Le bastava leggere un paio di lettere al giorno, che si scioglievano in quelle che avrebbe detto fossero parole d’amore, per non arrivare subito alla fine. Le pareva di assistere allo svolgersi di un romanzo. I nomi si rincorrevano, storie comiche che sfociavano nel tragico, e viceversa, s’affacciavano all’immaginazione di Ludovica. Ai racconti tanto vividi del passato le sue orecchie non erano abituate.
Il lunedì mattina successivo al giorno in cui Amedeo l’aveva lasciata da sola nello stanzino davanti alla scatola aperta si era precipitata da lui, con la speranza che le spiegasse il senso di quello che aveva letto nel weekend.
Due giorni prima, distesa sul divano dopo il lavoro, mentre con un occhio guardava un film e con un altro dava una scorsa alle carte, non ne aveva capito il senso. Vi aveva trovato cartoline simili a quella che, in biblioteca, nel deposito, era uscita dal mucchio di pagine ed era precipitata sul pavimento. Ognuna era redatta da una penna diversa. C’erano biglietti amorosi di poche parole, per lo più misteriose e seducenti, e questo l’aveva spinta ad immaginare che l’autore potesse trovarsi vicino al destinatario e magari non potesse parlare chiaro. Vi erano una miriade di ragioni per scrivere, su qualunque supporto e di qualunque argomento, e altrettante parole per esprimere i propri sentimenti. Cosa ci dovesse fare lei con quelli di persone sconosciute, non lo aveva proprio capito. Per questo, non vi aveva più prestato attenzione nei due giorni seguenti, preferendo andare a zonzo con Didi, riposare, e finalmente parlare al telefono con Caterina. I preparativi del matrimonio procedevano, con troppa lentezza secondo lei, che avrebbe voluto almeno una decina di giorni di anticipo su tutto, per poter arrivare con calma e tranquillità al giorno fatidico.
«Lo sai come sono, Ludo. Non ho un minuto di tempo perché spero di poter riuscire ad ultimare tutto in questi giorni».
In tutti quegli anni di amicizia, ogni volta che si telefonavano, Ludovica era soggetta all’ascolto di suoni poco chiari provenienti dall’altro capo. Un continuo ansimare quando Caterina teneva il microfono accostato all’orecchio; un discorso lontano che le arrivava disturbato e sconnesso quando erano in vivavoce; stridore di oggetti che si rompevano al suolo o contro i quali la sua interlocutrice urtava. La frenesia, di cui la sua amica soffriva, le faceva subire telefonate logoranti. Quando metteva giù, una certa stanchezza si impossessava di lei, come se avesse partecipato ad ogni gesto affrettato e convulso dell’amica.
«Che stai facendo in questo momento?».
Caterina respirò affannata contro il microfono. Uno sbuffo giunse alle orecchie di Ludovica.
«Sto prendendo il raccoglitore. Ha tutte le informazioni su ogni particolare del matrimonio e anche sui posti. Ecco, ora sto cercando di capire dove mettervi tutti quanti».
«Okay, respira».
Uno sbuffo.
«Non ti sposare mai, Ludo». Si schiarì la voce. «Comunque, hai una persona da poter portare, sappilo».
«Mmh, mi stai chiedendo di scegliere tra Silvia e Francesca, lo sai?».
«Una delle due capirà. Hai dieci secondi per raccontarmi come vanno le cose da te, poi devo scappare».
«Regolari. Qui è tutto calmo, non succede nulla. È quello che volevo d’altronde, no?».
«Non lo so. Lo chiedi a me? Lo sai come la penso. Se scopro che ancora ci pensi te la faccio pagare. Ora vado, ti voglio bene».
«Anch’io, fatti sentire».
Sì che lo sapeva cosa ne pensava Caterina. Credeva che si fosse affrettata verso una pittoresca illusione di serenità ricorrendo al cliché dell’esilio volontario. Conosceva anche la sua opinione su Sonia e su quanto era accaduto, e Ludovica le era grata per la protezione e la comprensione che le aveva offerto in quei mesi.
Tuttavia, non era informata dell’importanza del luogo in cui si era ritirata. Incline a dirle qualunque cosa pur di alleggerire l’animo all’amica, Caterina avrebbe anche potuto minimizzare l’importanza del casolare o distoglierla dall’intento di creare un proprio legame con il passato, con sua nonna. Non avrebbe capito quanto le stesse a cuore cercarne le tracce o, almeno, immaginare il filo invisibile che dall’ava conduceva alla nipote. Ludovica non aveva altri rifugi dove poter stare con sé stessa e l’assenza dal casolare le era rimasta incollata addosso come uno dei più grandi errori che avesse commesso. Allontanarsi dal paese che l’aveva vista crescere, rinunciare alle radici ed ignorarne il richiamo aveva il sapore amaro della crescita, del percorso verso l’adultità che, come le avevano insegnato a casa, comporta la rinuncia alle ingenuità fanciullesche e alle romanticherie dei luoghi d’infanzia.
Aveva dieci secondi per dirle tutto questo, perciò tanto valeva non dire niente, tenere tutto per sé e trascorrere un’altra serata sul portico davanti al cielo sereno.
Quando, di ritorno dal pomeriggio sulla collina con Didi, aveva salito le scale fino al piano superiore, lo sguardo si era posato sullo specchio che sormontava la cassettiera lucida su cui aveva lasciato la scatola. Guardava sé stessa e insieme anche la scatola. Le tornarono in mente le parole di Amedeo e se la prese per essersi lasciata solo una sera prima di tornare in biblioteca, presentarsi al cospetto del suo capo e capirsi, come le aveva detto che sarebbe accaduto. Aggrottò le sopracciglia in segno di sfida. Intendeva recuperare i giorni perduti. Era sola e sola aveva trascorso il weekend; nemmeno l’ombra del vicino, che non si era premurato di appurare se il suo mezzo in prestito fosse ancora integro. Non doveva tenerci più di tanto: motivo per il quale glielo aveva prestato. Riaprire la scatola era l’unica scelta di senso e così, a gambe incrociate sul letto, sotto lo sguardo curioso della cagnolina, estrasse quanto già aveva letto, lo ripose sul comodino e continuò a scavare. Lunghi sospiri accompagnavano lo scartabellare dei suoi occhi e del suo dito indice, che passava distratto sotto le frasi, ne seguiva l’incedere, ne constatava il disinteresse. Quel che più la infastidiva era proprio l’avverarsi della disillusione. Amedeo l’aveva considerata degna di quelle letture private, persino Gianna aveva acconsentito affinché portasse un pezzo della biblioteca a casa, e lei, oltre a non afferrarne la ragione, era anche annoiata dai pezzi di carta che venivano fuori, infiniti. Sul fondo, però, giaceva un gruppo di lettere legate da un nastro azzurro. Furono il colore turchino e la loro posizione ad attirare la sua attenzione. Rifletté in seguito che potevano essere state adagiate ad un angolo, isolate dalle altre con un fiocco, appositamente per lei. Chissà quale motivo si celava nelle volontà dei coniugi di renderla partecipe dei segreti di persone che conosceva a stento o non aveva mai sentito neanche nominare. Ma nessun ragionamento poteva avere logica, se ne convinse e decise di ammonticchiare da un lato il resto delle carte, per affondare la mano ed estrarre il gruppo turchino.
L’Aquila, 2 marzo 1962
Carissimo,
Non so da dove iniziare a ringraziarti. Io sto bene, e spero anche di te. Sono malinconica, mi manca casa ma non potevo fare altro. Vero? Spero che i miei cari genitori mi perdoneranno e mi cercheranno, prima o poi. Non posso scrivere tanto, sono stanca e ho sonno, ma non vedo l’ora di leggere le tue righe che sono più belle e intense delle mie.
Ti abbraccio e ti ringrazio ancora,
Lena.
Non poteva credere a quanto i suoi occhi le mostrassero. Sulle prime, colta da un’ondata di emozioni contrastanti, aveva avviato una lettura veloce mentre ripeteva ad alta voce soltanto alcune delle parole che la colpivano di più. Lo smarrimento dei primi minuti lasciò il posto ad una fuggevole frenesia, un’esigenza di conoscere e sapere che sembrava non avere requie. Si era decisa a non dormire, le avrebbe terminate tutte in una notte: Amedeo poteva stare certo che ne avrebbero parlato e che si sarebbero intesi.
Eppure, un sonno pesante, aggravato dal caldo afoso della giornata e da un’intensa settimana di lavoro, calò sulle sue palpebre lisce e giovani e le diede la spinta per farla distendere. Fu mattina l’istante successivo. Distesa su un fianco sopra il lenzuolo ricamato fiorito, il primo pensiero tornò al punto di partenza, al tarlo che l’aveva tenuta sveglia finché aveva potuto. La prima lettera di sua nonna ringraziava un carissimo, il cui nome Ludovica non aveva trovato vergato da nessuna parte, neanche in un angolo di un foglio. Anche nelle successive si parlava di favori e di riconoscenza, ma non si dilungavano granché. Guardò l’orologio e si buttò dal letto. Amedeo avrebbe dovuto attendere prima che lei riuscisse a capirci qualcosa.
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