peculiarità e contraddizioni, che Alessandro si confronta con le proprie complessità e scopre qualcosa di nuovo su di sé. La dialettica tra radici e libertà rappresenta un’altra dimensione significativa del testo. Alessandro è un uomo in fuga, ma mai completamente emancipato dalle sue origini. Il rapporto con la famiglia, in particolare con il fratello Pietro e il padre Bruno, è descritto con una sensibilità che rivela quanto il protagonista sia legato ai propri affetti, anche quando tenta di distaccarsene. La casa, come luogo fisico e simbolico, è tanto un rifugio quanto un peso. Alessandro torna sempre al punto di partenza, ma ogni ritorno è diverso, arricchito dalle esperienze e dai pensieri maturati durante il suo vagare. Rescalli sembra suggerire che non esista una vera contrapposizione tra appartenenza e libertà: l’una dà senso all’altra, e il bilanciamento tra le due è ciò che definisce il percorso di ogni individuo.
Infine, il tema del tempo attraversa l’intero libro, non solo come elemento narrativo, ma anche come soggetto di una riflessione più ampia. Alessandro vive con lui un rapporto ambivalente: da un lato lo controlla con meticolosità, pianificando ogni aspetto delle sue giornate; dall’altro, ci si perde, lasciandosi travolgere dai pensieri e dalle emozioni. Rescalli utilizza il tempo per costruire una narrazione stratificata, in cui passato, presente e futuro si intrecciano continuamente. Il protagonista si trova spesso a ripensare a eventi passati, non per nostalgia, ma per cercare di dare un senso al presente e immaginare un futuro diverso. Il tempo, così come il viaggio, diventa una metafora della condizione umana, fatta di continui movimenti avanti e indietro, tra il desiderio di stabilità e il bisogno di cambiamento. In questa rete di tematiche intrecciate, il lettore è chiamato a riconoscersi e a interrogarsi. Chi non ha mai provato la solitudine di Alessandro, o il suo bisogno di fuggire? Chi non si è mai chiesto dove finisce il legame con le proprie radici e dove inizia la vera libertà? Rescalli non offre risposte definitive, ma lascia spazio alla riflessione, trasformando il libro in un’esperienza condivisa, in cui ogni lettore può intraprendere il proprio viaggio interiore.
Un invito al lettore
Questo libro non è solo un racconto, ma un’esperienza: una lente attraverso la quale osservare la complessità del vivere. È un invito a intraprendere un viaggio che non si limita alla geografia dei luoghi descritti, ma che esplora gli intricati territori dell’animo umano. Alessandro, con le sue inquietudini e la sua ricerca silenziosa, diventa una guida discreta e imperfetta, capace di mostrare al lettore frammenti di se stesso attraverso il filtro delle sue esperienze.
Rescalli costruisce un mondo narrativo in cui ogni dettaglio, anche il più insignificante, assume un significato più ampio. La tazza di caffè bevuta in solitudine, la luce del tramonto su un porto, una conversazione con un estraneo: tutto si carica di simbolismo, offrendo una chiave per decifrare le emozioni e i desideri che spesso lasciamo inespressi. È un testo che richiede attenzione e tempo, un’opera che non si lascia catturare in fretta ma che, pagina dopo pagina, crea un legame intimo con il lettore.
La forza del libro risiede nella sua capacità di parlare a tutti senza mai rinunciare alla propria specificità. Chi legge non potrà fare a meno di interrogarsi: sulle proprie scelte, sui rapporti con gli altri, sui momenti in cui ha cercato di dare un senso a ciò che gli accadeva. Non si tratta di trovare risposte, quanto piuttosto di imparare a convivere con le domande, accogliendo il dubbio come parte integrante del viaggio.
Entrare nel mondo di Alessandro significa abbracciare la sua vulnerabilità, i suoi silenzi, ma anche le sue improvvise epifanie. Questo libro non chiede al lettore di seguire una trama, ma di lasciarsi coinvolgere da una tessitura emotiva fatta di piccoli gesti e grandi riflessioni. È un invito a rallentare, a osservare e a riflettere. E, nel farlo, offre una possibilità rara: scoprire qualcosa di inaspettato non solo sulla storia che racconta, ma anche su noi stessi.
Giuseppe Montone
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Prima parte
2018. Verso casa
Ricambiò il robotico sorriso dell’assistente di volo e raggiunse il suo posto: altezza ala, lato finestrino. Fuori era già buio e brillavano solo le luci della pista e le giacchette arancione fluo del personale di terra.
Aveva già constatato che per le sue gambe anche quel viaggio sarebbe stato un patimento. Per fortuna, le ginocchia incastrate tra stomaco e sedile suscitarono tenerezza nella ragazza accanto, che gli offrì il posto lato corridoio. Alessandro non si fece pregare, avrebbe quanto meno potuto allungare gli arti inferiori quando le hostess non erano di passaggio.
Stava tornando a casa, finalmente, ed era di buon umore, cioè poco pensieroso. Percepiva ancora qualche ronzio in testa ma era innocuo, spuntato per caso e molto lontano dal solito dialogo interiore, che tendeva a ruotare intorno a se stesso. Per un istante ebbe addirittura l’impressione che potesse trattarsi di felicità, lui preferiva definirla “sensazione intermittente e passeggera di indipendenza dai turbamenti della vita”.
Mentre l’assistente di volo mostrava le uscite di sicurezza e spiegava come allacciare le cinture, rilesse nuovamente la mail del capo prima di impostare la modalità aereo.
… è stato un lavoro sfidante e impegnativo per tutti. Avete girato l’Italia in tre e portato a termine la formazione nei tempi previsti, anzi, anche un po’ in anticipo.
La fiducia che avevo in voi è stata ben riposta. Grazie, ragazzi!
Ci vediamo a Pessano, ci sono novità.
Riccardo
Lasciava trasparire addirittura una goccia d’emozione. Di persona, il suo capo quasi mai riusciva a farlo.
Si accorse che il rullaggio era cominciato quando vide muoversi gli omini arancioni fuori dal finestrino. Spense il 3G e la Sicilia si staccò dai suoi piedi assieme a quell’Airbus pochi istanti dopo.
2015. Il Paradiso
All’incirca tre anni prima di quella mail, si trovava a Livorno. Passeggiava senza meta per qualche via della città, doveva essersi perso. Gli piaceva perdersi a piedi e a volte lo faceva apposta. Quando gli accadeva in macchina entrava in panico, ma non a piedi, perché in quel caso era lui al comando, poteva andare ovunque e cambiare direzione quando gli pareva, anche all’ultimo istante.
La Toscana era una regione comoda da raggiungere e dopo soli pochi mesi di quella vita nomade, il concetto di distanza per lui era diventato relativo. Quattro ore erano tutto sommato poche, anzi, erano perfette: non troppe per sentire veramente la stanchezza, ma nemmeno insufficienti a godersi l’ebrezza del tragitto. Suo papà lo prendeva in giro quando la sera prima di ogni partenza controllava su Google la distanza dalla destinazione e il tempo che avrebbe impiegato a raggiungerla, in modo da potersi calcolare con precisione l’orario di arrivo.
Qualcuno gli aveva detto che i livornesi erano perlopiù scorbutici, polemici, un filo arroganti e soprattutto degli stronzi comunisti; ma siccome lui non aveva mai conosciuto un livornese, non ci credeva. Aveva incontrato il primo nel negozio di via Mastacchi, in occasione di un iniziale tour de force formativo che avrebbe coinvolto l’intero staff e che, come sarebbe stato per il resto dello stivale, aveva lo scopo di implementare su tutta la rete vendite un nuovo rivoluzionario software di gestione, dall’altisonante acronimo tedesco: “TTS”.
Si trattava di Sandro, il direttore.
Il primo giorno gli aveva disintegrato il cellulare facendolo precipitare dalla scrivania dell’ufficio, ma a parte questo non gli era apparso né scorbutico, né arrogante. Magari era comunista, ma non gliel’aveva chiesto. Era un tipo riservato, incerto e dall’istinto cordiale. Considerando le frequenti trasferte livornesi che in quel periodo Alessandro doveva sorbirsi, avevano finito per incrociarsi spesso.
Sandro era calvo, la barba corta, ispida e non molto curata, di altezza normale: per Alessandro – che era alto quasi due metri – esistevano i bassi, gli alti come lui e i normali. Sandro era normale. Camminava con le gambe un po’ larghe, dinoccolato, ma non per scelta come fanno alcuni deformandosi il passo, perché quella era la sua naturale andatura. Andava spesso in soggezione: mentre Alessandro gli parlava, abbassava lo sguardo e si grattava i dorsi delle mani con frenesia. La sua insicurezza traspariva anche dagli innumerevoli “Sì” che gli replicava in automatico, quasi a volersi togliere d’impaccio da ogni conversazione e situazione. Alessandro lo comprendeva, perché anche lui in un certo senso era fatto in quel modo; ma quando incontrava persone alle quali apparire piaceva ancora meno, allora si sforzava nel mettersi in mostra, per levare dall’imbarazzo il suo interlocutore. Con Sandro andava così.
Il rapporto di lavoro era presto sfociato in una conoscenza maggiore, comunque ben lontana da qualsivoglia forma di amicizia. Alessandro aveva scoperto che era divenuto grande a furia di scaricare camion alle cinque del mattino, che dopo le medie un piccolo alimentari sotto casa lo aveva raccattato e assegnato alla cella frigorifera per spostare bancali di mozzarelle e yogurt, che da quel momento non aveva smesso di lavorare un singolo giorno, ma che almeno era uscito da quella cella. L’aveva scoperto osservando quel paio di occhi azzurri e ingenui che gli si piantavano in mezzo al viso e che, come spesso accade, parlavano per conto loro. Era di poche parole, Sandro, quelle che gli servivano per sopravvivere in mezzo al mondo.
Lo aveva imparato come si fa con le poesie in quinta elementare: capiva quando voleva starsene zitto – e allora anche lui non apriva bocca – e quando voleva raccontare i fatti suoi – e allora lo imbeccava perché glieli raccontasse, ascoltandolo con reale interesse o a volte fingendo di farlo mentre pensava ad altro, come al fatto che stesse fingendo di ascoltarlo, che in quell’istante stesse recitando per farlo contento e che in verità di quell’argomento specifico non gliene importasse nulla. Per Alessandro, però, era giusto fare così a volte: simulare piuttosto che ignorare. Credeva fosse un segno di sensibilità.
A Livorno il vivo odore del mare è la via migliore per non perdersi e a lui bastava ascoltarlo per ritornare sulla giusta rotta; il limaccioso profumo del porto sembrava in grado di pervadere ogni spigolo della città, fin dove l’acqua non poteva arrivare.
La sua base livornese era e fu quasi sempre l’hotel Paradiso. Oramai era diventata una trasferta non trasferta per lui, perché sapeva già cosa aspettarsi e distingueva a memoria i volti della reception, come loro riconoscevano lui. Superava la porta di ingresso con disinvoltura consumata, come entrasse nel salotto di casa.
«Buonasera. Bentornato, carissimo!»
Lo ricevevano con quella inconfondibile “c” aspirata e non doveva nemmeno più palesarsi coi documenti. Ritirava agilmente le chiavi, la 250 o la 305 del terzo piano, e si congedava.
La 305 aveva senza ombra di dubbio la doccia più bella, la migliore che avrebbe visto in tre anni di Italia. Per lui quel momento era in un certo qual modo sacro: era sotto l’acqua calda che gli venivano le idee migliori, i pensieri più profondi e le buone intenzioni – quelle però svanivano non appena il soffione si smorzava. Ogni tanto ci si buttava sotto solo per quello, non perché ne avesse fisicamente bisogno. E allora poteva parlare da solo senza che nessuno lo prendesse per matto. Gli piaceva pensare sotto la doccia, almeno fin quando non si tramutava in un rimuginare fastidioso. Ogni tanto gli capitava di sedersi mentre quella pioggia bollente gli scendeva addosso; e in quelle occasioni vi sarebbe rimasto per tutta la vita, o almeno per cinque o sei ore, fino a sciogliersi ed evaporarvici dentro, fino a che i segni delle rughe sui polpastrelli non gli avessero ricoperto l’intero corpo. La vista offuscata dal discendere dell’acqua sul vetro della cabina, le gocce comandate dalla gravità e l’ingannevole sensazione di ristoro che il suo corpo sperimentava – perché di fatto restava teso sui suoi crucci – assecondavano la sua pigrizia nel non voler arrestare quel momento, per asciugarsi e tornare a vivere.
Quando usciva dalle docce poi si vedeva nudo, lo specchio rifletteva impietoso il modo in cui era fatto e in gran parte non si piaceva: era più alto della media, magro, con addosso pochi muscoli; lo sterno lievemente carenato, per fortuna ancora nessun accenno di pancia e due spalle ossute, spigolose, che si aprivano bene verso l’esterno grazie a un corso di canoa che aveva seguito qualche anno prima. Era nato con l’intera parte sinistra del corpo leggermente più sviluppata e la differenza principale era concentrata – e si notava – nei pressi della gamba e del ginocchio, la cui rotula sproporzionata risaltava inducendogli una postura orribile, a triangolo; una vena sporgente gli tracciava nel centro un solco inguardabile, con il quale evitava il più possibile di incrociare lo sguardo. La gamba destra, al contrario, era di dimensioni perfette, faceva parte del lato giusto e ogni tanto Alessandro giocava a immaginarsi come sarebbe apparso se anche la sinistra avesse avuto quell’aspetto. Dalla vita in su questa differenza non si notava molto, per questo preferiva che gli scattassero foto tagliandogli le gambe. Del viso invece andava fiero, perché da quelle parti la genetica era stata clemente e addirittura si compiaceva del riflesso del suo taglio d’occhi, della linea armoniosa delle labbra e di una capigliatura che come la sistemavi faceva sempre un figurone.
C’era una terrazza nella sua casa livornese e non c’era soggiorno nel quale si scordava di visitarla. Dava tutta sul mare, bella da togliere il fiato, bella da volerla disegnare, raccontare. Ci doveva passare di fronte per raggiungere la sua stanza e quello di spingersi oltre la porta in legno scuro, avvicinarsi al bordo più estremo e, con le mani ai fianchi, ammirare quella cartolina di mare denso e scuro, di rocce umide a metà, fino a dove l’acqua e il sale riuscivano ad arrivare, era diventato per lui un gesto rituale, automatico. Ogni volta chiamava suo fratello per raccontargli dov’era e cosa stava osservando. La vista da quella terrazza non cambiava mai, era sempre la stessa a ogni trasferta, perché il mare forse non invecchia.
E poi saliva in camera: che fosse la 250 o la 305 del Paradiso o quelle dei tanti alberghi che iniziava a frequentare, erano sempre troppo silenziose quando spegneva la televisione e le luci. Faticava a prendere sonno e quel silenzio, che ormai aveva imparato a conoscere intimamente, risuonava laconico nello spazio vuoto di quelle DUS, come a tracciare una linea densa ma invisibile tra lui e il resto del mondo, e il resto del tempo.
La colazione in albergo non era una semplice colazione, ma un’esperienza mistica, una prova di coraggio. Perché solo un’inscalfibile forza di volontà poteva impedirgli di rovinarsi con ogni bendidio che gli si presentava di fronte. Tentazioni che, come per Ulisse le sirene, lo attiravano verso il peccato. In pochi mesi, era diventato una massima autorità in materia.
Aveva visto colazioni iniziare più presto del presto in compagnia di operai imbronciati che correggevano l’espresso con la sambuca, in estate come d’inverno; altre iniziare così tardi da potersi permettere solo un caffè volante. E poi colazioni pimpanti con i camerieri belli arzilli che gli chiedevano sorridenti il numero della camera e lui mostrava la chiave ricambiando con il raggrinzito sorriso del mattino. Aveva visto colazioni rumorose, con i gruppi da cinquanta cinesi in un hotel a Prato, simpaticissimi ma tantissimi, che per poco non avevano fatto perdere l’aplomb anche alla cameriera più gentile. O quella della comitiva di anziani nei pressi di Pescara, quando era rimasto intrappolato in una sala con tanti bellissimi vecchietti e si era sentito un pesce fuor d’acqua. Non meno rumorose erano le colazioni vuote e silenziose, quelle che lasciavano spazio ai pensieri del mattino, i più bastardi. In quelle si poteva sedere dove voleva, anzi, poteva addirittura valutare bene dove piazzarsi: bassa stagione più località mezza sconosciuta, uguale colazione taciturna e spaziosa. Aveva visto colazioni ricche, esagerate e altre striminzite ma calorose, familiari. Si era seduto su colazioni per quattro ma da solo, occupando con la borsa e la giacca i posti vuoti e si era trattenuto su colazioni per poco più di un soffio di orologio perché aveva calcolato male i tempi. O si era soffermato anche troppo da riuscire a finire tre interi articoli di giornale. Aveva anche consumato colazioni con meno pensieri e più parole. Parole con altri ospiti mai visti prima e mai visti poi. Come quella volta al Paradiso.
Si era messo al solito tavolo, solo, sulla solita sedia che guardava verso la terrazza e il mare che le scorreva ai piedi. La fresca luce primaverile che il magro spessore della tenda lasciava entrare lo prendeva di striscio. Il cameriere era nuovo e aveva un’espressione da “so tutto io”, troppo artificiale per i suoi gusti; tutto sommato, però, era di buona compagnia e, non essendoci il pienone, lo lasciò fare quando porgendogli il macchiato attaccò con la classica chiacchiera di circostanza. Ma il viso ordinario del ragazzo che quella mattina apparve dal nulla, invece, lo distrasse: là, in fondo, spalle alla finestra, al tavolo che rispetto al suo distava un paio di metri. Era basso, esile di corporatura, sul viso in cui ogni elemento era ben proporzionato spiccava una barba curata che aveva notato subito perché lui non riusciva mai a ottenere quel risultato con il rasoio. Di sicuro era più vecchio di lui, sulla trentina ma non di più. Aveva una borsa di pelle nera appoggiata alla gamba del tavolo e indossava una t-shirt grigia anonima e fuori moda, che tra l’altro gli stava anche larga; sulle spalle, ma un po’ storto, un maglioncino legato al collo e dei pantaloni stropicciati, mentre le stringhe di una delle due scarpe penzolavano per i fatti loro sul pavimento. Davanti a lui niente brioches: solo una porzione esagerata di frutta e un caffè, che doveva essere lunghissimo, visto che lo sorseggiava da almeno dieci minuti.
Alessandro decise di rompere il ghiaccio.
«Ciao» esordì, approfittando di un involontario e più esteso incrocio di sguardi. «Anche tu lontano da casa?»
«Lontanissimo, sono di Bari» gli rispose, con un velo di ironia.
Quei due insignificanti versi produssero all’istante una pseudoconfidenza, come se i due non aspettassero altro che aprir bocca. Appena un secondo dopo l’ultima risposta, il ragazzo stava già indagando su che lavoro facesse Alessandro, su dove abitasse e in quale ristorante avesse cenato la sera prima. La conversazione cominciò a scivolare e il cameriere, escluso indirettamente dai due, si defilò dietro al bancone. Toccarono gli argomenti più consueti, quelli preconfezionati che ci si gioca tra persone sconosciute: meteo, cibo, calcio. Cose che si improvvisano al momento per sostenere un facile dialogo di senso compiuto. Parlavano da un tavolo all’altro, come a dire “Comunque non ti conosco, non ti posso ancora invitare qui accanto”. La curiosità istintiva che aveva avvicinato Alessandro al ragazzo veniva legittimata da quanto stava sentendo: una voce misurata, dalla cadenza lieve che gli ispirava fiducia; voleva continuare ad ascoltare. La voce di un viaggiatore come lui.
La rituale e spesso ricercata solitudine delle sue colazioni si stava scontrando sull’iceberg dell’imprevisto, come una piccola barca alla deriva nell’oceano; osservava quell’inatteso ospite accomodarsi tra i suoi affollati pensieri e trovarvi spazio. Poi, con il più classico dei “E va be’, d’altronde” seguito da un aprirsi delle mani, Alessandro pose fine alla scena prima che l’esaurirsi delle parole la rendesse troppo vuota. Anche il ragazzo che mangiava frutta ed era di Bari aveva finito e fece per alzarsi, recuperò la borsa nascosta sotto al tavolo ma lentamente, come a prendersi del tempo.
«Fra nove mesi divento papà» disse all’improvviso, dopo essersi alzato. Lo confessò di punto in bianco quando ormai sembrava non avessero altro da dirsi. Lo disse proprio così a brucia pelo e a lui: un perfetto sconosciuto.
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