La casa che era di sua nonna scricchiola sotto l’incuria e l’inclemente incedere del tempo, ma l’indolenza che da settimane perseguita Ludovica le impedisce di trovare le forze per sistemare, pulire, fare la spesa. Le sembra di non sapere più perché ha preso la decisione di trascorrere l’estate in paese. Eppure, era determinata: impedire alla famiglia di vendere la casa, crearsi ricordi di una nonna di cui non ha memoria diretta, capire cosa fare dopo la laurea.
Questo era il piano. Ora che si ritrova davvero da sola, però, le sembra al di sopra delle proprie possibilità. Saranno un fascio di lettere, un amore nuovo e due bibliotecari a indicarle la strada per un futuro tutto da inventare.
Capitolo uno
Una scatola di cartone, spoglia, alta e profonda, con quattro placchette scintillanti agli angoli per non sciuparli e per far calzare la copertura. Una scatola, dunque, giaceva muta e immobile in un ripostiglio, due dita di polvere sul coperchio. Si farebbe una gran fatica a muoverla. Una ancora più grande a sistemarne il contenuto. E una elefantiaca a resistere alla tentazione di non farlo.
Svegliati.
Svegliati, si disse.
Svegliati, si ripeté.
Aprì gli occhi un poco alla volta, per abituarli alla luce del mattino che entrava prepotente dalla finestra senza tende né avvolgibili, senza uno schermo tra la vita dentro e quella fuori. Orientata a est, la camera da letto riceveva, sin dal sorgere dell’aurora, gradazioni che sfumavano dal rosa acceso a uno più pallido, sino a una lenta progressione verso un caldo arancione. Quando giungeva quel momento in cui la natura si lascia risvegliare china ai dettami del sole, Ludovica, d’istinto, voltava le spalle a tanta vita, tenendola lontana con un secco movimento della spalla e del braccio. Ancora a occhi chiusi, afferrava a tentoni un lembo del lenzuolo dagli orli ricamati di un tenue azzurrino e se lo portava fin sulla fronte con un plateale movimento della cuffia dei rotatori. Come ogni mattina il sole sorgeva e, come ogni mattina da una settimana, in assenza di persiane, Ludovica ripeteva i medesimi meccanici gesti. Un lieve sorriso le incurvava le labbra.
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Non si era ancora data da fare abbastanza per rendere la casa vivibile. Aveva dato una ramazzata in giro e tolto gli enormi teli bianchi soltanto dal mobilio che sapeva avrebbe adoperato ogni giorno. Appena valicato l’ingresso, si era legata i capelli, aveva lasciato le valigie sulla soglia, sguinzagliato Didi e fatto un breve giro di perlustrazione, per controllare che tutto fosse come ricordava. Aveva svelato i mobili della cucina e quelli di una delle tre camere da letto, aveva scelto il bagno che avrebbe utilizzato – quello che si presentava meglio – e, salendo le scale che conducevano alla zona notte, aveva passato il dito indice lungo il corrimano, sul quale aveva creato un sentiero lambito da uno spesso strato di polvere.
Erano anni che nessuno metteva piede dentro quella casa, che sorgeva, gialla e simmetrica, perfettamente al centro di un campo di papaveri e spighe di grano, regina tra le altre abitazioni tutte intorno.
Sembrava che il casolare fosse al mondo dal momento della Creazione, tanta era l’armonia del paesaggio visto dal cancello d’ingresso, sul quale rimanevano tracce di una tinta verde bottiglia mangiata dalla nera ruggine. A destra, una cassetta postale penzolava storta, priva di una vite. Dalla cancellata fino al portone d’ingresso si stendevano per un breve tratto i ricordi di un sentiero acciottolato. Ciuffi di erba pazza avevano compiuto il loro lavoro di mesi e anni, insinuati nelle fessure tra i ciottoli bianchi e lisci e il terreno, fertile ed erboso: le suole delle sneakers di Ludovica pestavano un tappeto morbido e vivo di fili verdi, lunghi e dritti come lame di spade. Un’edera smeraldina, sana e forte, scendeva dai balconi del piano superiore per dondolare dolcemente verso il pianterreno, come se volesse allungarsi per toccare la facciata in pietra e il vigoroso portone ligneo.
Non serbava memoria delle uniche due estati della sua vita al casolare con sua nonna Lena, morta troppo presto per poter contribuire all’archivio dei ricordi della sua ultima nipotina. Dai racconti che sua madre le faceva di tanto in tanto, quando la coglievano rari momenti di confidenza e la sua voce si distendeva in toni melliflui che non le appartenevano per nulla, se la nonna si presentava al suo cospetto la piccolina si allargava in un sorriso ogni anno più dentato, le mani tese per passare da un braccio a un altro, da quello della madre a quello della nonna, dalla quale aveva ereditato la forma e il colore degli occhi, due mandorle castane e luminose. Poco altro sapeva di lei, e nulla le proveniva da ricordi spontanei e vividi, semplicemente perché erano inesistenti: ogni parola o aneddoto non erano che l’eredità di una figlia devota – sua madre – e di due nipoti – le sue sorelle – che le trasmettevano l’impressione di possedere un’addizione di valore dovuta alla conoscenza diretta del loro passato. A lei rimaneva un lieve retrogusto, un’eco lontana, mai una voce davvero chiara, un odore o il suono di una risata anche solo vagamente familiare. Ludovica era uditrice di storie nelle quali non aveva mai avuto voce.
Quando un giovedì di giugno arrivò al casolare, parcheggiò la macchina dove sua madre l’aveva sempre parcheggiata, sotto un maestoso e gentile salice piangente che offriva ombra e protezione. Scesa dalla vettura, sistemò gli occhiali da sole sul capo e si voltò per qualche secondo per guardarsi intorno, la mano destra poggiata sullo sportello del lato guidatore. Un profondo sospiro, un’ultima occhiata e procedette con il piano, che consisteva nello scaricare i bagagli, sciogliere la cagnolina, entrare e buttarsi sul primo letto a disposizione. Non aveva preso in considerazione l’ipotesi che avrebbe potuto trovarsi dinnanzi a una casa impolverata, chiusa in un odore stantio, né che sarebbe stata presa dalla voglia di curiosare in giro. Un piccolo sprazzo di volontà dopo settimane di fissità.
Non sapeva neanche più da quanto tempo andava chiedendosi se per lei vivere fosse sempre stato così. Una vertigine la attirava dietro le sue spalle ferme. Vortici giravano e avanzavano sempre più veloci. Muovevano l’aria intorno a lei e la spettinavano, le sollevavano le vesti, turbavano le sue orecchie con spifferi che diventavano turbini di vento crescenti e incombenti sulle scapole. Chiudeva gli occhi e in un attimo era lì, nella spirale del vortice, caduta all’indietro. Si divincolava, ma senza riuscire a liberarsi dal moto rotatorio che ora la irretiva, ora le dava respiro. Non era mai caduta nell’occhio del ciclone, mai nella voragine profonda. Non sapeva come rialzarsi, come arrestare la giostra che la braccava alle spalle e che, per qualche scherzo del destino, continuava a girare e a sfiancarla. Si addormentava da mesi in preda a sinistre sensazioni e davanti agli occhi la sua immagine nella vertigine, come fosse la protagonista di un film di Hitchcock.
Era con questi moti interiori che si era presentata nella casa di campagna della nonna. Era con gli stessi moti interiori che la sera crollava dal sonno e la mattina si svegliava, sempre stanca, spossata. Il corpo, pesante, la seguiva a ogni passo e non le chiedeva conto dei suoi gesti svogliati, portati a termine con fatica, un peso titanico sulle sue spalle tornite che le parevano, però, essere diventate in un attimo graciline e ossute. La mente lavorava con difficoltà, reagendo solo in poche e rare occasioni ad alcuni stimoli endogeni: disobbediva a se stessa in una sfiancante lotta intestina, che la conduceva ad arrendersi e a vincere contemporaneamente, a lasciar perdere ogni tentativo di rivalsa e a mortificarsi per il suo stesso atteggiamento.
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