La piccola camera è avvolta nella penombra, con le imposte dell’unica finestra presente che guarda verso il mare appena socchiuse, e tenute unite dal ferro semi logoro del serraggio, le quali sdoganano sottili lame di luce gialla attraverso le sue falde oblique. Camera quella, densa di aria respirata e carica di anni. Grani di polvere appena visibili corrono eccitati in giravolte improbabili su e giù per la stanza, mossi da minuscoli spiragli di vento nuovo che muove in quelle prime giornate di aprile, anch’essi fattesi strada attraverso quell’apertura lasciata da gesti scanditi con lenta ma decisa ripetizione, regolati dalle stagioni e dal tempo, inteso in tutti i suoi significati, anche in quello che Maria scruta ogni mattina, come primo o secondo movimento dopo una notte di sonno incerto o di veglia continua. Un affaccio appena, oltre le imposte legnose prima a sud e poi a nord, affacci seguiti da smorfie o sorrisi a seconda di quello che gli occhi hanno visto ballare in cielo e dei colori verso i quali sembra dirigersi lo scorrere di quella giornata.
Lui è lì, in quella camera con la porta mai chiusa, solo socchiusa. Seduto sul letto, braccia dritte appoggiate di lato, a due palmi da quel corpo che richiede sempre di più appoggi sicuri per la sua rettitudine, messa al bando dalla gravità crescente, che schiaccia quelle fibre di muscoli dimentiche della tenacia di un tempo.
Il respiro rumoroso succhia vorace ossigeno puro, limpido, che da quella grossa bombola grigia e che odora di metallo, attraverso una scia fina e trasparente di tubi senza peso, inonda il suo petto stanco, alleviando la fatica di quell’atto ritmico e vitale. Il rumore del piccolo marchingegno che spinge quel fluido trasparente risponde a tempo ai battiti del silenzio della stanza.
Ha già indosso il vestito buono, quello messo solo una volta, tanti anni prima, tredici per la precisione. È marrone scuro, tessuto pesante, buono per l’inverno e per chi come lui ha sempre un po’ di freddo addosso. Odora di buio e di fiori appassiti, stretti in grossi mazzi, violentati dal dolore e da un’aria densa e umida che scivola su marmi lisci e silenziosi, bianchi, candidi, eretti a barriera di confine tra chi c’è e chi non c’è più.
Quella giacca, quei pantaloni, quella camicia stirata con mestiere Lui aveva già da tempo deciso che li avrebbe indossati nuovamente in altre due sole uniche occasioni: una era solo questione di tempo, mentre l’altra se quello stesso tempo che zoppicava e andava lento ma che i suoi passi non li dimenticava mai, gliene avrebbe concesso la possibilità. Possibilità intesa come evento umanamente sostenibile, contornato dal filo di serenità e dalla forza necessaria a renderla tale. In caso contrario, dove questa seconda delle due occasioni sarebbe stata solo un trascinamento straziante senza scopo e senso, contornato di spilli di dolore e sofferenza che bucano senza sosta la basica decenza umana, beh, in quel caso quella stoffa cucita e conservata a dovere poteva fottersi e rimanere dov’era fino alla successiva irrinunciabile e, per lui, impronunciabile occasione.
Le occasioni quindi, guidate dalla storia e dalla caparbietà, e senza che se lo ripetesse tanto spesso, anche dalla buona sorte, sarebbero state infine, appunto, due.
Quella mattina, fino all’atto della inusuale vestizione, tutto era scorso allo stesso modo nel quale erano fluite le porzioni di tempo di tutti i giorni degli ultimi anni ammucchiati sopra le sue spalle.
Sveglia regolata dalla volubilità dell’alba, l’atto lungo e faticoso di tirarsi su dal letto, l’affaccio del figlio nominato con il “tu” e al seguito la nuora appellata con il “voi” di altri tempi, che chiedono come va. Lenti passi appoggiati al bastone verso il bagno, ritorno in camera per cambiare il pigiama con abiti da casa, facili e comodi. Passi un poco più spediti verso la cucina e la colazione già pronta, con il sottofondo familiare che lo accoglie dei programmi mattutini che scorrono sullo schermo del televisore già acceso, che Lui non guarda, interessato solamente a quella tazza di latte sporcato di caffè che lo attende al suo posto, l’istinto inviolabile del desiderio di nutrimento come unico e fondamentale segno di salubrità.
Poi, se oggi fosse stato un giorno con il nome di tutti gli altri giorni, si sarebbe diretto a passi lenti verso la sua poltrona, per una mattinata di immagini distratte sullo schermo, sonnecchi, pensieri, respiri profondi dentro quel suo mondo diventato semplice, ornato solo dall’indispensabile in fatto di oggetti e movimenti, ma bisognoso delle manifestazioni umane irrinunciabili quali l’affetto, l’emozione, la tenerezza.
Ma l’oggi si porta addosso una nominazione diversa, privilegio per pochi. Giorno di stupore e complimenti, di frasi dette sottovoce e col tono dedicato ai momenti solenni: «Lui è uno con la corazza», «dopo tutto quello che ha passato, guardalo, è incredibile che sia ancora qui», «e chi lo ammazza uno così», frasi dette da chi sa tutto e da chi non sa niente, da chi gli vuole bene e da chi gli ha voluto male. Tutto quel tempo addosso genera sorpresa, ammirazione e rispetto.
A lui, ora, male non gliene vuole più nessuno.
Dunque quest’oggi i suoi passi cambiano, sono un po’ più forti nella sua testa e un poco più tremolanti nelle sue gambe, emozionate, spaventate dalla versione particolare di quelle prossime ore. Ritorna nella sua stanza, manca di indossare la cravatta, il maglioncino da mettere sopra la camicia e poi per ultima, ma non adesso, la giacca liscia e un po’ grande. Non lo era a quel tempo.
Si siede sul letto nel frattempo rifatto. Nulla è variato. Penombra, rivolo di aria nuova, sentore sospeso e rarefatto di un movimento non usuale che sa di cose antiche, smosse dalla loro staticità quasi dimenticata. Fibre intrecciate, fiori diventati polvere.
Si concede un tempo non misurato per riprendere quel fiato necessario, calmare gli animi già un po’ troppo sollecitati, comporre i giusti pensieri, lenti, confinati come lo sono già da tempo entro gli attimi del presente ed un poco verso il futuro, ma mai troppo. L’illusione a Lui fa male.
Però, come naturale prassi dell’esistenza degli esseri particolarmente carichi di umano, essi tendono a sbordare come torrenti di montagna dopo violenti temporali, verso il passato, tutto quanto e tanto, una mole non misurabile, densa ed immensa.
In fondo al letto, appoggiato alla parete a lato della porta, sta il vecchio comò stile classico a quattro cassetti in legno di ciliegio indurito, scuro, immune al tempo, all’umidità, ai tarli. Sopra di esso, appoggiato al muro, il grande specchio macchiato dal tempo, contornato da una cornice di legno lavorata, ora un po’ meno lucente, attraversato negli angoli da sottili filamenti scuri, come se il tempo lo volesse irrorare con il suo sangue entropico capillarizzando quell’oggetto, testimone del suo scorrere attraverso le immagini riflesse di bambini diventati vecchi, uomini diventati nonni, donne diventate mamme, vita, nuova vita. Sopra il pesante ripiano in marmo grigio, liscio, inscalfibile, giacciono le cose che lo seguono, giorno dopo giorno, passo dopo passo. Sul lato sinistro una foto in bianco e nero, una figura in primo piano, sorridente, capelli in ordine, orecchini delle occasioni speciali, con un’aria un po’ imbarazzata, impreparata ad essere fotografata. Quel ritratto è incastonato in una sottile e semplice cornice in argento. Immagine ad immortalare, forse, un momento speciale, una festa di paese, un matrimonio, chissà, di quale fosse stato non ne ha più memoria. Quella nella foto è stata la compagna della sua vita, fissata nel tempo a ricordarla com’era.
A lato della cornice un piccolo ventaglio di immagini di santi, appoggiati ad una vecchia scatola di legno vuota. San Giuseppe, Sant’Antonio e la Madonna di Loreto. Davanti a loro un piccolo lumicino giallo, tremolante, a dare un flebile bagliore di luce a quei sottili pezzi di carta.
Più in là, sulla destra, la pila di scatole dei farmaci, colorate e dai nomi impronunciabili, con su scritto a penna con tratto incerto a cosa servono e il momento della giornata nel quale prenderli. Due per dare man forte al cuore, dopo i pasti, quella per la pressione la mattina, per il colesterolo dopo colazione e un po’ in disparte, dietro gli altri, il flaconcino delle pillole per l’ansia, con su scritta nessuna indicazione, da prendere solo al bisogno, quando la paura si insinua tra i suoi pensieri, quando gli sembra che tutto il peso del mondo stia per cadere sopra quel corpo antico e fiaccato e che i brutti presagi inizino a prendere il sopravvento.
Lui odia il dolore, non lo sopporta.
Accanto un bicchiere di vetro ed una bottiglia di acqua.
Si alza dal letto avvicinandosi a quella collezione di cose diverse tra loro. Appoggia il bastone al comò ancorandosi con le enormi mani a quella lastra di marmo fredda. Posa i suoi occhi azzurri sulla foto della moglie ed inizia a sussurrare una sua preghiera rivolgendosi lentamente alla platea di santi e madonne, dove indugia con le sue parole sbiascicate ad augurare il bene per tutti quanti: i figli, nipoti, parenti e poi un po’ anche per Lui. Un segno della croce accennato e due dita che si alzano verso le labbra, prendono un bacio e lo portano a sua moglie e poi alla madonna.
Un passo di lato per arrivare meglio alle scatole ed al bicchiere, che va bene raccomandarsi ai santi, ma le medicine lo attendono e non se ne dimentica mai, appiglio concreto per restare in una vita che sia anche degna di essere chiamata così. Apre, scarta, inghiotte quelle della mattina.
Si concede poi un momento per rivolgere lo sguardo a quello specchio davanti a lui, sino a quel momento del tutto ignorato. Non lo fa quasi mai, da tanto tempo quello che vede riflesso non riesce a dargli nessun grado di importanza. L’aspetto alla sua età prende significati diversi, è più un rassicurarsi sul colorito pieno, la lingua pulita, gli occhi non troppo spenti.
Oggi è diverso. Oltre i segni di buona salute si concentra anche sul resto. Che i pochi capelli bianchi rimasti siano in ordine, ben pettinati e tagliati. La barba appena fatta dal figlio, che la sua mano non ha più la fermezza necessaria per maneggiare quel rasoio tagliente. Baffi impeccabili, modellati in maniera perfetta a contornare le labbra superiori, regolati millimetro dopo millimetro con la pazienza e l’arte del barbiere fatto venire apposta un giorno fa. Sopracciglia bianchi e folti, anch’essi regolati dalla forbice del professionista, incasellati dietro il suo paio di occhiali con montatura fina in metallo lucidato giallo e due lenti non troppo spesse giusto per mettere a fuoco le cose più vicine. Lui ci ha sempre visto bene.
Non stanno mai dritti, sempre un po’ a pendere verso destra e Lui odia quella pendenza che sembra significare disordine, arrendevolezza, non controllo di sé. Con una mano ed un gesto appena stizzito li prende e li raddrizza sopra il naso. Ora va meglio, è tutto in ordine.
Esita ancora su quell’immagine, ma senza cercare cose fuori posto. Esita su quel contorno di pelle, muscoli ed ossa che sono arrivati sino a lì, a quel giorno buono per essere felici e festeggiare in modo speciale, perché questo momento è dedicato solo a pochissimi: Lui lo sa, lo rispetta e vuole prenderselo tutto, al limite delle forze se necessario.
I suoi occhi non desistono, sono fermi su quello specchio e si inumidiscono un po’, il perché di preciso non lo sa neanche lui ora, ma gli succede spesso, tutte le volte che i pensieri o le parole toccano spigoli vivi o spiaggiano su emozioni, grandi o piccole che siano.
Oggi è il giorno di tutto quanto, di cento domande, cento speranze e cento perché, con addosso la strana sensazione di sorpresa per esserci arrivato, pian piano, in quel momento, fisso sullo specchio, zampilli di memoria assopita iniziano a farsi strada, memorie di cose antiche, dettagli insignificanti e fatti giganteschi che hanno delineato la direzione della sua vita. Tutto insieme, da spaventare.
Dunque la leggenda che al momento del passaggio verso la morte tutta la vita scorre davanti agli occhi come un film è solo in parte vera.
Lui oggi vede la sua vita iniziargli a scorrere davanti, tra lui, i suoi occhi e quello specchio. E non sta per morire. Lui oggi ha vita da prestare e da vendere.
Lui si chiama Amedeo ed oggi inizia il suo anno numero cento.
2
11 Aprile 1917
C’erano solo nuvole in cielo quel giorno ed erano immobili, ferme da giorni. Le loro pance rigonfie non si sapeva bene di che cosa dovessero esplodere e svuotarsi da un momento all’altro. Cupe, dense, lisce, assestavano colpi di staticità che si espandevano sulle colline e su tutto quell’orizzonte ondeggiante di verde giovane e marrone di terra appena smossa. Sembrava che nulla si muovesse. Qualsiasi movimento di aria risultava assente. Nessuna traiettoria esplorabile per quei nuovi raggi di sole di un esordio primaverile che si presentava diverso, strano. Era così da diversi giorni e tutti si interrogavano sul perché di quella scena. Fogliame e fioriture, insetti ed animali richiamati dal risveglio della nuova stagione che bussava, terra assetata, uomini e donne timorosi con lo sguardo rivolto verso l’alto, su quella coltre grigiastra in attesa e pronti per eventi nefasti.
E sotto quella cappa pesante e tetra giaceva la terra rigonfia ed ondeggiante di colline morbide che si rincorrevano tra una valle e l’altra, puntellate e sporcate da casali e cascine storte di contadini e contadine, piccoli attori di quell’ordine naturale.
E poi il fiume, accompagnato dalla venatura di fossi e fossacci che gli correvano a fianco, scavava e trasportava via il fondovalle, lasciando però dietro di sé linfa di vita e quel po’ di acqua che quegli uomini e donne tentavano di portare a loro, a mezzo di deviazioni geometriche verso i campi da coltivare.
A fianco, su entrambi i lati di quell’acqua liscia e quasi sempre quieta, a poche centinaia di metri di distanza iniziavano le morbide salite, intervallate da pianori limitati, per poi continuare a curvare verso l’alto per ancora qualche decina di metri e fermarsi, in linea irregolare, perdendosi infine sulle creste che partivano in un susseguirsi senza una fine certa e visibile, fino alla prossima e non distante valle, per un ripetersi quasi medesimo della costruzione ordinata di una terra antica, natura lentissima, ma inesorabile. I punti di colore usavano alternarsi con maestosa preponderanza di un verde dai toni decisi, ritmico, sporcato in parte dalla mano dell’uomo nella fatica di strappare metri all’incedere ondeggiante e selvaggio di quella stessa natura che appassisce e rinasce, cambia colore, e si ripete in cicli fuori portata degli umani.
L’osservazione di tale scenario, da qualsiasi punto lo si osservasse non cambiava per un tempo ed una distanza superiore a quella degli occhi e della mente. Si rivolgeva lo sguardo a nord, poi a sud e poi dove si voleva, ma il profilo grasso e ripetente una sequenza meravigliosa di movimento non volveva mai nel raggio di decine di chilometri verso forme estranee o stonate.
Ma a guardar bene differenze si potevano pur scorgere se si volgeva lo sguardo ancora più in là. Occorreva allontanarsi non poco per scorgere a sud-ovest gli appennini spigolosi che correvano verso il mezzogiorno e scomparivano a distanza dietro le colline più alte. Essi sembravano ergersi dal nulla, oltre l’illusoria voragine che pareva estendersi dietro l’ultima fila collinare visibile. La loro effimera vicinanza traeva nell’inganno di poterle quasi toccare quelle cime, ma l’illusione era alimentata dalla loro straordinaria grandezza. Erano lontane loro, anzi lontanissime, inarrivabili e spesso indisponibili anche agli occhi, nascoste dietro coltri di nebbie, foschie, nuvole basse o temporali e nevicate. Nello stesso esatto modo in cui lo erano in quel giorno di aprile del 1917.
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