Mentre l’assistente di volo mostrava le uscite di sicurezza e spiegava come allacciare le cinture, rilesse nuovamente la mail del suo capo prima di impostare la modalità aereo.
…è stato un lavoro sfidante e impegnativo per tutti. Avete girato l’Italia in tre e portato a termine la formazione nei tempi previsti, anzi, anche un po’ in anticipo. La fiducia che avevo in voi è stata evidentemente ben riposta. Grazie ragazzi!
Ci vediamo a Pessano, ci sono novità.
Riccardo
Lasciava trasparire addirittura una goccia d’emozione. Di persona, il suo capo, quasi mai riusciva a farlo.
Si accorse che il rullaggio era cominciato quando vide muoversi gli omini arancioni fuori dal finestrino. Spense il 3G e la Sicilia si staccò dai suoi piedi assieme a quell’Airbus pochi istanti dopo.
2015
il Paradiso
All’incirca tre anni prima di quella mail si trovava a Livorno. Passeggiava senza meta per qualche via della città, doveva essersi perso. Gli piaceva perdersi a piedi e a volte lo faceva apposta. Quando si perdeva in macchina entrava in panico ma a piedi no, perché a piedi era lui al comando, poteva andare ovunque e cambiare verso quando gli pareva, anche all’ultimo istante.
La Toscana era una regione che gli veniva comoda da raggiungere, dopo soli pochi mesi di quella vita nomade il concetto di distanza per lui era diventato relativo. Quattro ore erano tutto sommato poche, quattro ore anzi erano perfette: non troppe per sentire veramente la stanchezza ma nemmeno insufficienti a godersi l’ebrezza del tragitto. Suo papà lo prendeva in giro quando la sera prima di ogni partenza controllava su Google la distanza dalla destinazione e il tempo che avrebbe impiegato a raggiungerla, in modo da potersi calcolare con precisione l’orario di arrivo.
Qualcuno gli aveva detto che i livornesi erano perlopiù scorbutici, polemici, un filo arroganti e soprattutto degli stronzi comunisti; ma siccome lui non aveva mai conosciuto un livornese non ci credeva. Il primo l’aveva conosciuto qualche mese prima nel negozio di via Mastacchi, in occasione di un primo tour de force formativo che avrebbe coinvolto l’intero staff e che, come sarebbe stato per il resto dello stivale, aveva lo scopo di implementare su tutta la rete vendite un nuovo rivoluzionario software di gestione, dall’altisonante acronimo tedesco: TTS.
Si trattava di Sandro, il direttore.
Il primo giorno gli aveva disintegrato il cellulare facendolo precipitare dalla scrivania dell’ufficio, ma a parte questo non gli era apparso né scorbutico, né arrogante. Magari era comunista ma non gliel’aveva chiesto. Era un tipo riservato, incerto, dall’istinto cordiale. Considerando le frequenti trasferte livornesi che in quel periodo Alessandro doveva sorbirsi, avevano finito per incrociarsi spesso.
Sandro era calvo, la barba corta, ispida e non molto curata; di altezza normale: per Alessandro che era alto quasi due metri esistevano i bassi, gli alti come lui e i normali. Sandro era normale. Camminava con le gambe un po’ larghe, dinoccolato; ma non per scelta come fanno alcuni deformandosi il passo, quella era la sua naturale andatura. Andava spesso in soggezione: mentre Alessandro gli parlava abbassava lo sguardo e si grattava i dorsi delle mani con frenesia. La sua insicurezza traspariva anche dagli innumerevoli “sì” che gli replicava in automatico, quasi a volersi togliere d’impaccio da ogni conversazione, da ogni situazione. Alessandro lo comprendeva, perché anche lui in un certo senso era fatto a quel modo; ma quando incontrava persone alle quali apparire piaceva ancora meno, allora si sforzava nel mettersi lui in mostra, per levare dall’imbarazzo il suo interlocutore. Con Sandro andava così.
Il rapporto di lavoro era presto sfociato in una conoscenza maggiore, comunque ben lontana da qualsivoglia forma di amicizia. Alessandro aveva scoperto che era venuto grande a furia di scaricare camion alle cinque del mattino, che dopo le medie un piccolo alimentari sotto casa lo aveva raccattato e assegnato alla cella frigorifera per spostare bancali di mozzarelle e yogurt, che da quel momento non aveva smesso di lavorare un singolo giorno ma che almeno era uscito da quella cella. L’aveva scoperto osservando quel paio d’occhi azzurri e ingenui che gli si piantavano in mezzo al viso e che, come spesso accade, parlavano per conto loro. Era di poche parole, Sandro, quelle che servivano per sopravvivere in mezzo al mondo.
Lo aveva imparato come si imparano le poesie in quinta elementare: capiva quando voleva starsene zitto – e allora anche lui non apriva bocca – e quando voleva raccontare i fatti suoi – e allora lo imbeccava perché glieli raccontasse, ascoltandolo con reale interesse o a volte fingendo di farlo mentre pensava ad altro, come al fatto che stesse fingendo di ascoltarlo, al fatto che in quell’istante stesse recitando per farlo contento e che in verità di quell’argomento specifico non gliene importasse nulla. Ma per Alessandro era giusto fare così delle volte; simulare piuttosto che ignorare. Credeva fosse un segno di sensibilità.
A Livorno il vivo odore del mare è la via migliore per non perdersi. Gli bastava ascoltarlo per ritornare sulla giusta rotta; il limaccioso profumo del porto sembrava in grado di pervadere ogni spigolo della città, fin dove l’acqua non può arrivare.
La sua base livornese era e fu quasi sempre l’Hotel Paradiso. Oramai era diventata una trasferta non trasferta per lui, sapeva già cosa aspettarsi e distingueva a memoria i volti della reception; e loro riconoscevano lui. Superava la porta di ingresso con disinvoltura consumata, come entrasse nel salotto di casa.
«Buonasera. Bentornato carissimo!».
Lo ricevevano con quella inconfondibile C aspirata e non doveva nemmeno più palesarsi coi documenti. Ritirava agilmente le chiavi, la 250 o la 305 del terzo piano, e si congedava.
La 305 aveva senza ombra di dubbio la doccia più bella, la migliore che avrebbe visto in tre anni di Italia. Per lui il momento della doccia era in un certo qual modo sacro: era sotto la doccia che gli venivano le idee migliori, i pensieri più profondi e le buone intenzioni – quelle però svanivano non appena il soffione si smorzava. Ogni tanto ci si buttava sotto solo per quello, non perché ne avesse fisicamente bisogno. E allora era un pensare unico, poteva parlare da solo senza che nessuno lo prendesse per matto. Gli piaceva pensare sotto la doccia, tranne quando l’incalzante tambureggiare del cervello diventava troppo anche per lui. Ogni tanto gli capitava di sedersi per terra mentre quella pioggia bollente gli scendeva addosso. Quelle volte vi sarebbe rimasto per tutta la vita, o almeno per cinque o sei ore, fino a sciogliersi, fino a evaporarvici dentro, fino a che i segni delle rughe che si formano sui polpastrelli non gli avessero ricoperto l’intero corpo. La vista offuscata dal discendere dell’acqua sul vetro della cabina, le gocce comandate dalla gravità e l’ingannevole sensazione di ristoro che il suo corpo sperimentava – perché di fatto restava teso sui suoi crucci – assecondavano la sua pigrizia nel non voler arrestare quel momento, per asciugarsi e tornare a vivere.
Quando usciva dalle docce poi si vedeva nudo, lo specchio rifletteva impietoso il modo in cui era fatto e in gran parte non si piaceva: era più alto della media, magro, con addosso pochi muscoli; lo sterno lievemente carenato, ancora nessun accenno di pancia per fortuna e due spalle ossute, spigolose, che si aprivano bene verso l’esterno grazie a un corso di canoa che aveva seguito qualche anno prima. Era nato con l’intera parte sinistra del corpo leggermente più sviluppata, e la differenza principale era concentrata e si notava nei pressi della gamba e del ginocchio, la cui rotula sproporzionata risaltava inducendogli una postura orribile, a triangolo; una vena sporgente gli tracciava nel centro un solco inguardabile, con il quale evitava il più possibile di incrociare lo sguardo. La gamba destra al contrario era di dimensioni perfette, faceva parte del lato giusto e ogni tanto Alessandro giocava ad immaginarsi come sarebbe apparso se anche la sinistra avesse avuto quell’aspetto. Dalla vita in su questa differenza non si notava molto, per questo preferiva che gli scattassero foto tagliandogli le gambe. Del viso invece andava fiero, da quelle parti la genetica era stata clemente e addirittura si compiaceva del riflesso del suo taglio d’occhi, della linea armoniosa delle labbra e di una capigliatura che come la sistemavi faceva sempre un figurone.
C’era una terrazza nella sua Casa livornese e non c’era soggiorno nel quale si scordava di visitarla. Dava tutta sul mare, bella da togliere il fiato, bella da volerla disegnare, raccontare. Ci doveva passare di fronte per raggiungere la sua stanza e quello di spingersi oltre la porta in legno scuro, avvicinarsi al bordo più estremo e, con le mani ai fianchi, ammirare quella cartolina di mare denso e scuro, di rocce umide a metà, fino a dove l’acqua e il sale riuscivano ad arrivare, era diventato per lui un gesto rituale, automatico. Ogni volta chiamava suo fratello per raccontargli dov’era e cosa stava osservando. La vista da quella terrazza non cambiava mai, era sempre la stessa a ogni trasferta; perché il mare forse non invecchia.
E poi saliva in camera: che fosse la 250 o la 305 del Paradiso o quelle dei tanti alberghi che iniziava ora a frequentare, erano sempre troppo silenziose quando spegneva la televisione, le luci. Faticava a prendere sonno e quel silenzio, che ormai aveva imparato a conoscere intimamente, risuonava laconico nello spazio vuoto di quelle DUS, come a tracciare una linea chiara ma invisibile tra lui e il resto del mondo, e il resto del tempo.
E se scegliere la musica in macchina gli veniva ancora facile, non poteva dire lo stesso per le decisioni che doveva prendere fuori dalla Golf. Quando il peso specifico di queste aumentava, più che affidarsi al caso e al suo spontaneo e leggero fluire, si ostinava a essere filtro di sé stesso, andando a maneggiare i suoi sentimenti, scremandoli in modo innaturale. Odiava scegliere. Odiava trovarsi di fronte alle scelte perché scegliere voleva dire dover mettersi a pensare, starci dietro con la testa e alimentare dubbi; voleva dire dover accontentare un pensiero per scontentarne un altro, far felice una persona e triste un’altra. Compiere una scelta, anche la più insignificante, era per lui un processo che lo rendeva insofferente; avrebbe sempre preferito trovarsi di fronte a delle finte scelte, quando una decisione vera e propria da prendere di fatto non esiste e un’unica opzione ti si pone davanti. Sarebbe stato semplice, indolore, come si addiceva al suo vigliaccio modo di essere: una sola strada da prendere come un solo appuntamento la sera. Un solo vestito da comprare. Solo un film da guardare e solo un ristorante da scegliere. Una sola vacanza da organizzare. Un solo amico da rispettare. Solo un obiettivo da raggiungere. Solo un discorso da affrontare e un solo segreto da custodire. Una sola famiglia a cui voler bene e solo una donna da amare. Solo un pensiero da pensare.
Qualche istante più tardi la ragazza smise di scattare. Con cura nascose lo strumento nello zaino come fosse di cristallo. Chiuse la cerniera, adagio si buttò lo zaino in spalla e raggiunta una vecchia bicicletta aggrappata ad un palo, sparì su per una via.
Allora al posto suo si avvicinò a quella zolla di cemento. Aveva solo il cellulare e dotato di un flash di infima qualità, ma decise lo stesso di fotografare quello che aveva visto la ragazza. Già, la vista da quel punto era stupenda: un artificiale gioco di luci carambolava fino alla superficie del mare; piatta, immobile, scura, il cui impercettibile movimento, percepito dal ponte, era il solo effetto che lo distingueva dal porto immobile. Il battito del lungo mare era scandito dai lampioni che spalmavano le loro luci sopra la strada, riproducendosi in raggi luminosi che si infilavano poi verso il centro, in un crescendo di chiarore. La macchia di luce nasceva dal mare e si espandeva progressivamente creando la città.
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.