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Tutti i giorni della nostra vita

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Tutti i giorni della nostra vita. Nessuno da dimenticare sul divano la sera davanti alla televisione. Tutti, anche quelli malsani, perversi, inconclusi, imperfetti. Perché la perfezione è l’inganno che oltraggia le nostre vite.

I giorni speciali li appuntiamo per sempre, e qualsiasi cosa accada dopo, torniamo continuamente lì. Il giorno in cui ci siamo innamorati e quello in cui ci siamo perduti. Il giorno in cui la vita ci ha messo alla prova, in una sala parto, in una piazza gremita, in un’aula d’esame, e il giorno in cui siamo stati costretti a partire e lasciare tutto. E poi il giorno in cui nessuno ha più firmato l’ennesimo rinnovo del contratto, e il giorno in cui non hai fatto altro che servire caffè. Fino al giorno in cui il mondo che hai osservato dal vetro di una portineria prende vita e quella vita inizia a raccontare di te. E tra l’inizio e la fine, tra il possibile e l’impossibile, restano a testimonianza tutti i giorni della nostra vita. Resta il lavoro quotidiano, silenzioso, incessante, fatto di piccoli gesti che si ripetono, scavando gli argini di un’apparente normalità. E la famiglia, il lavoro, i rapporti umani all’improvviso perdono la patina di perfezione per riportare, a tratti con sommessa intenzione, altri con veemente passione, il gesto all’amore e l’amore al sogno.

Attendo,

una scrittura che mi ricompensi,

in questo ondivago viaggiare,

consolatrice.

Per tutta la vita non facciamo altro che cercare un posto.

Non un posto qualsiasi. Quello è per coloro che compaiono e scompaiono inosservati. Noi vogliamo essere viste. Ardiamo nel dimostrare di essere audaci, incontrovertibili presenze che cercano fino all’impossibile di poter essere uniche, irripetibili.

Ci piace dispiacere, dire l’ultima parola, anzi in quell’ultima parola detta avvertiamo il piacere della sentenza inappellabile, dopo la quale difficilmente chi interloquisce con noi riesce a controbattere. E se qualche volta ci costringono al silenzio, snoccioliamo nella mente una serie di epiteti, osceni e impronunciabili, che se trovassero un luogo ove svelarsi, tornerebbero dalla vergogna, nel profondo del nostro turbamento, là dove li abbiamo rastrellati.

Non amiamo aspettare il nostro turno, perché nell’idea stessa del turno c’è l’inganno. L’inganno dell’attesa, della promessa che tutto andrà bene se starai al tuo posto, che non ci saranno problemi se manterrai la fila. Ma noi, divorate dalla nostra stessa voracità di pensiero, alla maniera di un bambino alla sua prima poppata, strilliamo e pestiamo i piedi, per confermare la nostra presenza… anguille che scivolano via dalle mani del carnefice e non smettono di contorcersi nemmeno dopo essere state uccise. Come se quegli spasmi potessero ancora raccontare di noi.

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A scuola siamo quelle che chiacchierano, chiacchierano, perché la maestra è noiosa e noi non siamo mai le sue preferite. Le sue preferite hanno le trecce bionde, sorridono di un sorriso ebete e non dicono mai niente che abbia senso. E quando torniamo a casa non stiamo composte a tavola, perché Gino, Riccardo, Giuseppe ci aspettano in cortile con le cerbottane e le fionde, e noi non abbiamo ancora preparato i cartocci, non riusciamo a trovare le biglie, le figu, i tappi… ma non si può, non va bene per una ragazza giocare tutto il giorno con i maschi, e non puoi indossare sempre questi calzoncini, le ragazzine mettono le gonne… ma noi odiamo le gonne perché ci costringono a stare con le gambe strette e loro poi ci tirano giù le mutandine per vedere come mai a noi non ci spunta nessun coso. E strilliamo più forte, finché la voce ci accompagna, che l’assenza di un coso non ci definisce senza. Che siamo brave a saltare la corda, a scovare chi si nasconde e a dire “tana libera tutti”, a organizzare le “Olimpiadi della via dal numero al numero”. E anche se non abbiamo una buona mira con la fionda, siamo oneste e sincere e non ammettiamo che si bari. Perché noi non scendiamo a compromessi, e mantenere la parola data è la prima regola.

Finché arriva il giorno in cui ci spuntano delle protuberanze e correndo per la strada un po’ più velocemente scopriamo che è piacevole lo strofinio delle nostre cosce l’una contro l’altra.

E che quella macchia di sangue, che scivola via dal profondo della nostra femminilità, non è peccato, non lo è mai stato. Comincia così in sordina una lotta infinita, tra madri che pettinano i nostri capelli tutte le mattine e li annodano in bianchi fiocchi immacolati, come la verginità che ci hanno donato, e uomini che cercano riparo dietro i nostri corpi, confinandoci sempre alla fine della fila. In qualsiasi direzione posi lo sguardo c’è sempre un posto per te, pronto per te. Ma all’improvviso scopri che non è quello il posto che volevi. C’è il posto a tavola, nel letto, in automobile. C’è il posto dal ginecologo, in ufficio, al supermercato. C’è il posto alla finestra, a guardare il mondo che scorre fuori. Piena di un pieno che non ti lascia respirare e al quale non basta un posto, perché ha bisogno di sconfinare, di perdersi e ritrovarsi, di morire e rinascere, di gridare fino alla fine del fiato. E non vuoi più essere la figlia, l’amante, l’amica, la collega, la segretaria, la prostituta, la moglie fedele per la vita. A te non basta una vita per essere tutto quello che sei. E allora se non vuoi il posto che ti è stato preparato, che ti è stato donato con tanto amore, che è stato pensato per te, su di te, contro di te, ma mai con te, allora sei destinata al silenzio. Assassinata, deturpata, strangolata, stuprata, comprata, carne da macello che inorgoglisce i pensieri di quelli che apparentemente condannano, ma nel silenzio della loro macabra bestialità, gioiscono. Perché dal posto nel quale ti hanno rinchiusa non potrai più fuggire. “Finché morte non vi separi” recita il prete, e a questa sentenza non v’è appello.

SE FOSSI IL TEMPO VORREI ESSERE L’ALBA…

Nel tentativo maldestro di nascondere la sveglia sotto le coperte, questa mattina provo a ingannar me stessa sul senso della mia ultima giornata nella nostra casa, anche se cerco di fare in modo che si svolga esattamente come deve svolgersi e capisco che per i “non so” o i “non vorrei” non esiste il benché minimo spazio, e così, subito dopo, infilo i piedi nelle ciabatte e come uno zombie mi dirigo verso il bagno, trascinandomi dietro il corpo del reato.

Ricordo il gesto di mio padre che con mano ferma tutte le sere caricava la sveglia. Un giro per scacciare la voglia di tornare, un altro per sentire il respiro delle bambine donare conforto, un altro ancora per ricacciare in gola la rabbia per l’ennesimo torto subito. Così una sera dopo l’altra, un anno dopo l’altro e ancora, fino all’ultimo giorno. Lancette impietose e salvifiche, che lo portavano via accelerando il tempo del distacco.

Accendo la luce e, come l’urto di un treno che sfreccia impazzito nella galleria, la lampadina da sessanta watt mi colpisce, sottraendomi la benché minima speranza che possa essere una giornata qualsiasi.

Seduta sul water, guardo la sveglia appoggiata di fronte a me sulla lavatrice, dal cui oblò si affacciano le magliette dei ragazzi, sporche di tutto ciò che macchia e lascia un segno indelebile. Spuntano le spalline dei miei reggiseni, i polsini delle sue camicie.

Pausa… chiedo ancora un attimo di tregua, prima di affrontare la giornata, prima di dover dire ai miei figli “È ora di alzarsi, è ora di andare a scuola”.

Il silenzio della casa è complice. Tra poco sarà invaso dai borbottii adolescenziali dei ragazzi, dal fischio del bollitore, dall’acqua degli sciacquoni, e io avrò disperso per sempre il ricordo di un sogno.

Passo una mano fra i capelli, cercando di riportare il corpo e la mente al mondo reale, quello che reclama la mia presenza.

Fuori è ancora buio. Tra pochi giorni cambierà l’ora. Se almeno il risveglio potesse proficuamente rimettermi in moto. Ma non mi abituerò mai al cambio dell’ora legale. A quel minaccioso apparire dell’inverno, che nasconde le emozioni dietro i pali dei lampioni.

Guardo dalla finestra. Il gelo mattutino ha incrinato il ciglio della strada, facendo apparire come vendicativo il lato della partenza. Poiché tra poco verrà il momento di partire per andare a scuola, al lavoro, a comprare il pane, dal dottore o all’ufficio postale.

Amo, in questo momento in cui si risveglia il mondo, assistere al dispiegare di gesti ripetitivi e rassicuranti, che rinnovano il piacere dell’esserci, anche solo come spettatrice, prima che tutto venga definito come da copione.

Amo veder emergere dal buio della notte invernale i contorni dei tetti, e poter riconoscere i volti di chi esce dal portoncino della casa di fronte. Il signor Luigi ha già aperto il garage e si muove attorno alla sua utilitaria, come un ragazzino vicino al giocattolo preferito; con attenzione apre lo sportello dell’auto, si siede sul sedile, che unico reca tracce del quotidiano, e accende il motore. Sa che non sarà il rombare di una fuoriserie, ma quel familiare rumore di accensione lo mette subito di buonumore e con la solita lentezza, dote naturale delle persone anziane – patrimonio ormai in via di esaurimento – fuoriesce dal garage e si prepara per le tante cose da fare che normalmente preoccupano gli uomini di questa età. La pensione da riscuotere, la ricetta in farmacia, una partitina a carte tanto per gradire e una visitina all’orto, anche se in questa stagione c’è poco da sistemare.

In tutto questo tempo sono già uscite dal portone diverse figure femminili e maschili e sono già, altrettanto frettolosamente, scomparse allo sguardo. Mentre il signor Luigi è ancora lì, a pulire il vetro dell’auto.

Spettatrice in prima fila estraggo dal bussolotto dei riti quotidiani i gesti di quell’uomo, che mi serviranno quando, attanagliata dal divenire del giorno, avrò dato fondo al battito del cuore.

Sospesa dalle grida che mi chiameranno, dalle braccia che mi cercheranno, presente soltanto a me stessa, scivolo tra un bordo e l’altro delle nuvole che pian piano hanno invaso il cielo, relegando la notte nelle profondità della terra.

L’uomo si stacca dall’auto e la guarda soddisfatto.

Soltanto ora si è compiuto il gesto.

Non un attimo prima, quando ancora tutto restava incompiuto, distratto dalle tante devastazioni quotidiane che dissacrano gesti, che distolgono sguardi, che abbandonano corpi, per poi dimenticarli.

Non un attimo prima, mentre attorno a lui sfrecciavano vite inconsapevoli, che non hanno il tempo per condividere l’attimo.

Soltanto adesso è pronto per partire.

Richiude la porta del garage, e si allontana, quando anche l’ultima sveglia mi ricorda che non è più tempo di indugi. Così il mio sguardo urta con i vuoti che vedo affiorare da ogni dove. Quelli della libreria, dove non si mescoleranno mai più le mie e le sue storie, quelli della credenza da dove ho portato via le cose che appartengono a un tempo in cui ero soltanto io.

L’acqua del bollitore si disperde in nuvole sbuffanti che premono contro il beccuccio imbavagliato.

Seguo quel fischio e ripenso alla faccia dei miei figli che, affacciati alla porta della camera, mi lanciano un ultimo sguardo “SOS”: aiuto mamma, facciamo che oggi restiamo a casa ed evitiamo la scuola, la lotta per l’ultimo posto sul pulmino, la faccia della prof e la voce stridula della maestra, e tutti quei compiti di cui non capiamo il senso e le tue sgridate per farceli fare…

Così, tra un sorso di tè e un biscotto dietetico, abbandono la boa dei loro sorrisi perché è giunta l’ora di partire. Nella preparazione frettolosa degli ultimi minuti mi accorgo che non c’è nessuno sulla porta a cui possa rivolgere il mio sguardo “SOS”. E domani non respirerò più l’aria della nostra casa, perché non sarà più la nostra, mai più.

… PER FAR USCIRE ALLO SCOPERTO I PENSIERI BUI

Sento, sento le voci. Il torpore mi assale ma voglio restare sveglia. Ieri eravamo ancora noi, con le nostre domande e le loro risposte. E non c’era affanno, non c’era possibilità di errore.

Cosa vuol dire “C’è qualcosa che non va”? Non è una domanda, non aspetta una risposta, non affronta il dubbio, la possibilità di errore. È un’affermazione che spezza il ponte che lanciamo contro il tentativo perenne della vita di metterci alla prova. Ma non questa. Io non la voglio questa prova.

Ieri eravamo ancora noi, con la nostra borsa pronta per l’ospedale e Marco che mi chiedeva: “Come sarà questa sorellina?”. E io che la sera gli racconto di orchi e di fate, e di un piccolo eroe che mette fine alle peripezie di draghi e mostri marini.

Dov’è la sua spada? Lo vorrei qui accanto a me, pronto a difendermi dalle voci che sento e che non mi comprendono, non comprendono mia figlia nell’ordine naturale degli eventi che succedono a un parto.

Sento, sento il vuoto dentro il corpo, tutte le lacrime che non trovano spazio sul viso, affondare nella voragine che si è aperta improvvisamente e alla quale non mi voglio affacciare. Voglio sentire il pieno del suo corpo strofinarsi contro le pareti della mia pancia, del petto, contro la pelle tesa dei fianchi, in quello straordinario evento di rotondità dove, unico momento della vita, due esseri vivono insieme ogni momento della giornata.

Voglio estirpare dalla mente la sensazione del nulla che mi impedisce di capire. Un nulla che strappa la cornice degli orsetti che Roberto in questi ultimi giorni aveva scelto nel nuovo negozio per bambini, che sventra i piccoli peluche sistemati con attenzione da Marco sulla culla che avrebbe dovuto… avrebbe dovuto, e non può… non più, non in quel modo.

Un interruttore, voglio un interruttore per staccare il suono delle voci che affannosamente raccontano di una malformazione grave.

Quanti esami, cartelle con codici, pareri, visite a pagamento. Per non avere problemi, per stare tranquilli. Quanti fottuti soldi, perché su queste cose non si può risparmiare, e il sorriso di Roberto mi ripagava dei tentativi maldestri di spiegargli che non era giusto spendere tutto quel denaro; che in fondo esisteva un servizio pubblico e non era opportuno che il dottore ogni volta ci dicesse che l’apparecchio ecografico dell’Asl non funzionava e che sarebbe stato meglio andare nel suo studio. Per stare più tranquilli.

Dov’è adesso il suo sorriso bastardo da 100 euro senza ricevuta?

Ridatemi mia figlia e il nome che avrei voluto pronunciare l’attimo dopo il suo ingresso nel mondo, accarezzandole piano il corpo, rassicurandola che il mondo non è quello che sembra, anche se le luci, il freddo della stanza e quelle mani che ti hanno tirato fuori non sono così accoglienti come le pareti del mio utero, dove avresti voluto stare ancora, forse ancora un po’.

Dov’è Beatrice e la sua massa di capelli rossi? Perché dovresti avere i capelli di tuo padre per ristabilire un equilibrio nelle eredità genetiche.

Tu lo sapevi di essere Beatrice, perché quando abbiamo scelto il tuo nome hai dato un energico calcio e ho capito che non poteva essere nessun altro il nome che ti avrebbe accompagnata in questo viaggio nel mondo.

Una malattia, una malattia genetica. E io che pensavo che i geni fossero piccoli folletti amici che distribuiscono segni di riconoscimento nel profilo del naso, nel sorriso, in quel modo strano di stringere i pugni di mio padre e che rivedo in Marco quando la rabbia prende il sopravvento, restando intrappolata nelle sue piccole mani.

Piccoli folletti ammalati che spostano le simmetrie, frappongono ostacoli in quel riconoscimento, al punto che fatico a pensare al nostro primo incontro.

Tengo gli occhi chiusi, illudendoli che nel mio apparente torpore ci sia ancora l’effetto dell’anestesia. Tengo gli occhi chiusi perché non riesco a immaginare dove l’equilibrio si è spezzato e quali cicatrici ha lasciato sul tuo corpo così minuto, così fragile, dove l’accanirsi degli eventi non ha incontrato resistenze.

Ti avrei cancellata se avessi saputo? Avrei cancellato dalla memoria il tuo nome, prima che potesse diventare spazio delimitato? Lo spazio della tua culla, delle tue piccole mani che afferrano il mio seno, lo spazio dell’ombra del tuo corpo che si allontana da me.

Avrei affidato di nuovo al sapere dei tuttologi in camice bianco, il tuo millesimale appunto di vita?

Forse. Almeno non avrei dovuto affrontare l’inquietudine del nostro prossimo incontro. Vorrei scappare, lontano dalla mano di Roberto che cerca di cogliere da un lieve fremito l’attimo giusto per raccontarmi, per prepararmi a quello che sei venuta a propormi con la tua nascita.

Vorrei correre lontano e serbare dentro di me il disegno che avevo preparato per te: di una vita allegra e spericolata, di un lungo tempo da passare insieme tra pannolini e ninne nanne, tra vestitini colorati e lunghe trecce da intrecciare per te la mattina prima di portarti a scuola, tra i primi biglietti d’amore e le tracce di sangue della tua adolescenza, tra i turbamenti del cuore e i sogni da realizzare.

Cosa sei venuta a raccontarmi dal mondo dell’altrove, cosa vuoi dire che io possa ascoltare?

Credi che sarò pronta ad affrontare il tuo e il mio dolore? Credi che ce la farò a sostenere i passi che non potrai fare, le parole che non potrai dire? Credi che potrò guardarti con la stessa intensità con la quale ti ho atteso?

E non dimenticare mai che tu esisti comunque?

Se lo credi, posso aprire gli occhi e ascoltare le loro voci, e aspettare di averti vicina per sentire il battito del tuo piccolo cuore, ancora battere insieme al mio.

Se lo credi posso imparare da te l’ennesimo scontro titanico tra la nostra onnipotenza e la vita che scorre in questa pallida stanza d’ospedale, e che ci costringe continuamente a stravolgere i nostri piani di necessaria perfettibilità, come se questa potesse essere l’unica strada da percorrere.

SE FOSSI UN ARTISTA VORREI ESSERE UN PITTORE…

Alberto mi sorride dall’altra parte del vetro. Oh Dio, ha portato un altro pacco. Ma allora non capisce. Gli ho spiegato per bene l’ultima volta le difficoltà… anzi, ha visto con i suoi occhi quella lunga sfilza di documenti da presentare. Che tipo ostinato.

Ma sei un maestro? Fai il maestro. Anzi vuoi dipingere? Dipingi. Ma perché pensare di spedire i propri quadri in America? Ma lo sai quant’è lontana l’America? Un’altra lingua, un altro modo di vivere, cosa c’entra con i tuoi paesaggi umbri? Tutta quella strada in aereo. Paesaggi umbri sospesi a migliaia di chilometri dalla terra. Campagne silenziose sospese nell’infinito spazio del cielo. Tele contro sfondi eternamente azzurri. Come quando tiri su lo sguardo e vedi scie sporcare lo spazio azzurro dell’orizzonte. E dentro quelle scie ci sono anche le tue tele. Tutto apparentemente relegato nello spazio di un pacco, stretto dalle corde, ma disperso nell’azzurro di un cielo solcato da strisce in volo. E io che cerco di farti capire che ci sono dei regolamenti, dei moduli da compilare. Perché l’arte in sé non significa niente se non posso crocettarla sul mio formulario. E tu ti arrabbi e cerchi di spiegarmi che stai aspettando da più di mezz’ora e io non posso liquidarti così, con una crocetta sul mio formulario che non corrisponde ai requisiti.

Ma tu fai il maestro e io sono un po’ gelosa del tuo magico mondo di parole disegnate e caramelle da dividere o moltiplicare. Perché ricordo il primo giorno che sono entrata in una classe e non avevo appigli e tutto si è giocato in pochi giorni. Il mio diritto di capire la strada da percorrere, il loro ostinato rifiuto ad accettare le regole. Anni difficili, in una periferia così fratturata dall’odio, dai colpi di pistola: alle gambe, al cuore per colpire comunque e dovunque. Sirene spiegate d’ambulanza, di polizia, e marce per condividere, per contrastare, per ostacolare. Per chiudere definitivamente un capitolo di storia.

Per tornare nelle case e non uscirne più.

Sprazzi di memoria che si accendono quando tra un pensionato e una casalinga mi trovo di fronte uno come te, che non si accorge che tra le mie dita scorre senza sosta il passato. Tu sei l’artista, io l’impiegata.

Tu sei il creativo, io l’addetta. A cosa mi piacerebbe scoprirlo.

E andiamo avanti con questo cliché che etichetta continuamente le persone, bloccandole in scatti improponibili di mediocrità.

Infatti secondo te io sarei stata istruita per conoscere i regolamenti alla lettera e soddisfare i tuoi bisogni e quelli delle altre centinaia di persone che giornalmente entrano in questo ufficio. Tutto con la massima resa, la minima spesa e soprattutto nel minor tempo possibile. Tu mi guardi e io cerco di non far trapelare l’insidioso stato di inquietudine che offende i miei sensi, che offusca la percezione di qualsiasi suono che provenga dall’altra parte del vetro e che oggi, per la prima volta, mi protegge dal dolore. Il dolore che non voglio sentire, vedere, che impasta la mia voce, e disarticola le parole che non riesco più a dire.

29 marzo 2019

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13 febbraio 2019

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22 ottobre 2018

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Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Ci sono momenti nella vita che ti arrivano come fossero dei doni . Questo è stato “Tutti i giorni della nostra vita”. Nella sua semplicità parola dopo parola mi ha dato emozione, commozione, rabbia, dolore . Straordinaria capacità dell’autrice di entrarmi dentro e attraverso il suo scavare l’animo umano nel suo quotidiano , mi ha trovata affamata nel voltare le pagine ed arrivare alla fine del libro troppo presto. E’ stata una lettura che mi ha carezzato l’anima . Spero di poter presto leggere altro di Rosa Iannuzzi

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Rosa Iannuzzi
Rosa Iannuzzi, classe 1961, è cresciuta a Torino dove è tornata a vivere dopo più di vent’anni tra Umbria e Toscana. Una continua storia di cambiamenti, le cui uniche costanti sono la scrittura e il teatro. Costanti che la portano, da una parte, a frequentare (e poi condurre) laboratori di scrittura autobiografica e, dall’altra, a costituire un gruppo di letture ad alta voce. Nel 2008 ha esordito con il romanzo Naufraghi; Tutti i giorni della nostra vita è la sua prima raccolta di racconti.
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