Erano state case povere, quelle. Abbandonate chissà quando e da chissà chi, in quel piccolo villaggio di contadini e pescatori. Isbe isolate in mezzo al nulla, come fermatesi a caso dopo un lancio di dadi che rotolano in mezzo alla steppa. Case che gli inverni avevano piegato, la povertà spezzato e la guerra svuotato. Chissà quella gente che fine aveva fatto. Scappati, forse. O richiamati al fronte, e chissà che in quel momento qualcuno di loro non fosse al di là del Don con il sangue agli occhi per poter attraversare e riprendersi la propria vita.
Tra le mura delle case, il falsopiano creava un piccolo rifugio dove, pur tra mille premure, era possibile muoversi e rovistare tra neve e ruderi in cerca di qualsiasi cosa potesse tornare utile. Impossibile trovare qualcosa al piano terreno, ma ogni isba aveva la sua buca in cui proteggere i beni più preziosi e fu in cerca dei crutin che Mario ed Emilio iniziarono a scavare. Quel che ne emerse era un piccolo grande tesoro: il sergente trovò infatti una pentola di ciliege secche, messe probabilmente da parte come riserva per una stagione fredda che sarebbe poi invece stata sorpresa dalla guerra; Tourn trovò da parte sua due sacchi di segala e due sedie. Solo chi ha passato l’inverno sotto il terreno ghiacciato, accampato in tane improvvisate per ripararsi da temperature impossibili, sa cosa possa voler dire trovare due sedie sulle quali poter adagiare la propria stanchezza o da poter usare come tavolino per scrivere qualche pensiero da mandare verso casa.
Anche i sacchi di segala diventarono rapidamente occasione di giubilo per la squadra del sergente: significava una dose extra di polenta calda con la quale confortare lo stomaco prima del turno di vedetta. In quella notte cheta, dove ogni rumore sarebbe stato occasione di allarme, Tourn affondava cautamente i piedi nella neve con suono sordo e secco, passo dopo passo, mentre i sacchi sulle spalle proiettavano un’ombra ingobbita sulla neve candida del pianoro. Croc, croc, croc, croc. Lento, regolare, attento. Il passamontagna sul volto, il sergente a seguire con ciliege, sedie e fucile. Alcuni spari provennero improvvisamente dai russi: Emilio e Mario si abbassarono rapidi e udirono il sibilo passare sulla loro testa. Uno sguardo d’intesa, una rapida corsa per proteggersi dietro un piccolo camino, poi il silenzio: nessun movimento, meglio usare prudenza. La luna illuminava infatti la neve e le due sagome scure che si muovevano dovevano essere visibili all’occhio attento di una vedetta appostata sull’altro versante. Sarebbe bastato però un pizzico di pazienza e la situazione si sarebbe presto sbloccata: una grande nuvola stava per giungere in soccorso e non appena avesse oscurato il cielo, sarebbero potuti correre al riparo. Così fecero, rialzandosi lenti e camminando nel buio a schiena china fin dentro i camminamenti. Poi tutto scivolò nella tana, al buio, andando a cercare a tentoni lo sguardo degli altri per festeggiare la scoperta.
Dal suo rifugio, scavato nella terra e sormontato da pali e fogliame, forse Tourn poteva vedere quella luna che illuminava la neve e faceva brillare il Don. La guardava e ne riconosceva i giochi geometrici delle stelle attorno, lui che dalla vallata di Mugniva era abituato a guardarle in quella piccola fetta di cielo che le montagne consentivano di scorgere. E chissà cosa pensava, quando scrutava il cielo lontano ben sapendo che era lo stesso che in quel momento avrebbe potuto vedere da casa sua, con gli affetti vicini, gli amici alla portata e la tranquillità nel cuore. Eppure, casa in quel momento sembrava addirittura più lontana del Quadrato di Perseo: due milioni di anni luce non erano sufficienti per far sparire Andromeda dal firmamento, ma qualche mese di guerra poteva invece creare distanze ben più grandi e incolmabili qui tra gli uomini. Tuttavia, chiunque in quei giorni avesse guardato al cielo da Luserna San Giovanni avrebbe certamente sentito vicino il cuore di Emilio battere in sincrono, perché dopotutto le distanze sono relative quando le misuri in affetto.
Quando d’estate dormiva a Mugniva, aveva probabilmente imparato a memoria il disegno stellato della volta celeste: solo il blu profondo dell’empireo di quelle valli e di quei tempi consentiva di incastonare le stelle così nettamente nel firmamento, facendole brillare più di quanto non facciano oggi. Il cielo della steppa doveva essere simile in quella notte di luna e forse Emilio vi si riconosceva e rimuginava le sensazioni del pagliericcio su cui riposava tra una giornata di lavoro e un’altra. Ma tra le fresche estati di Mugniva e il freddo maledetto della steppa, c’era in mezzo un mondo ribaltato e confuso, che aveva perso ogni riferimento e nel quale per sopravvivere bisognava nascondersi, ma per vivere bisognava essere pronti anche a uccidere.
Mentre camminava dietro il sergente e il respiro fumante usciva dal passamontagna, lo sguardo di Emilio scivolava dal cielo blu all’orizzonte sfumato, e poi più in basso su quell’azzurro pallido che colorava tutta la steppa: sarebbe bastato fingere di non avere paura per avere la sensazione di guardare di nuovo dall’alto la spianata di Airali, come quando la nebbia la nascondeva a chi ne godeva la visione dalle strade che salivano verso le cave. Chissà che quello sparo non gli avesse interrotto un pensiero simile, riportandolo all’urgenza di ripararsi proprio mentre con l’animo stava lentamente spiccando il volo.
Emilio si trovava lì, tra l’abisso dei chilometri percorsi e quei pochi metri che ora lo dividevano da un nemico ignoto. Solo quando l’occhio, inumidito dal freddo, tornava sulle impronte del sergente, la mente poteva tornare alla realtà: il cielo resta il cielo, le stelle restano stelle, ma la neve è sofferenza e l’orizzonte ha sempre pronto un proiettile che può arrivare da un momento all’altro a spezzare ogni pensiero. Chissà quale angoscia poteva accompagnarlo la sera fino al sonno, mentre cercava una risposta a tutti quei “perché”. Chissà cosa pensava mentre appoggiava il fucile al muro e chiudeva gli occhi sperando di non doversi svegliare di soprassalto per un qualche allarme improvviso. Di certo, si chiedeva una cosa: perché era finito lì, in quel pianoro disperso in riva al Don? Quale destino lo aspettava? Perché la sorte lo aveva spedito tra quei compagni d’arme, sotto il vessillo del Vestone, a guardare a distanza gli occhi di un nemico che in nessun modo aveva – né avrebbe – mai odiato? Se quel giorno non avesse… e se quella volta non fosse… Ma ormai era tardi e quella luna era lì per riportarlo al presente senza che l’angoscia potesse sopraffarne l’animo. Quella notte, al netto della paura, doveva infatti essere bellissima: la distesa bianca e infinita, l’orizzonte netto della riva opposta, il Don placido che scorreva ignorando la tempesta che stava per scatenarsi tutto attorno. E così i gatti e i topi, gli uccelli e i pesci, la luna e le stelle. Solo l’uomo, variabile impazzita, vedeva il terrore in mezzo a quelle fronde. Ed era paura motivata, perché la realtà era che tutto stava per precipitare.
Ma per capire davvero cosa stesse succedendo in quei momenti, in quelle notti di luna sul Don, bisogna partire da molti anni prima: la vita annoda i fili del destino in modo spesso imperscrutabile ma, se si conosce il percorso di ognuno di loro, ecco che tutto viene a trovare un senso compiuto. E allora non resta che fare un passo indietro, là dove tutto è iniziato.
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