Nalin è una sopravvissuta e la sua storia si potrebbe dividere in tre parti, come uno spartiacque. Tre vite, che la vedono prima ragazzina determinata e sognatrice in fuga dal suo villaggio in Turchia per sposarsi; poi donna sconvolta e incredula fatta a pezzi, nel corpo e nello spirito, da un marito possessivo al limite della follia; infine la Nalin forte e orgogliosa che dopo venticinque anni trova sul fondo del baratro e negli occhi dei suoi figli il coraggio di scappare, di farsi aiutare a costruire la propria terza vita, e di raccontarlo agli autori di questo libro.
PRESENTAZIONE
Questo libro ha per titolo un numero, il numero tre. Per molte culture il numero tre è il numero perfetto, perché sintetizza gli elementi della vita: cielo, terra e uomo per le civiltà d’Oriente, le triadi divine condivise da molte religioni, le tre dimensioni degli oggetti per alcuni filosofi ellenistici. E il tre è anche il numero che la protagonista di questo libro utilizza per descrivere la sua vita, una vita divisa in tre parti. Il nome di questa donna è Nalin, una donna curda che ha vissuto una parte della sua terza vita in una casa rifugio che ospita donne in fuga da situazioni di violenza perpetrata dai loro compagni.
Gli autori di questa storia non sono scrittori esperti ma educatori in una Onlus di cui la casa rifugio che ha ospitato Nalin fa parte. Il tempo scorre veloce, ma le storie che incontriamo ci restano dentro, talvolta anche le relazioni che instauriamo con i nostri ospiti durano nel tempo ed è così che Nalin un giorno, distrattamente, ci ha detto «Ho una storia da raccontare, una storia molto triste che sembra fatta di tre vite. In quella in mezzo, quando ero poco più che una ragazza, ho creduto di aver trovato l’amore della mia vita, e invece ho trovato pugni, calci e denti rotti dall’uomo che ho sposato. Ho vissuto in questa condizione per venticinque anni e finalmente, dopo un tempo che mi è parso infinito, ne sono uscita, per me e per i miei tre figli, e ho ricominciato a esistere». E il suo desiderio di raccontarsi, come in una catarsi curativa, è diventato anche il nostro desiderio di dare finalmente voce a una delle tante storie crudeli, ma piene di speranza e riscatto, che incontriamo quotidianamente nel nostro percorso professionale.
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Abbiamo così iniziato un lavoro che è durato oltre tre anni, con decine di ore di interviste a Nalin, che non smetteva di parlare, alternando sul suo volto e nel tono della voce la dolcezza degli anni dell’infanzia con l’orrore degli anni di matrimonio, le corse al pronto soccorso, le urla dei figli, la porta chiusa a chiave dal marito per non farla uscire nel “mondo degli altri”.
Questo libro ha, per Nalin e per noi, più di un obiettivo: in primo luogo quello di dare voce a una donna che attraverso un racconto autobiografico vuole dare dignità alla propria storia e all’arduo tentativo di fuggire dal maltrattamento. In questo racconto vi è spazio per la speranza, nonostante Nalin sia riuscita ad allontanarsi dal suo ex marito solo dopo molti anni.
Ma vi è anche in lei il bisogno di raccontare la sua vita prima del matrimonio, forse alla ricerca di ricordi capaci di dare rilevanza a una fase di serenità, armonia, normalità, il bisogno di dedicare tempo alla sua vita presente forse per ribadire, prima di tutto a se stessa, di essere stata capace di non soccombere.
Questa fase – la terza vita di Nalin – ci permette di mettere a fuoco l’importanza dei tutori di resilienza, quelle figure capaci di accompagnare individui o gruppi che hanno vissuto un trauma, sostenendoli nell’impresa di ritrovare risorse che sembrano smarrite. Nel caso di Nalin queste figure sono rappresentate dai figli e dalle figure educative che l’hanno accompagnata all’interno di una casa rifugio per donne maltrattate.
L’incontro con questa realtà di accoglienza ha permesso a Nalin un lento ma progressivo recupero della propria immagine di sé, che l’esperienza del maltrattamento aveva deformato. Attraverso la forma narrativa dell’autobiografia, Nalin ha ritrovato le motivazioni, sbiadite nella memoria, che prima non le avevano permesso di fuggire. Come donna straniera aveva il terrore di essere fraintesa, di perdere i suoi figli, aveva più paura di quel che sarebbe potuto accadere rispetto a quello che subiva. E ora la sua voce grida forte che si può e si deve uscire dalla violenza.
Le cronache raccontano quotidianamente di drammi simili. In questo caso le richieste di aiuto di Nalin, quando espresse, sono state ascoltate e il dispositivo messo a punto dalle autorità ha protetto la sua vita e quella dei suoi figli.
La storia di Nalin la proietta, con orgoglio e desiderio di riscatto, nella costruzione di una nuova realtà in cui poter recuperare pienamente la propria dignità perduta. Ora desidera anche aiutare altre donne attraverso la sua esperienza.
Questo libro parla anche di noi, educatori che condividiamo pezzetti di vita, che coltiviamo la speranza, che attraverso le parole e l’accompagnamento quotidiano cerchiamo di risanare quei pezzetti di vita “obliqui”. Crediamo che aver dato a Nalin l’occasione di raccontarsi dall’infanzia le abbia offerto uno spazio di cura e la possibilità di riscoprirsi più forte nell’amore dei suoi cari.
Questo libro parla anche a noi. Il noi costituito da coloro che non hanno mai vissuto un’esperienza estrema come quella di Nalin. E rappresenta un invito stringente a ripensare le relazioni tra uomini e donne, alle modalità con cui intrecciamo le nostre storie affettive, a ciò che le caratterizza in termini di diversità di genere e rispetto reciproco. Forse questo fine non è mai dato una volta per tutte. Forse ci sono ancora molti passi da fare nella direzione di una parità effettiva. Forse la storia di Nalin ci dona il suo piccolo, grande, contributo.
Alberto Panciroli, Lorena Spohr
PROLOGO
I primi passi oltre l’uscio dell’ingresso mi parvero leggeri, o così sembrava al mio orecchio allenato, anche se, da qualche tempo, non ero più sicura di nulla. Le mie orecchie ronzavano e soffiavano a intervalli, in un alterato rumore bianco che come una sorta di fastidiosa ovatta si era interposto tra me e i suoni del mondo e mi rendeva insicura nel decifrare quei passi e il loro significato.
Così, quei primi passi, accompagnati dal tonfo della porta che si chiudeva, sembravano dire che non c’era nulla da temere. Invece poi accelerarono e la vibrazione che produssero, simile a un cuore in affanno, rivelò, senza mezzi termini, che mi sbagliavo. Sapevo cosa stava per succedere, era già accaduto un numero infinito di volte. Dovevo prepararmi a incassare, per la millesima volta? No, molte di più.
La porta si spalancò con forza. La maniglia sbatté contro il muro, accentuando il solco già inciso nella parete e facendo cadere a terra un po’ di polvere dell’intonaco. La guardai depositarsi a terra imbiancando delicatamente il pavimento e mi sorpresi nel vedermi già nell’atto di pulirla.
Lui fece un passo avanti, riempiendo tutto lo spazio della porta, il viso bianco e contratto, le mani che tremavano un poco, la giacca di seconda mano, nera, che faceva risaltare ancor più quegli zigomi spigolosi che diversi anni prima avevo accarezzato come se mi fosse toccata in dote una benedizione immeritata. Un viso, quello di mio marito, che avevo sempre trovato bello. Ma in quella circostanza i suoi zigomi formavano ombre scure sotto gli occhi, e mi ricordavano solo il dolore delle ossa quando vengono colpite più volte sempre nello stesso punto.
Aspettai, scossa da un tremito che andava crescendo, ma non ci fu nessun pugno, come mi aspettavo. Arrivò, invece, uno schiaffo feroce e secco all’orecchio destro. Barcollai, ma non caddi, così ne arrivò un secondo, più forte, come se il primo fosse stato solo una prova per quello successivo. Questa volta caddi a terra, con un ronzio così forte nell’orecchio destro che pensai a uno sciame di calabroni, come quelli che a volte mi pungevano da bambina.
Mi portai una mano alla testa e vidi del sangue. Stranamente, anche l’altro orecchio si azzittì. Non sentii più nulla, ma con la coda dell’occhio vidi partire il calcio che mi colpì alle costole. Una volta, due volte, tre volte. La vista si appannò. Ne sentii ancora uno, seguito dalle vibrazioni trasmesse dal pavimento che indicavano che lui si stava allontanando. La porta sbatté. Stavo tremando, e i fremiti fecero accelerare le gocce che avevo sul volto, che caddero sul vestito a fiori. Un vestito che mi ero comprata un paio d’anni prima, un regalo dopo tre anni senza mai un vestito nuovo. Le guardai scendere, come non mi riguardassero. Caddero in un modo strano, dense e lente, e si dilatarono sul tessuto leggero. Alcune trasparenti, altre rosse.
rossinalberto (proprietario verificato)
Letto d’un fiato, in bilico tra la rabbia e l’orrore per tanta violenza e la voglia di riscossa. Quasi a voler partecipare, sostenere, proteggere. Nalin vuole che la sua storia sia per tutti e che arrivi a tutti. Per me così è stato. Leggete e condividete, per Lei, per tutte le Nalin, per le possibili future Nalin, ahimè. Bel lavoro, bello scritto. Complimenti!!!
Marzia Barreca (proprietario verificato)
Ho avuto la fortuna di leggere soltanto alcune pagine di questo libro straordinario. Il tema affrontato con con delicatezza ma con decisione permette al lettore di immergersi completamente nei contenuti in modo scorrevole, appasionandolo dalle primissime pagine.
E’ …..secondo il mio parere , un romanzo che diventa un vero scrigno di emozioni . Scritto da persone che prima di essere “scrittori “sono anime vicine ad esseri indifesi ed impegnate ogni giorno a dare voce alle stesse.Consiglio assolutamente la lettura.
Marzia