Fatti, personaggi e luoghi di questo lavoro sono assoluto frutto della fantasia dell’autore. Lungi dall’intenzione di arrecare danno o nocumento ad alcuno, ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale e non ha alcun riscontro con la realtà.
Avuto presente che nella comunità rurale di Dragone al Colle le vite si trascinavano affannosamente tra la carne viva e gli odori della stalla, mi scuso anzitempo con chiunque possa ravvisare in questi scritti una minima offesa alla propria sensibilità.
Quella vecchia valigia di cartone spesso, di un indefinito colore scuro, con gli spigoli rinforzati da cuffie del medesimo materiale fissate con borchiette cromate, era riposta, impolverata, sulla sommità di un antico armadio nella camera da letto di mio nonno, Francische gliù Buciarde.
Ancora adolescente mi incuriosiva quel contenitore posto lassù, inarrivabile per me che restavo stregato dalle due serrature a scatto, il cui solido aspetto riusciva a dissuadere chiunque da ipotetici intenti furtivi. La vita che animava quella stanza poi è passata, tutto è rimasto immobilizzato come su una vecchia foto virata seppia, la polvere ha fatto sedimento ovunque.
È trascorso circa mezzo secolo da quando ero rimasto affatturato da quella valigia.
Tempo fa mi sono ritrovato per altre ragioni in quella stanza; nella penombra pareva risuonassero ancora le voci di nonno che imprecava nei riguardi della consorte per futili contese coniugali, di nonna Donata che raccomandava prudenza al figlio, che si recava al lavoro con la Lambretta, oppure rimproverava, strattonandola, la figlia più piccola, che manifestava la sua riluttanza ad andare a scuola con modi maldestri e sgarbati. Aperte le imposte della stanza, le presenze che vi aleggiavano parvero dissolversi e ritirarsi nei mobili e in quegli oggetti familiari che si delinearono nel fascio di luce della finestra. Ed eccola là, la valigia, ora più vicina per via del nuovo punto di vista; potevo afferrarne il manico e tirarla giù. Senza alcun timore.
Come tanti contadini, Francische non aveva una grande familiarità con la gestione delle carte – che non fossero quelle napoletane –, considerata pure la sua limitata esperienza scolastica che, tuttavia, gli consentiva di leggere seppure stentatamente concetti semplici, scrivere il proprio nome e fare di conto.
La valigia conteneva, affastellate, le ricevute del dazio che si pagava su ogni attività produttiva: per la macellazione del maiale, per trasportare il grano al mulino, per la vendemmia ecc. In un altro mazzetto, contenuto in una vecchia busta gialla da lettera, c’erano le ricevute del veterinario e delle bollette della monta per la riproduzione dei bovini, le immancabili ricevute della fondiaria e della società agricola di mutuo soccorso di Dragone al Colle e alcuni “pagherò” evidentemente onorati. Un vecchio telegramma del 16 maggio del ’61 dava conto della nascita del primo nipote di Francische, e quindi lettere e cartoline varie provenienti soprattutto dai luoghi dove avevano prestato il servizio militare i figli. C’erano poi fotografie di vario genere: primi piani in posa di nonna, nonno, zii, cugini, alcune commissionate “perché non si sa mai…”, poi foto da un matrimonio, anzi da più matrimoni messi insieme in un’allegra, anacronistica confusione, e altre che immortalavano momenti di vita agreste al n. 1 di via Guglielmi. In un attimo tornarono alla mente voci, visi e ricordi che avevo dimenticato. Chissà quando. La trebbiatura, la vendemmia, il gregge di nonno, oramai confusi nella memoria; ma chiste è Giuseppe Leccazippe!, che per la sua parsimonia avrebbe tratto alimento leccando persino uno stecco di legno secco, Giuvanne Ricozze, ’Ndoniuccio de còrza in un momento di pausa dalle fatiche campestri, e poi tutte le Marie in ogni possibile declinazione: Maria la Morella, così chiamata per la sua carnagione bruna, Maria Pupettona, dalle forme procaci, Maria (G)Ròssa, Maria Capitano, pronipote di un soldato di ventura, Maria la Carunara, imparentata con una stirpe di carbonai ecc. Soggetti che qualcheduno (illuminato!) dotato di una modesta Comet Bencini ritenne di immortalare così.
C’era, tra le altre cianfrusaglie, una busta di grande formato, contenente un estratto di mappa su carta lucida con la visura catastale della proprietà di nonno, con su vergato con la sua scrittura incerta: Le ate carte e i strumenti li tène gliù giòmetra.
Da qui l’idea di promuovere un Geometra, un Agrimensore, un Saltafossi che dir si voglia, a protagonista di una storia.
Nel panorama della narrativa, dove l’attenzione è monopolizzata da eroi carabinieri, quando non sono poliziotti, avvocati o giudici da prima pagina, è improbabile imbattersi in un geometra protagonista. In ciascuno dei seguenti racconti è presente l’azione, ora catalizzatrice e centrale, ora secondaria e marginale, del professionista. Il personaggio incarna quella che il mio amico Pietro definì, in un annoso dibattito su questioni politiche locali, la “politica dei geometri” nel senso più deteriore della locuzione, per la singolare considerazione che il grottesco protagonista ha dell’urbanistica (case-fotocopia), dell’etica professionale (il Capotecnico del Cinque Per Cento), del diritto (usucapione) o della politica (il 1976).
Va detto però che se si fa una ricerca approfondita sulla formazione scolastica di tanti uomini pubblici, manager e politici si trova una grande quantità di geometri che poi hanno intrapreso un’altra carriera, forse intendendo così affrancarsi dal “peccato originale” – ma poi, visti i traguardi raggiunti, forse non sono stati così male gli studi da agrimensore! –. Sono stati “seguaci di Ammone” Antonio Fazio, già economista e governatore della Banca d’Italia, il matematico e scrittore Piergiorgio Odifreddi, Claudio Baglioni, quello della “maglietta fina”, Adriano Galliani, Giampiero Boniperti, Fabio Capello, Flavio Briatore e il compianto Massimo Troisi, solo per citarne alcuni.
Le trame degli episodi che seguono sono intessute su un ordito di vicende di paese (Dragone al Colle, provincia di Terra di Lavoro e dintorni, coordinate speculari: 41.554919 N, 166.396593 W oppure 41.554919 S, 13.603407 E; dipende dalla posizione dello specchio!) e di personaggi singolari che si muovono in un tempo indefinito a ridosso degli anni Sessanta e Settanta, con salti temporali a ritroso nel ventennio fascista e nell’ultimo dopoguerra.
Nelle piccole realtà ancora lontane dai modelli cittadini, il geometra è tutt’ora considerato un fondamentale riferimento la cui opera nell’ambito della comunità è complementare a quella del medico condotto e del prete, e assolve entro certi limiti le funzioni di avvocato, ingegnere, architetto o commercialista, non foss’altro che per l’incipit impegnativo e in qualche modo autorevole che le sue risposte consulenziali hanno sempre, del tipo “la legge dice”, “il piano regolatore prevede”, “la normativa tecnica stabilisce”.
Competenze acquisite il più delle volte a seguito di seri studi e appropriate pratiche professionali, ma che talvolta, invece, si riducono a locuzioni altisonanti che colpiscono l’uditorio, con sfoggio di ostentata ma vuota sapienza (quando si dice “Per stupire mezz’ora basta un libro di storia. Io cercai d’imparare la Treccani a memoria…”).
Lungi dal voler dissacrare la nobile professione di misuratore di terra che l’autore (ça va sans dire, geometra pure lui) considera un privilegio per coloro che la esercitano – quantomeno per le nobili origini della scienza agrimensoria risalente agli antichi Egizi e tramandata dai Greci e dai Romani fino ai giorni nostri –, con questi scritti si vuole dare risalto, in chiave satirica, a ciò che un professionista mai dovrebbe fare per sterile convenienza personale o per interesse di bottega, sullo sfondo di un piccolo mondo ormai declinato dietro l’orizzonte lontano del tempo…
1. Squadri e livelli, termini e specchi
La madre de le Sante
Chi vvò cchiede la monna a Ccaterina
Pe ffasse intenne da la ggente dotta
Je toccherebbe a ddì vvurva, vaccina,
E ddà ggiù co la cunna e cco la potta.
Ma nnoantri fijjacci de miggnotta
Dìmo scella, patacca, passerina,
Fessa, spacco, fissura, bbuscia, grotta,
Freggna, fica, sciavatta, chitarrina,
Sorca, vaschetta, fodero, frittella,
Ciscia, sporta, perucca, varpelosa,
Chiavica, gattarola, finestrella,
Fischiarola, quer-fatto, quela-cosa,
Urinale, fracoscio, ciumachella,
La-gabbia-der-pipino, e la-bbrodosa.
E ssi vvòi la scimosa,
chi la chiama vergogna, e cchi nnatura,
chi cciufèca, tajjola, e ssepportura.
(G. G. Belli)
Il suo arrivo veniva preannunciato come dallo scampanellio di un maggiordomo: si sentiva il ronzio di zanzara della sua Citroën Deux Chevaux rossa bordeaux da dietro gli alberi della strada, rincorsa da un polverone infernale che suscitava le ire feroci di coloro che abitavano nei pressi. Allorché questi, infuriati, si esibivano in colorite imprecazioni invocanti l’intervento del Padreterno per un provvidenziale accidente che gli stuccàsse tutt’i ddù le còsse, oppure genericamente jastemàvano a denti stretti l’incolpevole san Caitàne (san Gaetano da Thiene), patrono del paese. Talvolta inveivano nei riguardi del “suocero della Madonna” o contro quella Morte che “non lo vedeva”. Tuttavia le gambe gli rimanevano saldamente intonse e i santi vanamente implorati se ne restavano, si immagina, inerti a osservare quel tramestio…
Aveva iniziato a lavoricchiare negli anni Sessanta.
Diploma da geometra rigorosamente conseguito da privatista, previa una pluriennale preparazione acquisita tramite la somministrazione periodica di nozioni e competenze effettuata dal postino, tipo Scuola Radio Elettra (quella di Torino, con le dispense per corrispondenza).
Suo zio, Dumineche Scaffàre, detto così per via della statura sua e dei suoi fratelli, pari a quella di uno scaffale, l’aveva così ammonito, quando rivelò l’intenzione di fare il geometra: «Ma none, lassa pèrde’, ché la giùmetria n’n è pe’ tté».
Però il parere di zì Dumineche non faceva testo, poiché, in ogni caso, avrebbe cercato di indurlo all’arrendevolezza, a lasciare in pace la conoscenza, che era cosa da signori, non da voccarraperta¹ qual era. Ma tant’è.
Il tirocinio, per così dire, l’aveva effettuato presso lo studio di un altro suo zio, un traffichino senza scrupoli che non si sa nemmeno se fosse geometra veramente. Questi, infatti, pare avesse conseguito la “licenza” di geometra honoris causa a seguito di un episodio banale occorsogli durante lo sfollamento dovuto all’ultima guerra. Per ripararsi dalle bombe e dalla ferocia dei tedeschi in rotta verso nord, la popolazione della contrada si rifugiava di notte in una caverna, in località Zingarelli, che a malapena riusciva a contenerla tutta. In una notte di bengala lanciati dagli aerei alleati, dovendo attendere alle proprie urgenze fisiologiche forse indotte più dal terrore che dalla digestione della parvenza di cibo divorato qualche giorno prima, si alzò dal groviglio di mani, braccia e gambe in cui si era coricato e si allontanò uscendo dall’antro. Al ritorno, nel buio più profondo, con un piagnucolio supplichevole e molesto si chiese ad alta voce dove mai fosse il suo posto; a quel punto la voce di qualcuno, che nonostante il turbamento del momento non aveva perso lo spirito, rispose sarcastica: «Armà, i allora chiama gli cunfinante no?!», nel senso di rintracciare i vicini di prima, nel suo giaciglio. Dopo avere calpestato qualche piede e varie parti molli, accollandosi pure qualche maledizione, ritrovò la sua collocazione; i testimoni del fatto – svoltosi nel buio più pesto della caverna – da quel momento gli attribuirono una particolare perizia nel districare i confini in genere e quindi, per simpatia, anche di terreni. Perciò, non poteva fare altro che gliù giòmetra!
Aveva guadagnato credito e stima nelle campagne occupandosi per lo più degli indennizzi per i danni di guerra, ancora cospicui negli anni Sessanta, essendo quella zona situata a ridosso della tragicamente nota linea Gustav. Armando gliù Sbalecafossi lo chiamavano al bar Pino’s, poiché il mestiere di geometra agrimensore si esplicava anche nel vagare nei campi superandone le asperità o scavalcandone i fossi, appunto, per le cosiddette “operazioni di campagna”.
I suoi punti di forza tuttavia erano la millanteria e la truffa. La sua disinvoltura nel raggirare gli ignari clienti per intascarne i contributi (forse erano ancora residui del piano Marshall) dovette fare i conti un bel dì – e nel vero senso della parola! – con la furia di zì ’Ndunetta Mazzaccia, che aveva saputo dal cognato, direttore del Banco di Santo Spirito a Roccasecca, che i danari a lei spettanti erano stati intascati dal geometra Armando. Va detto che le ire di zì ’Ndunetta Mazzaccia erano proverbiali per la teatralità, gli alti lai e i coloriti improperi. Figurarsi che la venuta di Mazzaccia veniva persino minacciata dalle mamme ai bambini capricciosi che stentavano a calmarsi e prendere sonno, oppure era sufficiente vantare una lontana parentela con lei, nelle dispute fra ragazzi, per intimorire l’avversario.
Alla notizia dello sgarro accertato, si era creata una densa suspense che aleggiava nella contrada. Qualcuno temeva seriamente per la sorte dello Sbalecafossi, ma in fin dei conti se l’era cercata. In ogni caso, paventando una ritorsione feroce di zì ’Ndunetta nei propri confronti, nessuno ritenne di mettere in guardia il geometra agrimensore, rifugiandosi nell’omertà più sfacciata.
Era un pomeriggio di fine maggio, già caldo, l’aria profumata di fieno. Sull’aia si ergevano varie mète, cioè cumuli di fieno raccolto e sistemati in forme alte alcuni metri vagamente rassomiglianti a fiaschi impagliati. Dalla via Nova, la strada statale 6, svoltò per l’ultima volta verso l’aia, dove prospettava la casa di zì ’Ndunetta Mazzaccia, la millecento erre dello Sbalecafossi.
Sceso che fu dalla vettura, prima di rendersi conto di ciò che stava per succedergli, venne assalito da una gragnuola di colpi a mani nude, graffi degni di una tigre asiatica, strepiti infernali, bestemmie viranti dal sempre incolpevole san Gaetano da Thiene all’altrettanto innocente Maria dell’Assunta (protettrice di Villafelice), in una sorta di par condicio ante litteram ratificata alternativamente, in una confusione blasfema, con la vana nomina del Padreterno o, in subordine, del Cristo in croce, suo figlio.
Traballò. Certo che traballò. Eccome se traballò.
Ma zì ’Ndunetta Mazzaccia non aveva ancora finito il trattamento e la sua furia non aveva ancora raggiunto l’acme. Afferrò un forcone appoggiato al muro, di quelli a tre rebbi, e infilò Armando gliù Sbalecafossi all’inguine: il rebbio centrale aveva sfiorato l’esterno della coscia, uno dei laterali gli aveva infilzato un testicolo.
’Ndoniuccio de còrza, con l’aiuto di Maria Capitano e di Maria (G)Ròssa, ebbe il suo bel daffare per ridurre alla ragione la Mazzaccia inferocita.
Colomba, subito ingaggiata da qualcuno, cercò di medicare l’agrimensore, non senza pudichi imbarazzi e irrefrenabili accessi di riso: chi l’aveva chiamata aveva considerato la sua abilità nella castrazione dei verri, acquisita per via dell’attività del marito, Salvatore gliù Purcare.
Tra i contendenti fioccarono minacce di vicendevoli denunce che però non ebbero luogo poiché, tutto sommato, tacitata ogni pretesa di zì ’Ndunetta con il doppio del contributo sottrattole a suo tempo, gliù Sbalecafossi valutò che era meglio per lui che non si sollevasse il coperchio sui suoi raggiri: i frodati, ancorché poveri cristi e ignoranti zappaterra, avrebbero saputo maneggiare con maggiore destrezza di Mazzaccia e implacabile precisione forconi, asce, falci o martelli di sorta. Bastò il pensiero di quelle eventualità a convincerlo. E poi, facendo due conti a mente, realizzò che il costo di un testicolo non valeva la spesa: ne aveva una inutile doppia dotazione che, considerando l’età e l’uso che ne faceva, era decisamente ridondante. Tuttavia l’episodio fornì il pretesto alla solita linguaccia sarcastica del bar Pino’s di elaborare un nuovo appellativo per il geometra agrimensore Armando, detto gliù Sbalecafossi fino a quel dì, relegandone all’oblio l’esistenza fraudolenta. Oramai la mezza castrazione subita gli era valsa, in paese ma anche oltre, il nomignolo di ’Ndonduccio gliù Cappone.
Degli insegnamenti dello zio Armando aveva assorbito la quota deteriore: richieste di acconti dignitosi, di quelli che non mettevano in difficoltà il cliente a sborsarli, tempi geologici per il disbrigo delle pratiche, per rettifiche di confini o progetti di recinzioni, ricerca perenne di un ragazzo di bottega che sapesse disegnare ma che non pretendesse alcunché. Già era tanto se lo teneva a ciondolare nello studio a imparare un mestiere (sic!).
Era il periodo in cui i ragazzi della sua età indossavano i calzoni stretti dalla vita al ginocchio che diventavano larghi in prossimità delle scarpe. “Alla beat” si diceva. Anche se non era robusto di costituzione, la ferrea dieta di tagliarine i fasùle, sasicce sott’oglie, minestra cu’ lu pane sotte e custatelle d’agnello, somministrata coscienziosamente dalla madre, lasciava i suoi vistosi effetti su quello stomaco costretto tra i calzoni taglia quarantadue e la camicia perennemente tesa. Completava il ritratto un paio di occhiali a goccia Rebban, troppo grossi per il suo viso affilato.
I calzoni stretti e aderenti, tenuti da un cinturone di quelli che avevano per fibbia una borchia ovale con su stampato un mustang in corsa, criniera al vento, enfatizzavano le sue mascoline attribuzioni. Ma la tensione della cucitura del cavallo, che proseguiva con la cerniera della patta, prevaleva sulla consistenza delle sue virili dotazioni al punto che i due testicoli venivano “spartiti”, rivelando, invece, un rilievo che pareva una vulva di ragguardevoli dimensioni… e questo gli era valso il soprannome di “Sorchina”, essendo l’estensore del nomignolo non già appartenente alla ggente dotta, bensì all’opposta schiera di individui così eloquentemente figurata dal poeta romanesco Belli, in un celebre sonetto.
Sorchina era un amicone. Non disdegnava gli amici del bar Pino’s, il calcio e le donne. Giovane ambizioso, in quegli anni di boom economico, narrava con sarcasmo delle sue avventure galanti, da navigato uomo di mondo, durante gli interminabili pomeriggi a tressette o a briscola, intrattenendo gli astanti, tra una mano e l’altra, con i particolari più piccanti, inventati all’ottantanove per cento. La risibile differenza percentuale riguardava maldestri e goffi tentativi di approccio miseramente naufragati.
Era uno spettacolo quando, alludendo a improbabili amplessi e fantasiose acrobazie amatorie, usava il lessico tecnico proprio della sua ancora precaria professione. L’approccio e i preliminari si trasmutavano in un’approssimata collimazione; seguivano un accurato rilievo topa-grafico con tanto di tacheometro e stadia, seguito da una messa a livello o una messa a squadro con una finale apposizione di termine lapideo o della palina. La sveltina era rappresentata con una generica operazione celerimetrica.
Questo era il gergo in voga in quel periodo al bar Pino’s, all’arrivo di Sorchina.
«Com’è che sei arrivato tardi?»
«Sono stato a fare una livellazione.»
«E ieri? Non ti sei visto…»
«Ho dovuto fare un celerimensura alla figlia di Carbone, che non era pratica. Prima l’ho dovuta mettere a squadro e poi a livello.»
«Scusate il ritardo, sono stato a mettere un termine.»
E via fantasticando…
La sua presenza al bar Pino’s monopolizzava la scena.
Solo Fabrizio, figlio del poliziotto e studente di Medicina a Roma, gli rubava la piazza quando, di ritorno dalle sue peregrinazioni in Nord Europa, intratteneva gli amici del bar con la chitarra. Fabrizio cantava canzoni piene di parole forbite, che parlavano di libertà, emancipazione, pace, o satiriche, le canzoni dei cantautori. Il pezzo che metteva tutti d’accordo e che suscitava risate e allusioni anche a persone e a fatti locali era una canzone di Georges Brassens, tradotta in italiano da Fabrizio De Andrè, Il gorilla. Sorchina non aveva mai capito che cazzo si ridevano tutti quando Fabrizio sottolineava con la voce il passaggio che fa:
Quello che avvenne fra l’erba alta
non posso dirlo per intero
ma lo spettacolo fu avvincente
e la “suspense” ci fu davvero
Dirò soltanto che sul più bello
dello spiacevole e cupo dramma
piangeva il giudice come un vitello
negli intervalli gridava mamma.
Estate, luglio.
Esterno, giorno.
Capannello di uomini che discutevano animatamente; più precisamente si fronteggiavano, per questioni di confini. Sembrava che, usciti dal celebre dipinto Il quarto stato di Pellizza da Volpedo, avessero abbandonato la luminosa marcia della Fiumana, dividendosi in due opposti schieramenti vocianti e agguerriti. Nel circondario geografico di Dragone al Colle, per sottolineare i lineamenti stravolti dal lavoro, cotti dal sole, impolverati e sudati degli uomini di fatica, si dice “conciati come i cacciapaglia”, locuzione riferita, appunto, agli operai della trebbiatrice addetti ad allontanare la paglia prodotta dalla battitura, tra sudore e pula.
Donne che aizzavano i rispettivi uomini con argomenti di labile affinità con la contesa: interpretandone il cicaleccio era difficile ricondurre la causa di quel litigio a pratiche questioni di confine, visto che ci si riferiva talora alla facilità di costume della moglie di uno, quando non erano i particolari piccanti riguardo alle corna dell’altro, talaltra alle specialità amatorie di una o al numero degli amanti contemporanei dell’altra. Insomma la disputa si era spostata dalla questione reale e ci si stava avvicinando pericolosamente al contatto fisico, quando il polverone avvolgente della 2cv molleggiante di Sorchina, chiamato con premura per dirimere la questione, cominciò a salire dietro alla siepe di rovi che arginava la strada.
Le voci dei contendenti si placarono.
Riemerse pian piano il mormorio dell’aia alimentato dall’incessante stridore delle cicale, dal chiacchiericcio inutile delle galline, dai sacrosanti muggiti delle vacche assetate nella stalla e momentaneamente trascurate, dal cigolio della catena che tratteneva il cane, dal rumore ritmico del cardalana, riagguantato nel frattempo da una delle donne, dall’immancabile augurio di una provvidenziale rottura dell’osso del collo fatta da qualcuno ad alta voce a seguito della polvere della 2cv.
La disputa era sorta quando Francische gliù Buciarde, per sostituire la rete sul confine, aveva tolto quella arrugginita. Nel ripristinarla, dopo qualche giorno, aveva dovuto affrontare l’opposizione di Giuseppe Leccazippe, confinante, che non voleva riconoscere più il limite di proprietà materializzato fino a pochi giorni prima dalla rete arrugginita. Sosteneva, Leccazippe, che il confine era di circa quaranta centimetri oltre quello vecchio, entro la sedicente proprietà de gliù Buciarde. Ma Francische, che di mestiere faceva il sensale nelle fiere di bestiame del circondario, sapeva il fatto suo, quindi si preparò a sostenere che essendo passati oramai degli anni, si erano verificati e consolidati i presupposti per l’usucapione.
Sorchina mise mano a un righello posandolo sulla carta in iscala al duemila. Misurò e apprezzò: dalla casa di Leccazippe fino al confine, ventidue metri e novanta! Fettuccia metrica alla mano, un aiutante “a zero” sul muro della casa, il ventiduesimo metro e novanta cadeva cinquanta centimetri oltre il vecchio confine, all’interno della presunta proprietà di Francische.
I trentacinque metri e venticinque – che persino una lince avrebbe avuto difficoltà ad apprezzare in quella scala – dalla casa di Francische fino al confine misurati sulla carta, poi riportati a terra, cadevano cinquanta centimetri oltre il vecchio confine.
Gli animi si erano di nuovo scaldati, però prendendola larga, nel senso che le donne avevano rincominciato a fronteggiarsi: chi strepitava alludendo alla sottana che scorgendosi dalle vesti troppo corte della vicina ne denunciava la disponibilità per irriferibili attività, chi alla vócca pittàta² dell’altra che curava troppo la sua immagine invece di rassettare qualche letto o lavare qualche piatto; mentre gli uomini, a quella novità – circa un metro di sovrapposizione – avevano iniziato a sostenere, per ovvie ragioni, ognuno la bontà della misura a sé favorevole.
Quello che, nell’occasione, stava sulle spine era Sorchina. Perché nessuna delle due misure avrebbe accontentato entrambi i contendenti, che, anzi, avevano anche iniziato a sproloquiare di espropriazione, usucapione, distanze dai confini, rapporti di buon vicinato (chissà quali, poi?), convulsione per dire avulsione ecc.
Quando ci si trova in situazioni del genere, una buona strategia è quella di temporeggiare senza rendere partecipi i contendenti dei numeri, delle misure, delle deduzioni, soprattutto se sorgono dei problemi come questo. La situazione potrebbe sfuggire di mano. Ma oramai il danno era fatto e Sorchina, in affanno, meditava su come uscire dall’impasse.
Per prendere tempo (e coraggio, non tanto verso gli uomini quanto verso quelle cagne arraiate) e per saggiare la determinazione delle parti, prese una palina, di quelle bianche e rosse, la afferrò con due dita tenendola sollevata da terra, sospesa a piombo davanti a sé, traguardò da sopra gli occhiali chissà che cosa, in lontananza, e ne spostò l’ideale proiezione sulla terra di nessuno gradualmente, prima verso destra e poi verso sinistra, provocando, alternativamente, il clamore di disappunto di una frangia e gli assensi di quella opposta.
Nell’affannosa ricerca di una qualche indicazione da leggere forse all’orizzonte, reso pure instabile dalla calura, si avvide che non v’era dubbio: quando con la palina sorvolava il centro della terra di nessuno, tutti si zittivano!
Lampo di genio.
Nel corso di una oscillazione da destra a sinistra, sorvolando il centro, piantò la palina – quella vera però! – a metà della terra di nessuno. Impose il silenzio, con serietà, battendo nervosamente con una mano il righello sopra la carta piegata tenuta nell’altra, guardando con sufficienza i due litiganti da sopra gli occhiali da sole, che intanto erano scivolati verso la punta del naso, enfatizzò oltremodo quella solenne pausa pregna di sapienza (?) e sentenziò: «Aécc nun se pò parlà de usucapione, pecché gli use, se è capione aécc, è capione pure loco, quindi gliù spartimente passa giuste giuste addò stéva prima, i allora Francische pò remétte la rete addò stéva!³».
Da abile giocatore di tressette, aveva blindato la giocata senza alcuna strategia, mettendo giù tutti i carichi.
Gli attimi che seguirono erano sembrati anni, nell’attesa dell’effetto delle sue parole.
Borbottando vicendevolmente, Leccazippe e gliù Buciarde digerirono la decisione, annuendo poi alla espressa richiesta del geometra se avessero ben capito come stava la questione.
Avevano capito.
Certo che avevano capito.
Eccome se avevano capito.
Avevano inteso talmente bene la situazione che concordarono, nella circostanza, la possibilità di apporre sul ritrovato spartimente un termine lapideo.
Così, alla presenza continua degli intervenuti – le mogli, le svergognate, le sorelle di malaffare, le zoccole, i cognati, i nipoti, i cornuti e i ruffiani, oltre a Sorchina – Leccazippe realizzò una buca profonda sessanta centimetri proprio sul confine, mentre gliù Buciarde procurò una pietra squadrata di circa ottanta centimetri, sporgente quindi dal terreno quel tanto da poter leggere, scritto con vernice di minio – riesumata da chissà quale andito – su entrambe le facce, verso le rispettive proprietà a futura memoria e severo ammonimento per i posteri e per i distratti, il motto “AÉCC GLI USE NON È CAPIONE”.
Dunque, il disegno tecnico non era il suo forte. E una negazione come questa sottende però almeno una rudimentale conoscenza di quella tecnica.
È, tuttavia, una negazione benevola: il Sorchina non sapeva proprio che cosa fosse il disegno! Figurarsi le proiezioni ortogonali, poi! E la prospettiva, uh uh uh! E la teoria delle ombre! E l’assonometria isometrica o cavaliera che fosse! E la prospettiva con i punti misuratori (?).
E meno male che aveva un discreto archivio di case ereditato dallo zio gliù Sbalecafossi, scopiazzate qua e là da Ville e Giardini o da altre riviste della specie, tratte da progetti-tipo di case coloniche, case cantoniere, caselli ferroviari, di quelli proposti sul Manuale del geometra edito da Cremonese. Tutte rigorosamente su carta lucida: case da cento, centocinquanta o sessanta metri quadri, rurali o urbane, ordinarie o signorili, recinzioni in muratura a mezz’altezza, a tutt’altezza o in rete metallica o grigliato elettrosaldato. Tutto era tipizzato. Non c’era nulla che avesse anima o carattere. Le case, tutte uguali: tetti a capannaccio con falde sfalsate tipo fabbrica (i tetti a padiglione erano banditi perché troppo difficili e impegnativi da disegnare, figurarsi da costruire!), cucina, soggiorno (la sala!), bagno, corridoio centrale e camere ai lati; case banali, nemmeno lontanamente affini alla tipologia edilizia conforme alle abitudini, agli usi e ai costumi dell’umanità di quella landa, che invece prevedeva, nel panorama agricolo prevalente, solo case che si riassumevano nella locuzione “camera, cucina e stalla”.
Essendo l’archivio progetti costituito da disegni su carta lucida, con il solo ribaltamento delle scritte l’archivio si raddoppiava, poiché i progetti potevano essere letti e copiati su carta sia al diritto sia al rovescio.
Sorchina fu condotto verso l’avventura più singolare della propria vita da questa sua insana e disinvolta consuetudine: quella di fare case-fotocopia. Questo raccontavano i sodali dell’Accademia della Semola al bar Pino’s.
¹ Bocca aperta; aspetto espressivo tipico di chi è perennemente meravigliato da ogni cosa seppur banale; inebetito.
² Bocca dipinta.
³ Qui non può parlarsi di usucapione, poiché l’usu, se è capione qua, è capione anche là, quindi la linea di confine passa proprio dov’era prima, pertanto Francische può rimettere la rete dov’era!
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