Un ramo dell’acero si scosse sopra di lui e l’uomo ebbe il cuore in gola. Alzò lo sguardo in uno scatto: un ragazzo sulla trentina con un cappello di feltro era accovacciato sul ramo, agile come una pantera pronta a cacciare. Appena accortosi di lui, l’uomo smilzo riprese a correre, i suoi capelli scuri e lunghi al vento.
Il crepuscolo giunse a coprire il cielo come un anatema. Il cielo si sottomise alle tenebre e la luna troneggiò chiara, illuminando ogni cosa con luce fioca.
Bosco Candido si era scoperto una benedizione per tutt’e due: prendeva il nome dal fatto che anche di notte, più spesso di quanto si pensasse, il riflesso della luna consentiva di scorgere bene dove mettere i piedi.
Il giovane saltò di ramo in ramo, agile, seguendo l’uomo, disperato ma coraggioso, che s’inerpicava tra le radici sporgenti degli alberi, annaspando per rimettersi in piedi durante la corsa.
Ma all’improvviso non vi erano più alberi a nasconderlo: i suoi occhi e le sue orecchie non videro né sentirono altro che le calme acque del Dhrena.
Il giovane scese in un balzo giù dall’ultimo ramo e si fermò in piedi a pochi passi dalla riva. Immobile. Vide con chiarezza l’uomo smilzo dai capelli lunghi, che senza titubanza si era gettato nel fiume.
“Salva te stesso” parevano sussurrare le acque alle orecchie del malcapitato. Ma era un invito inutile, detentore di speranze morte.
La sua lunga chioma bagnata ritornò nell’acqua dalla quale lui sembrava essere risorto per un attimo, ma non appena fece per camminare duramente contro l’attrito delle acque, l’uomo sollevò un urlo raccapricciante. Era l’urlo di chi era stato colto improvvisamente da dolori lancinanti, crudeli come folgori. L’urlo di chi avrebbe probabilmente desiderato la morte piuttosto che continuare ad affogare nei rovi dell’agonia. Ma ben presto scoprì che non c’era nessuna ferita sul suo corpo.
Poi una donna penetrò le acque, lenta, planando le mani sulla superficie piatta del fiume, come a volerla disegnare delicatamente con i palmi. I suoi capelli erano neri come la pece ma il bagno di luna li rendeva paradossalmente chiari. Appena prima di raggiungere lo sfortunato, la donna socchiuse la bocca come una serpe non affamata ma golosa, nel desiderio di ingoiare la preda. Il suo sguardo era profondo e flebile, femmineo, perso in una folle estasi superficiale ma consapevole.
Il dolore che il pover’uomo provava cessò in un istante, lasciando spazio a una fittizia quiete del corpo.
Per lui era come il paradiso dopo interminabili secondi di inferno.
Dalla bocca della donna scivolò un sibilo appena percettibile, mentre la sua mano destra, affusolata ed elegante, si allungava.
«Shhh…»
Lo toccò.
Lui non avrebbe mai pensato che le dita di un essere umano potessero essere così gelide. Ebbe in sé istintivamente la volontà di reagire ma era troppo tardi. Appena la sua guancia fu sfiorata da quelle dita, qualcosa gli suggerì che avrebbe subito offerto tutte le sue ricchezze per scambiare quello che stava per accadere con il dolore di prima.
Quella che aveva ricevuto era una carezza di morte.
«Uno spreco, dover uccidere una persona così speciale come te» sussurrò la donna.
L’uomo sentì la pelle accapponarsi e nel mentre lesse negli occhi della donna qualcosa che gli era sfuggito da lungo tempo, inspiegabilmente. Si sentì uno stupido: seppe solo allora la cruda verità.
«Talar…» vociò l’uomo, con voce strozzata, con gli occhi spalancati. Avvertì la sua pelle cedere, lasciando spazio a una pelle nuova ma incredibilmente decadente. Avrebbe facilmente immaginato che stesse diventando nera ma non ebbe più il respiro e la sua mente rimase paralizzata. Un dramma gli aveva fatto spalancare gli occhi: scoprì che la sua trachea era diventata ugualmente marcia e presto l’ossigeno non ritornò più ai suoi polmoni.
La donna guardò il corpo di lui abbandonarsi al fiume, con gli occhi spalancati verso il nulla: un quadretto raccapricciante si stava allontanando, sospeso, sul letto vitreo delle acque. La necrosi continuò a dilagare per qualche altro istante, come una macchia d’olio, fino ad arrestarsi alla metà di quel viso spento ormai lontano.
La donna si voltò seria e raggiunse il compagno, il quale non aveva staccato gli occhi dalla vittima per tutta la durata della faccenda. Quando i due individui abbandonarono il fiume nel silenzio, la notte rimase per la prima volta stranamente cupa, a Bosco Candido, come non lo era stata per lunghi anni. Il Dhrena, il lunghissimo fiume che segava con i suoi affluenti l’intero continente in due emisferi, ne aveva accolte di morti in passato, seppur ben poche curiose come quella, ma mai esse avevano la remota possibilità di restare occulte per sempre agli occhi dei più. Sarebbe stata una lenta sfilata di morte.
Persino Jaspers ne sarebbe stato spettatore.
Hope Hendryls
Città Grigia, la Capitale – Dhrena Orientale
Aveva bisogno di vederla, ancora. Era lì davanti a sé, nel filare di case accatastate. La casa abbandonata, la chiamavano i grigi. L’unica in tutto il territorio fortificato di Città Grigia. Una scritta d’ottone in rilievo su mattoni di marmo nero recitava: Casa Hendryls.
Aveva rotti vetri di decadenti finestre in legno di noce. Hope si chiedeva perché fossero ancora in quello stato da allora, perché la casa non fosse stata ristrutturata e perché non vi era una nuova famigliola felice a viverci dentro. “Non crogiolarti nella tristezza”, avvampò la sua coscienza, “la tristezza è morte dell’anima, fuggila o ti divorerà”. Wyatt il Prudente, il suo vecchio, davvero pareva essere sempre con lei dovunque andasse, sotto le spoglie dei suoi stessi pensieri.
Le tegole del tetto stridettero dietro di lei e Hope si voltò di scatto mettendo mano all’elsa della sua spada. Se non avesse visto un volto familiare, se così poteva chiamarsi la faccia dei Simili, l’avrebbe sfoderata in un istantaneo fendente.
Inutile, certo, contro un Simile.
La creatura aveva indosso un lungo soprabito di iuta poverissimo, maniche abbastanza lunghe e larghe da coprire anche le mani, ed era provvisto di un cappuccio che gli aveva celato il capo fino a poco tempo prima. Wyatt li aveva ancora una volta obbligati a camuffarsi; accadeva questo quando uscivano dall’Altopiano Alabastrino.
Lui, il Nono Arcimago, la chiamava prudenza. Molte strane accortezze avevano per lui questo nome.
Il volto dei Simili, come l’intero corpo, era d’un chiaro avorio e pareva, a una prima occhiata superficiale, che avesse la consistenza della pietra. Pur essendo eterea e quasi evanescente, in alcuni momenti. Il Simile non aveva occhi, né naso, né orecchie, né capelli, ma possedeva una bocca ben definita, più bianca del resto del corpo e la maggior parte delle volte – sempre, a ben vedere – la stessa s’esibiva in un impalpabile sorriso debole e delicato. Era l’unica cosa a dar loro carattere, la bocca.
Come a colpi di scalpello sull’avorio del loro viso, invece, al posto degli occhi, giaceva la parola thebèth, prudenza, in alabèith. Come scavata da un abile scultore di ignota provenienza.
Il passato della ragazza si risvegliò in un ricordo indelebile e solenne: era piccola, aveva otto anni a stento e Wyatt era stato nominato Nono da poco. I Simili si destavano dal sonno della pietra per pochi motivi. La Cerimonia degli Ossequi era uno di questi: l’elezione del nuovo Alba. L’assemblea attendeva con desiderio l’arrivo straordinario dei dodici Simili, che si ripeteva solo una volta dopo il funerale dell’Alba precedente. Un Simile era entrato nel Salone Bianco, leggero come polvere fluttuante, seguito da altri che parevano quasi levitare, distendersi ai lati delle pareti. L’eleganza e la grazia erano le principali qualità di un Simile. Ogni loro movimento pareva una danza, come perennemente trasportati da flebili aliti di vento. Non facevano alcun rumore che non desiderassero fare. Avevano un tremendo fascino agli occhi di qualsiasi bambino e di qualsiasi genitore. Il primo ad essere entrato si mosse come nebbia antropomorfa verso il discendente degli Archeus e dei Wilmore. La creatura avanzò con mani ritratte, verso il petto esile, come a non voler disturbare lo studio che stava svolgendo guardando Wyatt. Il volto del Simile era a pochi centimetri da quello del nuovo Alba e mostrava lui la Parola che aveva in volto al posto degli occhi. Grumhkalèst, che significa fermezza. La virtù che meglio incarnava Oddbard Lavren, il precedente Alba i cui funerali erano stati celebrati la mattina stessa. Quei caratteri scolpiti nell’avorio svanirono come sgretolati dalla roccia e apparve thebèth, prudenza. Sui volti di tutti i Simili.
Fu così che la gente acclamò Wyatt Archeus-Wilmore, il Prudente. I Simili avevano riconosciuto il nuovo Alba e tornarono al loro sonno di pietra nei rispettivi luoghi in cui s’erano addormentati, lungo le contrade di Alabéithia. L’assemblea applaudì e Hope, bambina, era rimasta come incantata. Jaspers, ai suoi piedi, gracchiò e poi guardò la piccola dai capelli rosso fuoco.
E dagli occhi color dell’oro.
Hope ritornò al presente e il Simile che le era davanti avanzò un palmo della mano verso di lei, poi l’altro, ritraendo quello precedente, e l’altro ancora, finché il messaggio non fu comunicato per intero: su ogni palmo, infatti, appariva una parola scolpita nell’avorio e Hope dovette scoprirsi il viso dal largo cappuccio per leggere bene, mostrando così gli occhi dalle iridi dorate e i suoi capelli mossi, rossi, raggruppati in un disordinato chignon. Il suo sguardo era penetrante e maturo, ora, capace di inquietare qualsiasi brigante. Tante volte aveva desiderato che qualcun altro avesse lo stesso colore dei suoi occhi. Tante volte aveva pregato gli Aurei che non fosse l’unica… Ma lo era, suo malgrado.
Le parole esibite dal muto Simile si concretizzarono nella sua mente e Hope comprese il senso della sua presenza lì.
Ja insh lumnàr-Ein tarr zubàhkr verkehl-olàh, ymbr sokeìth verbel thebèth-Ein.
“La dolce Lumnar è convocata da chi l’ha cresciuta, queste le parole dette da Colui che è prudente. Può essere una traduzione degna”, si disse. Era stata istruita alla comprensione dell’alabèith, ma nessun prodigio si sarebbe manifestato per causa sua al pronunciare le parole del Verbo. Eppure Hope nascondeva dentro un profondo desiderio di poter essere uguale a tutti i myriales: ordinaria, indifferente agli occhi disinteressati dei passanti.
La mano della creatura che aveva dinanzi si allungò verso di lei, come a invitarla con rispetto, e il sorriso dell’umanoide divenne un po’ più pronunciato, per quanto potesse essere una suggestione. Hope non voleva tornare a Forte Puro ma era costretta ad obbedire: non aveva un padre adottivo facile da dissuadere.
«Zutr-ik ja mek-farùf farr, adameywey.» Stavo proprio temendo di dover prendere la carovana, mio malgrado, disse, scherzando in un alabèith fluente. Il Simile però non comprese: loro non conoscevano alcun concetto anche solo vicino allo scherzo. Il volto della creatura era rimasto inalterato, in un sorriso pietrificato e sottile.
Hope toccò quella mano ed entrambi svanirono nell’aria, come fumo che si dilegua in una danza impalpabile.
Ritornare all’Altopiano Alabastrino in un battito di ciglia era quasi nauseante.
«Questo mangia-carogne ingoia per tre della sua specie!» Wyatt comparve davanti ai suoi occhi. Sedeva a mangiare, si lamentava masticando, come se non l’avesse convocata per mano di un Simile. «Non ingrassa neppure, è assurdo.» La sala da pranzo dell’appartamento del Nono Arcimago era situato in cima all’Alta Torre. Fuori la finestra, il Simile che l’aveva portata lì si pietrificò.
«Inizio a pensare che morirò prima io di lui» commentò la Lumnar. «Che dicono gli Empirici?» Era scioccata dal fatto che Jaspers potesse superare ogni aspettativa di vita per un corvo imperiale. E non dava alcun segno di vecchiaia. Wyatt, appena settantenne, aveva perso la sfida nel campo della salute: aveva più acciacchi del pennuto.
Il Nono bevve del vino rosso e con uno sguardo accusatore fece mettere composta Hope. «Dicono che c’è un legame strano, bla bla. Un giorno, comunque, lo cucinerò arrosto.»
Il passeriforme, di spalle, saltellò gracchiando come a rispondere con una minaccia.
«Lo farò» insistette il Nono, indicandolo col dito e un finto sguardo severo. Lo stesso uomo ironico di sempre.
«È carne tosta, non vale la pena» vociò Hope, gli occhi dorati chini sul cibo, coltello alla mano.
Jaspers gracchiò ancora e tornò sulla pertica, sparendo via dalla finestra, probabilmente in cerca di altro cibo.
«Hai convocato un incontro formale ai Nove Scranni?»
«Sì. A proposito! Ho conosciuto un ragazzo esilarante! Vedrai. Non c’è Proudspire così simpatico! Gli chiederò di diventare il mio garzone. Insomma, allo stesso modo in cui io stavo dietro al vecchio Rupert, riposi in pace. Si chiama Chadwick, è un biondino in gamba.»
«Papà, tu detesti gli incontri formali.» Hope sfoderò la piena contestazione propria del suo carattere, ignorando quanto Wyatt aveva detto.
«È necessario. Hanno trovato un uomo senza vita nel Dhrena, proprio sotto l’Altopiano. È nero in volto e sul collo.»
Hope rimase in silenzio. Conosceva quella firma mortifera, avrebbe implorato gli Aurei di poterla dimenticare, ma la sua infanzia le sanguinò nello sterno. La memoria partorì un’immagine vivida: Wyatt che accorreva con occhi spalancati dalla preoccupazione, mentre la implorava di non guardare quel cadavere lì a terra.
Regnò il silenzio. L’unico suono che si udiva era il vino che scendeva nella gola di Wyatt.
«È la stessa donna che ha ucciso mia madre?»
Il vino dell’Alba svanì nel suo esofago, lasciando nel bicchiere un alone rosso, irregolare e discendente. Posato sul legno del tavolo, l’oggetto di vetro non suonò mai così torvo.
«Sì.»
Gianluca Locusta (proprietario verificato)
Sono stato tra i pochissimi ad avere il privilegio di leggere il manoscritto e mi ha immediatamente catapultato in un mondo ed una storia che volevo non finisse mai. L’autore è un grande talento con le parole riesce a trasmettere il fascino dei luoghi e a farti partecipe della sua infinita fantasia. Non vedo l’ora di leggere il continuo. Assolutamente uno dei miei libri fantasy preferiti!