La strada che riportava alla casa dello Zio Ciccio si asserpentava sul declivio della collinetta che gettava sul lago, un poco sopra il resto del paese. Ogni volta che doveva scenderne, Carlotta trascurava il rischio di spaccarsi un osso lungo la viotta ripida e sconnessa, e anzi si scapicollava con l’ebbrezza di quando, ancora bambina, godeva a ruzzolare tra la sassaia dell’osservatorio (la cima calva del colle, dove il gesso riaffiorava in concrezioni scheletriche riverberando la luce della luna contro i tronchi argentati degli ulivi). Le ammonizioni dello Zio non servivano a nulla all’epoca, e non servivano a nulla adesso, quando, nel fiore rugiadoso dei suoi primi diciott’anni, l’aria fresca della sera ravviava come un pettine i capelli dorati di lei corrente. A volte, mentre rotolava verso il centro del villaggio, il sa-pore di finocchietto e arance che calava dalle montagne le entrava dal naso nella gola, e le pareva di bere, di bere la brezza come l’acqua da un albero bucato. In quei momenti, Carlotta chiudeva gli occhi e precipitava a valle come un pallone, inconsapevole di sé, del proprio corpo frangibile e dello sguardo esterrefatto della gente.Talvolta ancora, la mattina presto, quando il sole appena increspava le foglie intirizzite dell’olivarella, scossa dal suono della campana della chiesa, Carlotta usciva dalla casa dello Zio, e cominciava a zompare verso il paese, sempre più in alto, e infine, per le ultime poche spanne della strada, a volare a mezz’aria come fanno i banchi di pesci salterini, appesa a un gancio mobile benedetto dal Signore.
Il vecchio prete si era abituato a vederla entrare dalla finestra, a funzione iniziata, come fosse la luce degli angeli bruciata sui fedeli che intenti la guardavano.Quando al crepuscolo rientrava dallo Zio, Carlotta tendeva la vista al rosso del sole morente tra i monti, e se ne lasciava inebetire, gonfiando il petto sinché il respiro non si ficcava fino al fondo dei suoi piedi. La cognizione di altri luoghi, dove le strade non fossero trapanate dalle radici e sparse dei fiori in primavera, la eludeva, con tutte le sue sconfortanti conseguenze. La fuga, per lei, era solo quella, peraltro misteriosa, delle rondini d’inverno, o dei commessi che dopo gli acquazzoni andavano via a spacciare i porcini oltre la collina, per poi rientrare con qualche spiccio di denaro. Il nuovo mondo di Carlotta non richiedeva un transatlantico, ma cresceva spontaneo tra le erbacce del giardino, sotto lo sguardo attento di Zio Ciccio.
Paola Francesca Cortese (proprietario verificato)
Maria Cortese, si, il disagio c’è oltre l’esperienza della protagonista, emerge tra le righe come uno scatto non sviluppato: Carlotta è oltre quel disagio e lo richiama alla memoria come il fatto non narrato perché non c’e da narrarlo, non è mai il suo disagio: Carlotta, inintenzionalmente, risponde ad una domanda non non detta di confronto in maniera esemplare
Maria Cortese (proprietario verificato)
Nipote mio, ho letto con vero piacere il tuo racconto. Ho sentito il disagio dell’adolescenza e l’ho vissuta leggendo “il turchino dei tuoi occhi”. Non posso che consigliarne la lettura.
Paola Francesca Cortese (proprietario verificato)
È una strada nuova e percorribile, un invito a osare d’essere per salvarsi, una testimonianza per i lettori più giovani e un accorato invito a lasciare che sia per gli altri lettori. Lo consiglio vivamente ad entrambi