Era entrato in politica per amore e per amore ora si sposava. Il padre di Giovanna non accettò di buon grado quella decisione. Avrebbe preferito un uomo di un ceto più vicino al loro, ma tanto era l’amore per la figlia che l’aiutò nei preparativi senza ostacolarla in niente, anzi si diede un gran da fare, più di quanto fece la madre di Giovanna, Clara. Claretta, come la chiamava suo marito. Lo faceva con un certo orgoglio. Gli piaceva far riecheggiare quel nome per le stanze della loro grande casa. Amava molto il nome di sua moglie, forse più di quanto amasse lei. Sicuramente l’aveva amata, perché fu sua moglie a salvargli la vita nella Roma occupata dai tedeschi. Lui era un ragazzo quasi ventenne, lei poco più giovane, una bambina a voler ben vedere. Di quelle che a sedici anni, per lineamenti e portamento ne dimostrano ancora tredici o quattordici. Era il 16 Ottobre del 1943 quando le truppe tedesche fecero irruzione del ghetto di Roma. I soldati andavano casa per casa, stanando come topi intere famiglie nascoste in ogni anfratto dei loro appartamenti.
Il padre di Giovanna e il resto della sua famiglia vennero messi in fila lungo il marciapiede. Si era formata in poco tempo una fila lunghissima di persone, immobili come statue, sotto una pioggia fine e incessante. Nell’attesa tutti guardavano tutti senza proferire parola. Ognuno guardava negli occhi la persona che gli stava a fianco o magari quella di fronte, dall’altra parte del marciapiede. Si guardavano tutti. Sembrava che tutti trattenessero il respiro. Anche i bambini non aprivano bocca. Se ne stavano fermi, composti, come davanti al banco il primo giorno di scuola. Il padre di Giovanna aveva da una parte la madre, dall’altra la sorellina. Di fronte, alzando lo sguardo si accorse che oltre la fila che gli si parava davanti, all’interno della vetrina di un negozio di stoffe, c’era una ragazzina che lo fissava. Lì per lì pensò che quell’immagine era frutto della sua fantasia, che non c’era nessuno in quel negozio, che era impossibile che nessuno tranne lui vedesse quell’essere che per colore di capelli e incarnato del viso pareva non provenire da questo mondo. La ragazzina faceva cenno con la mano, come se lo stesse chiamando, come a dire “vieni da me”. Con la mano lo invitava a entrare nel negozio. Ma come avrebbe potuto raggiungerla con i soldati che pattugliavano la strada? Come poteva uscire dalla fila, attraversare la strada, aprire la porta del negozio di stoffe e andare incontro a quella bambina che con così tanta insistenza continuava a guardarlo e fare cenno con la mano?
I soldati continuavano ad aggiungere persone alla fila, che ormai aveva superato il loro isolato e continuava a perdita d’occhio lungo i palazzoni del ghetto. Improvvisamente decise di fare quello che nessun altro avrebbe osato fare in quel momento, ma prima di farlo voltò il suo sguardo verso destra per incontrare gli occhi di sua madre, poi alla sua sinistra per posare l’ultimo sguardo sulla sua piccola e amata sorellina. Dopo aver salutato in silenzio le persone amate uscì dalla fila con passo deciso e si incamminò verso il negozio di stoffe, certo che i soldati lo avrebbero ucciso. Attraversò la strada e poi superando la fila di persone che aveva davanti, si trovò di fronte alla vetrina del negozio di stoffe. Tutto questo senza che un solo soldato si accorgesse di quel che stava accadendo, come se fosse diventato, chissà per quale strano motivo, invisibile agli occhi di tutti. Aprì con decisione la porta del negozio, che fece suonare il classico campanello poco sopra l’uscio, ma anche quel suono non venne avvertito da nessuno. Passò l’ingresso ed entrò nel negozio.
Si trovò a pochi passi dalla giovane ragazza che continuava a fargli cenno con la mano. “Seguimi” pareva dirgli, poi si voltò e si diresse nel retrobottega, aprì una piccola porta e scese una rampa di scale ripida e buia. Lui la seguì senza voltarsi indietro. Si trovarono in uno scantinato illuminato dalla poca luce che proveniva da una piccola fessura che dava sulla strada. Si accucciarono entrambi senza dire una parola e lì rimasero per due giorni interi. Quando tornarono su dallo scantinato, la vita sembrava essere tornata a qualcosa di molto simile alla normalità. Simile ma non più quella che prima si poteva considerare una, seppur drammatica, vita normale. Qualcosa era irrimediabilmente cambiato. Lui guardò ancora una volta quella creatura e solo allora gli sgorgò dal cuore una domanda. “Perché?”, le chiese, “Perché mi hai chiamato? Perché mi hai fatto cenno di raggiungerti?”. La ragazzina lo guardò quasi con meraviglia. “Non ti stavo chiamando. Non ti stavo facendo nessun cenno. Stavo solo salutando mia madre che era dietro di te. Tu non potevi vederla perché nessuno di voi osava girare la testa per vedere cosa stava accadendo alle vostre spalle. Era proprio dietro di te, sotto la pioggia incessante. Mi guardava e sorrideva. Non capivo se il viso era bagnato solo dalla pioggia o erano lacrime quelle che rigavano le sue guance. Due soldati l’hanno portata via proprio mentre tu stavi attraversando la strada per raggiungermi. Mi sono stupita nel vederti scendere dal marciapiede e venire verso di me. Io stavo solo salutando per l’ultima volta mia madre. Quando ti ho visto entrare nel negozio ho capito che dovevamo nasconderci. Adesso corri a casa, vai ad assicurarti che i tuoi cari stiano bene. Magari sei più fortunato di me.” “Come ti chiami?”, domandò lui. “Clara – rispose lei – il mio nome è Clara. Adesso vai”. Il padre di Giovanna prese Clara tra le braccia e la strinse a se. Le baciò la fronte e uscì da quel negozio con lo stesso passo di quando era entrato. Arrivò a casa in pochi minuti ma non trovò nessuno ad attenderlo. Capì di essere rimasto solo, senza più una famiglia, come sola era rimasta quella ragazzina che con tutta probabilità lo aveva salvato dalla deportazione. Erano rimasti soli. Fu in quel momento che ebbe la certezza che lei sarebbe diventata la sua famiglia. Come non amare la persona che ti ha salvato la vita? Come non odiare la persona che non ti ha permesso di condividere lo stesso destino di tua madre e di tua sorella, abbandonate sul quel marciapiede per inseguire un cenno di mano?
Un giorno qualsiasi
Un giorno, poco prima del matrimonio, Federico decise di tornare in quella distesa di terra e miseria dove Giovanna lo aveva lasciato al primo loro incontro. Voleva rivedere quel luogo, per ricordare, o solo con il desiderio di incontrare ancora quell’uomo, quello che tirava calci a un pallone e pensava alle persone. Ritornò che il cielo pareva non avere più colore. Frenò bruscamente con la macchina e alzò un polverone da non vedere più niente. Scese e venne investito da una nuvola di polvere e sporcizia. Iniziò a correre e a tirare calci all’aria. Passò molto tempo senza far niente, senza neanche pensare, poi risalì in macchina ma non volle ancora ripartire. Volle aspettare ancora un po’, con la speranza di rivedere quel tipo, che ricordava brutto ma affascinante. Si addormentò e lo sognò. L’uomo stava fumando una sigaretta in attesa di qualcuno. Aveva un completo stropicciato di un colore indefinibile simile al verde petrolio. Sotto la giacca risaltava la camicia bianca aperta fino al petto. Le scarpe consumate ma di ottima fattura. L’uomo fumava e aspettava. Gli occhi coperti da occhiali da sole con la montatura in osso di tartaruga. Lenti quadrate un po’ smussate sugli angoli. I capelli imbrillantinati, perfettamente scompigliati, con un ciuffo che andava a coprire una parte del viso. Fumava e aspettava. A pochi passi da lui un jukebox, un tavolino tondo da bar, un tabellone di latta dei gelati Eldorado, un telefono a gettoni ma tutto questo nel buio più assoluto, come se tutti quegli elementi galleggiassero in un niente indefinito. Nero al posto del cielo, nero tutto intorno alle cose. Nero e sabbia sotto i piedi, una distesa infinita di sabbia. Adesso c’era anche lui nel sogno. Si vedeva seduto al tavolino del bar, su una di quelle sedie da bar in metallo cromato e formica colorata. L’uomo era poco distante da lui ma pur guardando nella sua direzione pareva non accorgersi della sua presenza. Allungando la mano avrebbe potuto toccarlo eppure sembrava vivessero in due momenti diversi. L’uomo si diresse verso il jukebox e mise una moneta da cento lire nella fessura, poi digitò i tasti per selezionare una canzone. Dopo pochi istanti un disco iniziò a girare sotto la puntina. “Tornerò” dei Santo California. L’uomo si mise a cantare quella canzone con una voce un po’ stridula, decisamente stonata. Eppure la cantava a gran voce. Cantava e ballava. Fumava, cantava e ballava. Girava intorno al tavolino del bar continuando a ignorare il ragazzo. Finita la canzone l’uomo si fermò proprio davanti al tavolino di fronte a lui.
“Guarda che ti ho visto. Mi ricordo di te. Ci siamo già incontrati noi. Io ho una memoria di ferro. Mi ricordo come fosse ieri le tue labbra. Si, io mi ricordo la bocca di tutte le persone che incontro. Mi colpiscono le labbra di chi incontro. Io catalogo le persone dentro di me a seconda delle labbra che hanno. Quelle sottili, quelle carnose. Le labbra rosse, quelle fatte come petali di rosa. Quelle a cuore. Le labbra screpolate, quelle sempre umide. Non hai idea di quanti tipi di labbra esistono al mondo. Quante bocche. Io quello guardo in una persona. Dalle labbra che una persona ha io capisco quali parole le usciranno di bocca. Posso dirti chi avrà parole di lode, d’amore, di rammarico. Posso capire dalle labbra se una persona parlerà con sincerità o dirà menzogne. Io le labbra le bacerei tutte. Poserei le mie labbra su tutte le bocche. Un po’ come farei adesso con la tua. Perché so che i baci son molto più di uno scambio d’affetto o un moto di desiderio. A me piace sentire il rumore dei baci. Io in quel rumore ci sento la disperazione e la passione. Ci sento l’amore e il pentimento. Nel rumore dei baci io sento i sentimenti di ognuno. Nessuno più di me sente ciò che i baci dicono. Il bacio di una madre, di un amante. Quello di un amico. Il bacio di uno sconosciuto, quello di un fratello, di un figlio. Vuoi sentire il rumore che fanno le mie labbra? Vuoi sentire che rumore fa un mio bacio? Vieni, baciami, o lascia che io ti baci. Con tutta probabilità questo sarà il mio ultimo bacio. Vuoi essere custode del mio ultimo bacio? Lascia che ti baci prima che la morte si posi sulla mia bocca. Ragazzo mio, vieni a prenderti quanto ho di più prezioso e caro. Corri, non far passare altro tempo. Alzati da quella sedia, scavalca questo tavolino da bar d’altri tempi e vieni a prendere ciò che ti è dovuto. Ciò che è dovuto alla tua bellezza, alla tua ingenuità, al tuo coraggio, alla tua inadeguatezza. Muoviti. Non lasciare che mi rimanga in bocca questo bacio. Stanno per arrivare. Stanno per venire a prendermi. Stanno per bastonarmi. Stanno per riempirmi di calci e piscio. Li senti? Sono qui a pochi passi da noi. Senti il rumore dei loro passi sulla sabbia? La senti la risacca del mare? Senti la canzone uscire dal jukebox? Se senti tutto quello che sento io allora puoi provare tutto quello che io provo. E adesso io non provo che amore. Per te. Per chi sta arrivando ad uccidermi. Amore e rabbia. Rabbia e compassione. Comprensione e disprezzo. Quante cose sento così all’improvviso. Forse è perché sento così prossima la mia fine. Allora amico mio, mio sconosciuto amante, vieni a prenderti ciò che adesso è tuo. Tutto ciò che ho sulle labbra. Tutto ciò che mi batte in cuore. Te lo ripeto un’ultima volta perché non avrò più il tempo di dirtelo ancora: baciami! Lascia che io ti baci e poi potrai non pensarmi più. Potrai non nominare mai più il mio nome. Il mio bel nome. Eccoli, sono qui. Sono arrivati. Non si è mai pronti per morire ma è la fine che farò io tra pochi istanti. Allora ti chiedo, finiscimi prima tu con un bacio e mi sarà più dolce la fine, qualunque essa sia.”
A quelle parole tutto ciò che nel buio era apparso, il tavolino del bar, le sedie, il telefono a gettoni, il tabellone di latta dei gelati Eldorado, il jukebox, tutto nel buio scomparve. Ogni cosa svanì come ingoiata da quel nero. Solo la sabbia gli rimase sotto i piedi e nella sabbia lui iniziò prima a camminare, poi, con passo sempre più deciso, a correre. Sabbia e mare. Sembrava stesse correndo sul bagnasciuga di qualche stabilimento balneare. Sempre più ansimante, annaspando in quel buio cieco, inciampò in quello che credeva essere un tronco portato a riva dalla corrente, ma gli ci volle poco per accorgersi che quello che credeva un tronco era il corpo dell’uomo che poco prima fumava e aspettava. Adesso era disteso quasi coperto dalla sabbia. il volto tumefatto, gli occhiali rotti ancora sul viso. Federico a carponi si avvicinò di più a quell’uomo che adesso era solo carne morta. Nel buio intravedeva il vestito verde petrolio. Si avvicinò tanto da vederlo bene anche in tutto quel buio. Vide il torace schiacciato, le gambe rotte. Vide il sangue sgorgare da una ferita poco sotto la tempia, ma tutto quello che vide non gli impedì di trovare la forza e il coraggio di andargli ancora più appresso, tanto da poterlo quasi abbracciare. Da in ginocchio che era, lo tirò su a fatica. Lo avvicinò a sè, gli mise le braccia intorno alle spalle e lo tirò su quanto basta perché il viso dell’uomo fosse a pochi centimetri dal suo. La luce nera del buio rese ancora più livido quel paesaggio fatto di sabbia e niente. Lui non era mai stato così vicino a un altro uomo. Tanto vicino da vedere in quel buio nero il rosso delle labbra di quel cadavere. Le sue labbra erano sottili eppure così belle. Quella bocca ancora piena di parole da dire. Lui posò la sua bocca sulle labbra di quell’uomo. Erano ancora calde. Gli sembrava di sentire il sangue ancora scorrergli dentro. Mise la sua bocca su quella bocca in forma di bacio e così rimase per lungo tempo, o così gli parve nel sogno, perché nei sogni un lungo tempo può consumarsi nel giro di pochi istanti. Infatti di lì a poco si svegliò senza ricordarsi minimamente del sogno fatto. Riaprì gli occhi su quel panorama di casoni, polvere e sterpaglia, poi mise in moto la macchina e se ne andò, certo che non vi avrebbe mai più fatto ritorno.
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