Ci tornò un giorno in cui l’inverno era appena iniziato, a Nuoro, e ci provò subito a dimenticare. Un bell’aiuto le arrivò proprio da quella città. La trovòdiversa, lontana da ciò che ricordava di aver lasciato appena adolescente. Dopo quasi trent’anni, non trovò più le strade che non la smettevano di salire e scendere, i vicoli immersi nell’odore di brodo che usciva dalle piccole finestre, gli spiazzi polverosi con i cespugli di erbe pungenti e appiccicose che sbucavano da ogni anfratto; non trovò più le case basse e spioventi che costeggiavano discese percorse da rigoli d’acqua e altro che, uscendo dalle basse porte di legno, confluivano verso il centro della via a formare un fiume di vita liquida che chissà dove se ne voleva andare.
Trovò invece quasi una città. Trovò palazzi, quasi come quelli che aveva conosciuto negli anni vissuti lontano, e strade con i tombini e l’asfalto; trovò negozi alla moda nelle vie del centro, perché pure lì, anche se aveva fatto un giro più lungo, era arrivato il boom economico, e pure lì le ragazze provavano a vestirsi come Audrey Hepburn e i ragazzi imitavano Marcello Mastroianni.Trovò la casa dei genitori, casa sua, ormai, perché loro non c’erano più. Erano passati quasi trent’anni e tutte le voci, le facce, le lacrime e le tristezze vissute avevano cancellato, come una cimosa su una lavagna, tutte le immagini passate tra quelle mura.Così, quando ci entrò, le sembrò di essere in un posto completamente nuovo. Anche perché lì dentro era cambiato tutto. Al piano terra non c’era più niente. Solo il caminetto era uguale, ma niente bagno né cucina, solo un ampio sottoscala. Avevano trasferito tutto al primo piano, in un appartamento completo, che era fatto per viverci massimo in tre. C’era una cucina che faceva anche da soggiorno, due camerette, un bagno e uno sgabuzzino, l’unica stanza senza porta. Non vedeva l’ora di sistemarla a suo gusto; avrebbe continuato il progetto che aveva in mente per l’appartamento di Milano, quello preso con Annamaria dopo che erano rimaste in mezzo a una strada per colpa di ciò che riserva il destino.Le piacevano le tende scure, a Luisa, e le pareti bianche; così poteva nascondersi ma essere comunque circondata dal pulito e dalla luce. Desiderava da tempo un divano tutto per sé, pieno di cuscini, e avrebbe preso tutti mobili chiari, che di buio, panche dure e letti scomodi ne aveva avuti abbastanza.Sistemò le sue cose nelle varie stanze, apportò le modifiche che desiderava e svuotò con calma i mobili dai residui delle vite precedenti.Ricavò la sua stanza da letto nella camera che era stata dei genitori e dedicò l’altra stanza agli ospiti, se mai un giorno ne avesse avuti: lì non conosceva nessuno e nessuno la conosceva, ma non si poteva mai sapere. Intanto iniziò a fare amicizia nel vicinato. Tutte nuove generazioni, che di lei non sapevano niente. Si diceva in giro che era stata maestra in Continente e lei li lasciò dire. Era ancora giovane, e aveva anche qualche corteggiatore, ma Luisa non lo sapeva cosa voleva dire essere corteggiata: pensava che anche quelli, come tutti gli uomini con cui aveva avuto a che fare, volessero sempre qualcosa in cambio, che una volta preso ciò che gli serviva sarebbero svaniti nel nulla, e che non erano capaci di dare niente di buono. Che, insomma, era meglio starne alla larga. «Queste rose ficcatele nel culo.»Era il contenuto del biglietto in risposta a una donazione floreale da parte di un onesto professore di Gavoi,che si era invaghito di lei. L’uomo sparì, mischino. Purtroppo per lui, Luisa di linguaggio ne conosceva solo uno, e non era quello dei fiori.C’era poi un altro fatto: stava ormai assaporando la sua nuova vita, quella in cui si dorme da soli senza avere paura di ciò che potrebbe accadere il giorno dopo, se va bene, o durante la notte, se invece va male. Aveva ancora da parte qualche risparmio e sapeva che le avrebbero dato la pensione sociale. In fondo, aveva poche esigenze. Tranquilla, ecco come si sentiva.Un pomeriggio, mentre puliva a fondo il grande armadio che occupava la sua camera, trovò un plico di carte ammassate e legate con uno spago. Era sistemato proprio sul fondo del mobile. Non lo aveva mai visto prima, e la cosa la portò a fermarsi e a controllare di che si trattasse. Poteva esserci là in mezzo una traccia del suo passaggio in quella casa, dentro quella famiglia. Molto era stato il tempo passato lontano da lì: chissà se era rimasto qualcosa o se davvero era stata cancellata del tutto. Questo voleva capire e questo sperava quando scartabellò, foglio dopo foglio, l’ammasso di documenti. Non fu accurata nella ricerca, in realtà i suoi occhi volevano individuare una sua fotografia, o il suo nome scritto su qualcuno di quei fogli. Trovò invece solo vecchie carte di lavoro del padre e alcune immaginette sacre, tutte dello stesso soggetto, Nostra Signora delle Grazie.Trascinando i piedi per la delusione, stava per portare tutto nel cesto della spazzatura, quando una folata di vento spalancò la finestra della stanza e fece volare i fogli per aria. «Ma è possibile questo cazzo di vento!» inveì Luisa alla sua maniera. Poggiò le ginocchia in terra e si mise a raccogliere, appallottolandoli, tutti i papiri sparsi sul pavimento. Ne era rimasto uno solo, un foglietto così piccolo che prima nemmeno lo aveva visto e che attrasse la sua attenzione per il colore della carta, di un rosso bruno in mezzo all’avorio degli altri documenti: “Porta in legno di rovere pagata Lire 150”. La ricevuta riportava l’intestazione di tale Raimondo Ladu, laboratorio artigiano, via Lamarmora 75. Lo tenne, se lo mise nella tasca del vestito perché sapeva che le sarebbe tornato utile. A dispetto della tranquillità di cui ormai godeva in quella casa tutta sua, infatti, negli ultimitempi non riusciva più a dormire bene: la notte, dalla stanza senza porta, si sentivano provenire forti, ripetuti, acuti e invadenti spifferi. Aveva provato a ignorarli ma niente, arrivavano fino alla sua camera infilandosi prepotenti, fino a sollevarle le lenzuola. Aveva provato a chiudere la porta della stanza, ma riuscivano a disturbarla anche così; anzi era pure peggio, perché al fischio si univa lo sbatacchiare dell’anta sullo stipite.Pensò di andare a cercare l’artigiano della ricevuta, sebbene fosse stata fatta circa vent’anni prima: magari quella porta era proprio per quell’unica stanza a cui mancava; forse anche i suoi genitori non sopportavano più quegli spifferi, e se così non fosse stato, almeno avrebbe trovato un falegname che quella porta gliela avrebbe pure potuta fare.Così, una mattina di gennaio, Luisa uscì di casa e andò a cercare il negozio di Tziu Remundu. La distanza che c’era tra Nuoro e Milano non stava solo nei chilometri che le separavano o nel mare che c’era in mezzo; pure il freddo aveva una faccia diversa. A Milano ti assaliva e ti inscatolava. Era ovunque. Qui no. Qui era subdolo, proprio come gli sguardi che il suo lungo cappotto alla moda e la sua figura slanciata attiravano. Si insinuava tra i vicoli e arrivava alle spalle, scendeva in basso, per poi fuggire risucchiato da un’altra stradina, lasciare un po’ di tregua e poi tornare, finché non si trovava un riparo. E un riparo Luisa lo cercava anche da tutti quegli sguardi.S’impose di non lasciarsi distrarre e scrutò una a unale insegne della via Lamarmora, che iniziò a percorrere dalla piazza antistante alla nuova chiesa delle Grazie. Incontrò una porta a vetri, senza insegna, da cui usciva un odore carico di vernice e acqua ragia. Spiò l’interno di quella che, dalle macchineche lo riempivano, doveva essere una falegnameria. Pareva essere molto più grande dentro di come non apparisse da fuori. Entrò piano e salutò. «Buongiorno, avrei bisogno.»Poco dopo si udì un rumore di attrezzi metallici e uno strascicare di passi. Da una porticina nascosta sul fondo comparve un uomo che non le arrivava nemmeno alle spalle, di quelli che sembrano venuti al mondo con quell’età già addosso, tanto gli si addice, con una parannanza di pelle e un paio di occhiali da saldatore sulla testa.«Bongiorno, mi dica» bofonchiò strofinando le mani sul grembiule. Solo quando vide chi aveva davanti, esclamò: «Ma non sarai Luisa?».«E come fa a saperlo?»«A Nuoro lo sapevano tutti che eri tornata. Ti ho riconosciuto perché sei bell… uguale a tua mamma.» Imbarazzato, abbassò lo sguardo.«Ah, e certo, ti pareva che qui si passa inosservati. Lei immagino sia il signor Remundu? Sono qui perché mi serve una porta, in casa ho trovato una stanza senza e poi, guarda caso, ho trovato questa; forse mia madre l’avevagià ordinata» rispose mostrando la ricevuta.«Allora finalmente te lo porti via quel batile? È per lo sgabuzzino, vero?Tua mamma me l’aveva ordinata, ma lo sai quando? Boh, manco mi ricordo. Ah, sì, forse poco prima di andarsene, in su Chelu siata, povera donna. Vieni che te la faccio vedere, così vedi se ti va bene e te la prendi, che mi fai spazio qua dentro, mi pare che me l’aveva pure pagata.»Tziu Remundu guidò Luisa verso la porta che giaceva abbandonata in fondo al laboratorio; sembrava perfetta, fatta a bella posta per lo sgabuzzino. Sorrise, ora avrebbe finalmente riposato, e un’altra cosa era sistemata.Si accordò per il trasporto, che sarebbe avvenuto in serata, salutò Remundu, tornò a casa e rimase in attesa della consegna. Il falegname arrivò un po’ in ritardo, tanto che Luisa si stava già infilando il cappotto per andare a dirglielo che non si faceva così, quando sentì suonare il campanello. Lei rimase a guardarlo mentre lavorava, pure se era tardi, ma già che c’era doveva finire e su questo erano tutt’e due d’accordo. «Ecco fatto,» disse il falegname facendo ruotare la porta sui cardini, «il mio lavoro è fatto, come promesso. Adiosu».Si chiudeva alla perfezione. Nessuno spazio, nessun gioco. Remundu si raccomandò di non utilizzarla fino al giorno dopo, che doveva asciugarsi la colla del legno dello stipite. Luisa obbedì: non sentì alcun rumore, non ci furono spifferi e, tra un sorriso e un sogno, pensò che forse ce l’avrebbe fatta, finalmente, a riposare.Di prima mattina decise di fare un giro di perlustrazione accurato della casa, per capire se c’erano altri lavori da fare. Annotò sul suo quaderno che la finestra della cucina non chiudeva bene, lo stipite della porta della cameretta era rovinato, mancava la tenda nel bagnetto e altre cose. Così, girando girando, arrivò allo sgabuzzino e decise di controllare pure lì dentro se ci fosse qualcosa da aggiustare. Si accinse quindi ad aprire la nuova porta. Fece solo in tempo a vedere una luce bianca e accecante sul fondo, perché poi, all’istante, venne scaraventata all’indietro cadendo sul pavimento del corridoio.Non capì, Luisa, inveì, ci riprovò più e più volte, ma niente. Ogni volta una mano invisibile la respingeva. Vedeva solo quella luce. Andò a chiedere spiegazioni, a lamentarsi da Remundu, ma servì solo ad aumentare la sua confusione. Il laboratorio dall’apparenza accartocciata non c’era più. Al suo posto, in via Lamarmora, c’era una piccola bottega alimentare.Chiese informazioni ma le dissero, ridendo di lei, che Tziu Remundu c’era stato lì, un tempo, ma chissà quando, e che di sicuro ne poteva trovare le ossa al camposanto.
Maria Elisa Gualandris
“A Nuoro esistono porte che celano mondi segreti” si legge nella sinossi del romanzo di Maria Grazia Grosso. E anche questo libro per me è stato così: aprire una porta su un mondo inaspettato. Innanzitutto mi hanno incuriosita moltissimo i due piani della storia, tra Luisa e Arianna. Due donne che rappresentano due mondi diversi, che, incredibilmente si incontrano. La trama è veramente particolare e originale. Nuoro e la Sardegna raccontate nel libro sono meravigliose e mi è subito venuta voglia di partire. Ciò che però ho apprezzato moltissimo è stata la bravura dell’autrice nel far vivere i suoi personaggi, veri, reali, mai edulcorati, nonostante la storia le porti in mondi fantastici. E che fa riflettere, su quanto le donne ancora oggi debbano combattere per difendere l a propria dignità e il proprio posto nel mondo. Vi consiglio questa storia scritta bene, che scorre fluida. Complimenti alla scrittrice.
Daniela Puddu (proprietario verificato)
Maria Grazia scrive da sempre.
La storia di “Torniamocene a casa” è nata, come tutte le storie, dal bisogno e dal desiderio di voler raccontare qualcosa. E per Maria Grazia quel qualcosa era “c’è sempre un’altra possibilità, il presente si può cambiare”. Da quella prima premessa è passato un bel po’ di tempo. La prima scaletta, i primi capitoli, la prima stesura (che, come diceva il grande Hemingway, è sempre me…, ehm, insomma non è proprio perfetta). E alla fine, dopo infinite revisioni e stesure, quella storia ha preso forma ed è diventata un romanzo che ha anche un pizzico di magia. Tutto questo grazie alla passione, alla tenacia e alla fiducia riposta in quella storia. Ora, con una campagna di crowdfunding su Book a book, il desiderio è quello di una pubblicazione partendo proprio dai lettori a cui chiedere che quella fiducia venga sostenuta. E allora, perché non partire dall’amore per i libri e le storie e darle una mano?
Annachiara Atzei (proprietario verificato)
Maria Grazia Grosso ha scritto davvero una bella storia che merita di diventare un libro. E se riuscisse a raggiungere il suo obiettivo, allora la fantasia supererebbe la realtà! Cosa ci sarà dietro quella porta? In bocca al lupo, scrittrice!