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Thebèth – Libro Primo: Signori delle Parole

Thébèth - Libro Primo, Signori delle Parole
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Sotto l’Altopiano Alabastrino, dimora dei Nove Arcimaghi di Forte Puro, una donna misteriosa uccide un uomo: lo sfiora con le dita.
Il mattino successivo, il giovane Chadwick scopre il cadavere. È il giorno del suo compleanno. È lui a portare la notizia al capo di Forte Puro, Wyatt Archeus-Wilmore e padre putativo di Hope Hendryls, unica ragazza al mondo nata con gli occhi dorati, la Lumnar. Rimasta orfana dei genitori a causa del Senza Cognome, Hope è ora cresciuta sotto la protezione di Forte Puro. Quando i Nove Arcimaghi scoprono che l’uomo assassinato era un Diamante, un individuo speciale dotato di un potere irripetibile, una guerra silenziosa e ancora embrionale inizia a prendere piede.

Perché ho scritto questo libro?

Quasi tutte le volte che mi sono immerso in un romanzo fantasy, mi scontravo col bisogno di voler leggere cosmogonie ricche, leggi magiche intricate e personaggi vividi dalla componente emotiva paludosa. La motivazione più forte che mi ha spinto a scrivere è stata questa: ciò che volevo leggere l’ho dovuto scrivere. Questo è solo il Libro Primo di un Volume più ampio, ma ho soddisfatto i miei criteri. Spero di soddisfare anche i vostri.

ANTEPRIMA NON EDITATA

PROLOGO

Un miserabile uomo smilzo avanzò pallido tra gli alberi tortuosi, con logori pantaloni sporchi di terra e una verde mantella di cotone, provvista di un cappuccio. La mantella un tempo era stata un capo dabbigliamento di chi poteva permettersi di spendere parecchie drafie dargento per il proprio vestiario. Luomo si voltò terrorizzato, camminando allindietro col fiato grosso. Cadde finalmente sulle ginocchia, ai piedi di un acero. Sono salvo” pensò, immaginando di poter riposare.

Poteva sentire le acque del Fiume Dhrena scorrere tranquille e quiete: erano più vicine di quanto credesse. Riprese il fiato che aveva perso a causa di un greve timore e subito questo lo invase di nuovo, poiché scoprì che non avrebbe potuto attraversare le acque con la stessa velocità che aveva usato per correre sulla terra.

Continua a leggere

Continua a leggere

Un ramo dellacero si scosse sopra di lui e luomo ebbe il cuore in gola. Alzò lo sguardo in uno scatto: un ragazzo sulla trentina con un cappello di feltro era accovacciato sul ramo, agile come una pantera pronta a cacciare. Appena accortosi di lui, luomo smilzo riprese a correre, i suoi capelli scuri e lunghi al vento.

Il crepuscolo giunse a coprire il cielo come un anatema. Il cielo si sottomise alle tenebre e la luna troneggiò chiara, illuminando ogni cosa con luce fioca.

Bosco Candido si era scoperto una benedizione per tutte due: prendeva il nome dal fatto che anche di notte, più spesso di quanto si pensasse, il riflesso della luna consentiva di scorgere bene dove mettere i piedi.

Il giovane saltò di ramo in ramo, agile, seguendo luomo, disperato ma coraggioso, che s’inerpicava tra le radici sporgenti degli alberi, annaspando per rimettersi in piedi durante la corsa.

Ma allimprovviso non vi erano più alberi a nasconderlo: i suoi occhi e le sue orecchie non videro né sentirono altro che le calme acque del Dhrena.

Il giovane scese in un balzo giù dallultimo ramo e si fermò in piedi a pochi passi dalla riva. Immobile. Vide con chiarezza luomo smilzo dai capelli lunghi, che senza titubanza si era gettato nel fiume.

Salva te stesso” parevano sussurrare le acque alle orecchie del malcapitato. Ma era un invito inutile, detentore di speranze morte.

La sua lunga chioma bagnata ritornò nellacqua dalla quale lui sembrava essere risorto per un attimo, ma non appena fece per camminare duramente contro lattrito delle acque, luomo sollevò un urlo raccapricciante. Era lurlo di chi era stato colto improvvisamente da dolori lancinanti, crudeli come folgori. Lurlo di chi avrebbe probabilmente desiderato la morte piuttosto che continuare ad affogare nei rovi dellagonia. Ma ben presto scoprì che non cera nessuna ferita sul suo corpo.

Poi una donna penetrò le acque, lenta, planando le mani sulla superficie piatta del fiume, come a volerla disegnare delicatamente con i palmi. I suoi capelli erano neri come la pece ma il bagno di luna li rendeva paradossalmente chiari. Appena prima di raggiungere lo sfortunato, la donna socchiuse la bocca come una serpe non affamata ma golosa, nel desiderio di ingoiare la preda. Il suo sguardo era profondo e flebile, femmineo, perso in una folle estasi superficiale ma consapevole.

Il dolore che il poveruomo provava cessò in un istante, lasciando spazio a una fittizia quiete del corpo.

Per lui era come il paradiso dopo interminabili secondi di inferno.

Dalla bocca della donna scivolò un sibilo appena percettibile, mentre la sua mano destra, affusolata ed elegante, si allungava.

«Shhh…»

Lo toccò.

Lui non avrebbe mai pensato che le dita di un essere umano potessero essere così gelide. Ebbe in sé istintivamente la volontà di reagire ma era troppo tardi. Appena la sua guancia fu sfiorata da quelle dita, qualcosa gli suggerì che avrebbe subito offerto tutte le sue ricchezze per scambiare quello che stava per accadere con il dolore di prima.

Quella che aveva ricevuto era una carezza di morte.

«Uno spreco, dover uccidere una persona così speciale come te» sussurrò la donna.

Luomo sentì la pelle accapponarsi e nel mentre lesse negli occhi della donna qualcosa che gli era sfuggito da lungo tempo, inspiegabilmente. Si sentì uno stupido: seppe solo allora la cruda verità.

«Talar…» vociò luomo, con voce strozzata, con gli occhi spalancati. Avvertì la sua pelle cedere, lasciando spazio a una pelle nuova ma incredibilmente decadente. Avrebbe facilmente immaginato che stesse diventando nera ma non ebbe più il respiro e la sua mente rimase paralizzata. Un dramma gli aveva fatto spalancare gli occhi: scoprì che la sua trachea era diventata ugualmente marcia e presto lossigeno non ritornò più ai suoi polmoni.

La donna guardò il corpo di lui abbandonarsi al fiume, con gli occhi spalancati verso il nulla: un quadretto raccapricciante si stava allontanando, sospeso, sul letto vitreo delle acque. La necrosi continuò a dilagare per qualche altro istante, come una macchia dolio, fino ad arrestarsi alla metà di quel viso spento ormai lontano.

La donna si voltò seria e raggiunse il compagno, il quale non aveva staccato gli occhi dalla vittima per tutta la durata della faccenda. Quando i due individui abbandonarono il fiume nel silenzio, la notte rimase per la prima volta stranamente cupa, a Bosco Candido, come non lo era stata per lunghi anni. Il Dhrena, il lunghissimo fiume che segava con i suoi affluenti lintero continente in due emisferi, ne aveva accolte di morti in passato, seppur ben poche curiose come quella, ma mai esse avevano la remota possibilità di restare occulte per sempre agli occhi dei più. Sarebbe stata una lenta sfilata di morte.

Persino Jaspers ne sarebbe stato spettatore.

Hope Hendryls

Città Grigia, la Capitale – Dhrena Orientale

Aveva bisogno di vederla, ancora. Era lì davanti a sé, nel filare di case accatastate. La casa abbandonata, la chiamavano i grigi. Lunica in tutto il territorio fortificato di Città Grigia. Una scritta dottone in rilievo su mattoni di marmo nero recitava: Casa Hendryls.

Aveva rotti vetri di decadenti finestre in legno di noce. Hope si chiedeva perché fossero ancora in quello stato da allora, perché la casa non fosse stata ristrutturata e perché non vi era una nuova famigliola felice a viverci dentro. Non crogiolarti nella tristezza”, avvampò la sua coscienza, la tristezza è morte dellanima, fuggila o ti divorerà”. Wyatt il Prudente, il suo vecchio, davvero pareva essere sempre con lei dovunque andasse, sotto le spoglie dei suoi stessi pensieri.

Le tegole del tetto stridettero dietro di lei e Hope si voltò di scatto mettendo mano allelsa della sua spada. Se non avesse visto un volto familiare, se così poteva chiamarsi la faccia dei Simili, lavrebbe sfoderata in un istantaneo fendente.

Inutile, certo, contro un Simile.

La creatura aveva indosso un lungo soprabito di iuta poverissimo, maniche abbastanza lunghe e larghe da coprire anche le mani, ed era provvisto di un cappuccio che gli aveva celato il capo fino a poco tempo prima. Wyatt li aveva ancora una volta obbligati a camuffarsi; accadeva questo quando uscivano dallAltopiano Alabastrino.

Lui, il Nono Arcimago, la chiamava prudenza. Molte strane accortezze avevano per lui questo nome.

Il volto dei Simili, come lintero corpo, era dun chiaro avorio e pareva, a una prima occhiata superficiale, che avesse la consistenza della pietra. Pur essendo eterea e quasi evanescente, in alcuni momenti. Il Simile non aveva occhi, né naso, né orecchie, né capelli, ma possedeva una bocca ben definita, più bianca del resto del corpo e la maggior parte delle volte – sempre, a ben vedere – la stessa sesibiva in un impalpabile sorriso debole e delicato. Era lunica cosa a dar loro carattere, la bocca.

Come a colpi di scalpello sullavorio del loro viso, invece, al posto degli occhi, giaceva la parola thebèth, prudenza, in alabèith. Come scavata da un abile scultore di ignota provenienza.

Il passato della ragazza si risvegliò in un ricordo indelebile e solenne: era piccola, aveva otto anni a stento e Wyatt era stato nominato Nono da poco. I Simili si destavano dal sonno della pietra per pochi motivi. La Cerimonia degli Ossequi era uno di questi: l’elezione del nuovo Alba. Lassemblea attendeva con desiderio larrivo straordinario dei dodici Simili, che si ripeteva solo una volta dopo il funerale dell’Alba precedente. Un Simile era entrato nel Salone Bianco, leggero come polvere fluttuante, seguito da altri che parevano quasi levitare, distendersi ai lati delle pareti. Leleganza e la grazia erano le principali qualità di un Simile. Ogni loro movimento pareva una danza, come perennemente trasportati da flebili aliti di vento. Non facevano alcun rumore che non desiderassero fare. Avevano un tremendo fascino agli occhi di qualsiasi bambino e di qualsiasi genitore. Il primo ad essere entrato si mosse come nebbia antropomorfa verso il discendente degli Archeus e dei Wilmore. La creatura avanzò con mani ritratte, verso il petto esile, come a non voler disturbare lo studio che stava svolgendo guardando Wyatt. Il volto del Simile era a pochi centimetri da quello del nuovo Alba e mostrava lui la Parola che aveva in volto al posto degli occhi. Grumhkalèst, che significa fermezza. La virtù che meglio incarnava Oddbard Lavren, il precedente Alba i cui funerali erano stati celebrati la mattina stessa. Quei caratteri scolpiti nellavorio svanirono come sgretolati dalla roccia e apparve thebèth, prudenza. Sui volti di tutti i Simili.

Fu così che la gente acclamò Wyatt Archeus-Wilmore, il Prudente. I Simili avevano riconosciuto il nuovo Alba e tornarono al loro sonno di pietra nei rispettivi luoghi in cui serano addormentati, lungo le contrade di Alabéithia. Lassemblea applaudì e Hope, bambina, era rimasta come incantata. Jaspers, ai suoi piedi, gracchiò e poi guardò la piccola dai capelli rosso fuoco.

E dagli occhi color delloro.

Hope ritornò al presente e il Simile che le era davanti avanzò un palmo della mano verso di lei, poi laltro, ritraendo quello precedente, e laltro ancora, finché il messaggio non fu comunicato per intero: su ogni palmo, infatti, appariva una parola scolpita nellavorio e Hope dovette scoprirsi il viso dal largo cappuccio per leggere bene, mostrando così gli occhi dalle iridi dorate e i suoi capelli mossi, rossi, raggruppati in un disordinato chignon. Il suo sguardo era penetrante e maturo, ora, capace di inquietare qualsiasi brigante. Tante volte aveva desiderato che qualcun altro avesse lo stesso colore dei suoi occhi. Tante volte aveva pregato gli Aurei che non fosse lunica… Ma lo era, suo malgrado.

Le parole esibite dal muto Simile si concretizzarono nella sua mente e Hope comprese il senso della sua presenza lì.

Ja insh lumnàr-Ein tarr zubàhkr verkehl-olàh, ymbr sokeìth verbel thebèth-Ein.

La dolce Lumnar è convocata da chi l’ha cresciuta, queste le parole dette da Colui che è prudente. Può essere una traduzione degna”, si disse. Era stata istruita alla comprensione dellalabèith, ma nessun prodigio si sarebbe manifestato per causa sua al pronunciare le parole del Verbo. Eppure Hope nascondeva dentro un profondo desiderio di poter essere uguale a tutti i myriales: ordinaria, indifferente agli occhi disinteressati dei passanti.

La mano della creatura che aveva dinanzi si allungò verso di lei, come a invitarla con rispetto, e il sorriso dellumanoide divenne un popiù pronunciato, per quanto potesse essere una suggestione. Hope non voleva tornare a Forte Puro ma era costretta ad obbedire: non aveva un padre adottivo facile da dissuadere.

«Zutr-ik ja mek-farùf farr, adameywey.» Stavo proprio temendo di dover prendere la carovana, mio malgrado, disse, scherzando in un alabèith fluente. Il Simile però non comprese: loro non conoscevano alcun concetto anche solo vicino allo scherzo. Il volto della creatura era rimasto inalterato, in un sorriso pietrificato e sottile. 

Hope toccò quella mano ed entrambi svanirono nellaria, come fumo che si dilegua in una danza impalpabile.

Ritornare all’Altopiano Alabastrino in un battito di ciglia era quasi nauseante.

«Questo mangia-carogne ingoia per tre della sua specie!» Wyatt comparve davanti ai suoi occhi. Sedeva a mangiare, si lamentava masticando, come se non lavesse convocata per mano di un Simile. «Non ingrassa neppure, è assurdo.» La sala da pranzo dellappartamento del Nono Arcimago era situato in cima allAlta Torre. Fuori la finestra, il Simile che laveva portata lì si pietrificò.

«Inizio a pensare che morirò prima io di lui» commentò la Lumnar. «Che dicono gli Empirici?» Era scioccata dal fatto che Jaspers potesse superare ogni aspettativa di vita per un corvo imperiale. E non dava alcun segno di vecchiaia. Wyatt, appena settantenne, aveva perso la sfida nel campo della salute: aveva più acciacchi del pennuto.

Il Nono bevve del vino rosso e con uno sguardo accusatore fece mettere composta Hope. «Dicono che c’è un legame strano, bla bla. Un giorno, comunque, lo cucinerò arrosto.»

Il passeriforme, di spalle, saltellò gracchiando come a rispondere con una minaccia.

«Lo farò» insistette il Nono, indicandolo col dito e un finto sguardo severo. Lo stesso uomo ironico di sempre.

«È carne tosta, non vale la pena» vociò Hope, gli occhi dorati chini sul cibo, coltello alla mano.

Jaspers gracchiò ancora e tornò sulla pertica, sparendo via dalla finestra, probabilmente in cerca di altro cibo.

«Hai convocato un incontro formale ai Nove Scranni?»

«Sì. A proposito! Ho conosciuto un ragazzo esilarante! Vedrai. Non c’è Proudspire così simpatico! Gli chiederò di diventare il mio garzone. Insomma, allo stesso modo in cui io stavo dietro al vecchio Rupert, riposi in pace. Si chiama Chadwick, è un biondino in gamba.»

«Papà, tu detesti gli incontri formali.» Hope sfoderò la piena contestazione propria del suo carattere, ignorando quanto Wyatt aveva detto.

«È necessario. Hanno trovato un uomo senza vita nel Dhrena, proprio sotto lAltopiano. È nero in volto e sul collo.»

Hope rimase in silenzio. Conosceva quella firma mortifera, avrebbe implorato gli Aurei di poterla dimenticare, ma la sua infanzia le sanguinò nello sterno. La memoria partorì unimmagine vivida: Wyatt che accorreva con occhi spalancati dalla preoccupazione, mentre la implorava di non guardare quel cadavere lì a terra. 

Regnò il silenzio. Lunico suono che si udiva era il vino che scendeva nella gola di Wyatt.

«È la stessa donna che ha ucciso mia madre?»

Il vino dellAlba svanì nel suo esofago, lasciando nel bicchiere un alone rosso, irregolare e discendente. Posato sul legno del tavolo, loggetto di vetro non suonò mai così torvo.

«Sì.»

2023-10-20

“Rino Rivetti, dal convento al fantasy” del Corriere del Mezzogiorno.

A ventinove anni Rino Rivetti ha già vissuto almeno quattro vite. Tutte – confida – con lo stesso nemico da combattere: la noia. La prima, fino alla maturità conseguita presso il liceo linguistico Manzoni di Caserta, come normale studente. La seconda, da attore, perché a calcare le scene è stato portato quasi naturalmente dal fatto che il suo compleanno cade a febbraio, nel periodo di Carnevale, e, quindi, di anno in anno, di festa in festa, mascherandosi sempre da qualcun altro, ci ha preso gusto. La terza vita, invece, è cominciata a 23 anni, e lo ha portato a essere un novizio francescano in un convento vicino Ascoli Piceno, nelle Marche. La quarta, infine, è quella di scrittore in erba. Uno scrittore di genere fantasy, per la precisione. Perché se Rino ha vissuto materialmente quattro vite, nella sua immaginazione chissà a che numero è arrivato. «Combatto la noia da sempre» «Effettivamente non saprei dirlo. Ma, fin da piccolo, se mio padre Giovanni lo ha fatto con le bici, la sua grande passione, io ho viaggiato molto con la mente. E la scrittura è proprio il principale antidoto che ho trovato a ciò che nella vita mi ha fatto sempre più paura: annoiarmi». Fatto sta che, dopo aver fatto leggere il suo manoscritto a varie case editrici, finalmente, Rino ne ha trovata una – Bookabook – pronta a scommettere sul suo lavoro. A patto, però, che, in cento giorni, su Internet, ci siano almeno duecento prenotazioni di quello che dovrebbe essere solo il primo libro, «Signori delle parole», di una saga intitolata «Thebèth». Per qualche mese, con la sfida di questa sorta di crowdfunding in atto, la noia sarà solo un brutto ricordo: «Da bambino anche i giocattoli mi annoiavano a morte: anche se non mi è mai mancato nulla, ho sempre preferito rifugiarmi nella mia fantasia per stare bene. E pensare che mia sorella Rosy è il contrario di me: è sempre stata molto rigorosa e pragmatica, tant’è che oggi è una poliziotta. Ma chi, come lei, mi conosce, considera naturale il mio approdo al fantasy. Oltre al fatto che quello che adesso posso promettere ai miei lettori è proprio questo: che avranno un mondo senza noia con cosmogonie ricche, leggi magiche intricate e personaggi vividi, ognuno dei quali, in realtà, rappresenta una parte di me». «I frati hanno pianto». Inutile ricercare su un vocabolario il significato della parola «Thebèth»: in realtà, significa «prudenza». Ma in una lingua che ha inventato Rino: l’alabèith. In ogni caso: dopo la prima settimana, sono già oltre 130 le persone che ne hanno prenotato una copia. Ma come è nata questa corsa verso la pubblicazione? “Durante la mia esperienza in convento – risponde Rino – Ho cominciato a scrivere “Signori delle parole” quando ero nel pieno del mio cammino verso la Professione solenne, come si definisce il percorso religioso che doveva culminare prendendo i voti e diventando un frate. Sono stato invogliato a far pubblicare il mio libro da coloro i quali per quattro anni e nove mesi sono stati i miei confratelli. Sono stati loro i miei primi lettori. Eravamo in diciassette in convento, tutti abbastanza giovani. E quando sono arrivati all’ultima pagina del mio romanzo si sono emozionati tutti, qualcuno fino alle lacrime». In convento si occupava dell'orto. Per Rino, che in convento si occupava di giardinaggio, di coltivare un orto (la botanica è un’altra sua grande passione), di allevare gli animali da stalla in dote ai frati e di produrre un formaggio, quello è stato uno dei momenti più belli. Anche se è stato il momento che lo ha spinto a interrompere il cammino religioso e a scegliere di seguire un’altra vocazione: quella artistica. Così, ha lasciato il monastero ascolano e da due anni si è trasferito a Napoli. «Dalla placida quotidianità del convento, sono passato alla frenesia di un quartiere come Forcella dove, tra un lavoretto e l’altro, ho ripreso anche la mia attività di attore. Un’arte che ho avuto modo di studiare prima a Caserta nell’ ‘Officina teatro’ di Michele Pagano e Maria Macri e poi qui a Napoli presso la “Scuola elementare del teatro” di Davide Iodice. L’impatto, lo confesso, si è fatto sentire. Ma, ora, per vivere bene, ciò che sogno è di diventare uno scrittore: dai miei confratelli ho imparato a coltivare la gioia che merita la vita, sempre: altro che noia! E questa lezione l’ho imparata soprattutto con l’esempio della creatività che loro continuano a mettere nella fede, ma che io, invece, ora voglio condividere attraverso la scrittura».
2023-11-07

Evento

Casa Sanità - Via Sanità 36/a, 80137 Napoli Presentazione della campagna preordini del romanzo. Spiegherò la cosmogonia dell'ambientazione del romanzo e le relative lingue che ho inventato, presentando i personaggi e i loro punti di vista, la struttura dei loro capitoli personali e le loro evoluzioni. Si darà luogo alla lettura di un capitolo a scelta e si potrà bere del vino per conciliare l'attività.

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Sono stato tra i pochissimi ad avere il privilegio di leggere il manoscritto e mi ha immediatamente catapultato in un mondo ed una storia che volevo non finisse mai. L’autore è un grande talento con le parole riesce a trasmettere il fascino dei luoghi e a farti partecipe della sua infinita fantasia. Non vedo l’ora di leggere il continuo. Assolutamente uno dei miei libri fantasy preferiti!

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Rino Rivetti
Rino nasce a Caserta, nasce a Carnevale e festeggia sempre in maschera, ma si scontra presto con l'insufficienza dei giocattoli che gli regalavano. Conosciuta la Noia, che da piccolo rappresentava il suo peggior nemico, con naturalezza si immerge in mondi incantati creati dalla sua fantasia. Comincia fin da subito a disegnare in maniera maniacale le mappe dei suoi mondi immaginari e li nutre con dei personaggi nei quali si immedesima. Decide in adolescenza, per questo motivo costante, di diventare un attore teatrale. Dopo varie esperienze estere, finisce a fare un'esperienza di ritiro in un monastero situato nei boschi marchigiani, dove resta per quasi cinque anni. Lì, decide di scrivere il suo primo libro fantasy durante il lockdown, periodo per lui molto pacifico. Bisognoso di praticare la sua creatività nel mondo, ora vive a Napoli e continua il lavoro di attore teatrale.
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