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Ultraviolence – Una teoria sulla violenza secondo S. Kubrick

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Perché esiste la violenza? Una semplice domanda apre la strada in questo saggio a una raffinata riflessione che, attingendo con lucidità dalla produzione cinematografica di Kubrick, accompagna il lettore, scena dopo scena, pagina dopo pagina, sempre più in fondo alla natura umana, dominata da pulsioni distruttive. L’ineluttabilità di tale natura è domata, almeno in apparenza, dal contratto, la creazione di una conditio necessitatis superiore che si oppone e tenta di imbrigliare la caotica e sregolata tendenza al male. Lo Stato, la società, la famiglia: tutti arti ci che, basandosi su riti, assumono un ruolo rassicurante. Là dove vi è ripetizione e limite, il caos sembra cedere il passo al logos. Ma è veramente così? La profonda contraddizione tra due istanze opposte parrebbe risolversi grazie all’intervento di una terza, che trova compimento nell’opera ultima di Kubrick. L’immagine e la parola sono gli strumenti attraverso cui l’autore ci svela la sintesi fino al ciak finale.

INTRODUZIONE

La violenza è da sempre un tema ricorrente della rappresentazione artistica (dall’arte figurativa, passando per la letteratura e il teatro), ma è solo grazie e attraverso il cinema che essa ha trovato la sua più ampia dimensione.

L’atto violento esibito e mostrato ha la capacità di catalizzare su di sé sguardi indiscreti e curiosità; l’esibizione dell’atto violento suscita quell’istinto al voyeurismo che nell’essere umano è innato anche quando ciò che viene presentato non è l’atto violento in sé ma la sua messa in scena. È il caso del cinema che, oltretutto, mostrando una rappresentazione della violenza e non la violenza stessa, diventa il luogo in cui quest’istinto può essere giustificato. Il cinema pare essere il luogo ideale per il voyeur, il luogo in cui si possono sfogare liberamente e senza sensi di colpa le proprie pulsioni.

Se da un lato il cinema ha sfruttato la violenza per meri fini di intrattenimento, d’altro lato esso ne ha saputo produrre anche una riflessione critica. Per esempio: Dreyer, Buñuel, Browning, Rossellini, Pasolini e, più recentemente, Lynch, Cronemberg e, naturalmente, Kubrick. Pur non esistendo studi sistematici sulla violenza nel cinema di Stanley Kubrick, si può affermare che tutti i nodi tematici presenti nell’opera dell’autore siano riconducibili a un unico grande nucleo: perché esiste la violenza? È questa la domanda che Kubrick si pone attraverso i propri lavori. Kubrick non ha mai elaborato scritti teorici, ma attraverso le varie interviste rilasciate (a tal proposito, è stata di fondamentale importanza l’opera di Michel Ciment, Kubrick, la quale contiene la più importante raccolta di interviste all’autore) risulta chiaro che, a suo parere, la violenza è una condizione naturale dell’essere umano. Egli assume il concetto hobbesiano di homo homini lupus: l’uomo è lupo per gli altri uomini ed è per arginare la violenza dilagante che nasce lo Stato-Leviatano. Kubrick però pare mostrare come il progetto di uno Stato-Leviatano, seppur necessario, sia fallimentare e come lo Stato non riesca a placare il dilagare inevitabile della violenza, diventando esso stesso mezzo attraverso cui la violenza trova sfogo. La rappresentazione della guerra è in quest’ottica emblematica. Kubrick ha una visione disincantata del mondo umano e ciò lo porta a rifiutare e a criticare la concezione del tempo di tipo lineare-progressivo tipica della cultura occidentale; per Kubrick non può esistere progresso alcuno per l’essere umano e la sua natura violenta rimane inalterata nel tempo. Una volta mostrati quelli che sono i limiti del mito dello Stato-Leviatano, Kubrick tenta di chiarire le motivazioni dell’homo homini lupus. Se la violenza ha un primato metafisico è perché l’uomo è, per Kubrick, scisso tra due impulsi contraddittori: Logos e Caos, ovvero razionalità e irrazionalità. L’essere umano è mosso dal desiderio di controllo e di dominio del mondo per mezzo della razionalità ma ogni tentativo di controllo razionale è destinato a fallire a causa delle emozioni che sfociano in sentimenti irrazionali e incontrollabili. L’uomo è governato dalla contraddizione dell’apollineo/dionisiaco nietzschiano ed è proprio a causa di tale discordanza che egli dà sfogo alla propria aggressività.

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CAPITOLO 1
LA VIOLENZA E IL CINEMA

I. 1 L’immagine violenta

Il cinema pare essere l’arte in cui la rappresentazione della violenza trova più spazio e alcuni degli oggetti di violenza e di morte sembrano emblematici, uno tra i tanti è la pistola. Quante volte capita di vedere armi al cinema? Quante volte si assiste a un uomo che muore in un film? L’immagine violenta occupa una posizione centrale in tutta l’opera cinematografica. Mario Pezzella, nella sua Estetica del cinema, fa una distinzione tra due tipi di cinema: uno “spettacolare” e un altro “critico-espressivo”. Il cinema del primo tipo è quello delle grandi case di produzione. Esso è interamente basato sulla narrazione della trama, è fedele ai canoni di un genere e soprattutto tende a creare con le immagini un effetto di realtà. Lo spettatore dinanzi a un film spettacolare tende a dimenticare che ciò che sta guardando è finzione. Questo tipo di cinema presenta sempre degli stereotipi: c’è un protagonista “buono”, un antagonista “cattivo” e il film verte sullo scontro tra i due e la vittoria del protagonista. In un film siffatto, che si può definire di “intrattenimento”, l’immagine violenta serve a dare maggiore enfasi allo stereotipo del cattivo e alla soluzione finale. Il cinema critico-espressivo si oppone alla narrazione spettacolare, anche se non rinuncia al supporto narrativo:

Il cinema critico parte quasi sempre da un soggetto, da una messa in scena, da una finzione: ma essa costituisce solo il materiale iniziale […] L’universo visivo e immaginale del film prende le distanze dagli stereotipi della narrazione.

Lo spettatore, dinanzi a a questo tipo di cinema, anziché avere un atteggiamento di identificazione con il protagonista, come avviene nel cinema spettacolare, o di pensare le immagini filmiche come reali, viene indotto ad approfondire o a rielaborare tali scene. L’immagine violenta, in questo contesto, assume un altro ruolo: qui è oggetto di riflessione, è riflessione sulla violenza ed è altresì riflessione sulla rappresentazione di essa stessa per mezzo del cinema. L’immagine violenta può essere uno strumento per creare un vero e proprio shock visivo. Il set di un film è composto da luoghi, oggetti e persone (gli attori) che sono reali ma sottoposti a un processo di fantasmizzazione quando sono trasferiti sulla pellicola. I corpi e gli oggetti divengono simulacri, perdono spessore e consistenza sino a diventare ombre e luci, fantasmi per l’appunto. Artaud teorizza nel Teatro e il suo doppio che per conservare, per quanto esso sia possibile, la flagranza dell’esserci degli attori e lo sconvolgimento del loro apparire, la crudeltà rappresenta un’ottima chance. In questa logica, l’immagine violenta riesce a mettere in crisi la sicurezza del fruitore di cinema, lo sconvolge perché non riesce più a credere che essa sia soltanto un’immagine. Artaud si spinge oltre e afferma che per riuscire in questo intento la crudeltà deve essere praticata sul set. Sono parecchi i registi che hanno studiato le opere di Artaud e in certa misura hanno messo in pratica le sue prescrizioni. In Un chien andalou di Bunuel e Dalì, per esempio, la famosa scena dell’occhio tagliato da parte a parte per mezzo di un rasoio da barbiere fu eseguita tagliando un vero occhio sul set (non quello della donna ma quello di un vitello). In apparenza, quindi, l’immagine violenta in questo caso serve a creare un effetto di realtà, il quale qui non è però funzionale al filo narrativo del film, bensì pone l’accento sull’immagine violenta stessa creando un vero e proprio shock visivo. In questa maniera l’immagine violenta è epifania di un evento: quello della violenza.

I. 2 Peeping Tom
Un’antica leggenda narra che Lady Godiva amasse fare lunghe passeggiate a cavallo completamente nuda. Essa era talmente bella che nessuno osava posare il proprio sguardo su di lei. Solo un uomo, che rispondeva al nome di Tom, un giorno posò il suo sguardo sulle nudi-tà di Lady Godiva e pagò con una morte atroce l’affronto. Alcuni studiosi sostengono che questo mito sia all’origine di un’espressione molto comune in inglese, vale a dire peeping Tom, che in italiano potrebbe avere come corrispettivo “guardone” e in francese “voyeur”. Peeping Tom è anche il titolo di un film horror di Michael Powell. Nella pellicola il protagonista, con una cinepresa che nasconde un coltello, riprende il momento della morte delle proprie vittime. Brogen scrive, riguardo a questo film, che lo sguardo può uccidere, ma se è vero che lo sguardo uccide è anche vero che la morte può essere guardata, osservata, scrutata e persino filmata. La morte e la violenza quindi possono rappresentare un’attrattiva.

Scrive Sergio Givone: “Dove la violenza si è manifestata, o sta per manifestarsi, ci sono occhi ingordi.” La violenza è dunque oggetto di voyeurismo e il cinema ne è il luogo privilegiato, Pezzella nella sua Estetica del cinema scrive a proposito:

La rappresentazione cinematografica invita lo spettatore a una sorta di voyeu-rismo assoluto. La mancanza di reciprocità tra chi vede e chi è visto diviene totale, perché l’esibizione degli attori – nei limiti in cui se ne può ancora parlare – è effettuata da puri simulacri, dal delegato fantasmatico della storia. Non solo i suoi interpreti sono intangibili: ma la sua produzione reale si situa in un “prima”definitivo e inalterabile, appartiene comunque a un passato irrecuperabile.

Lo sguardo dello spettatore di cinema pertanto è uno sguardo voyeuristico libero dai sensi di colpa, perché non potrà mai essere contraccambiato dallo sguardo di un “fantasma”. Se il cinema spettacolare usa l’immagine violenta per fare abbandonare lo spettatore all’intimo piacere da voyeur e così lo riconduce al filo narrativo del film, il cinema critico-espressivo usa lo stesso voyeurismo per mettere in discussione l’oggetto dell’immagine. In ogni caso, il cinema si nutre del voyeurismo dello spettatore e uno degli oggetti del piacere del guardare paradossalmente è da sempre, senza alcun dubbio, l’immagine violenta.

2022-03-09

Aggiornamento

Ringrazio tutti i miei sostenitori, non immaginavo di raggiungere il goal così velocemente! Grazie di cuore
2022-02-09

Aggiornamento

La mia campagna sta andando bene, manca veramente poco al goal e sinceramente non immaginavo un simile sostegno. Grazie di cuore a tutti!
2022-02-07

Il mattino di Sicilia

Qui un articolo sul mio libro: https://www.ilmattinodisicilia.it/il-libro-ultraviolence-una-teoria-sulla-violenza-secondo-s-kubrick/?fbclid=IwAR0YsH--1mhgVdve1lNwdkaHPXgtxnDm5wshhlYZ25DQT2t-NwC6FLfpMb8

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Salvatore Borzellino
Classe 1978, studia e si laurea a Firenze in filosofia, specializzandosi in estetica. Allievo del filosofo Sergio Givone e grande appassionato di cinema e fotografia, grazie al fortuito incontro col filosofo Mario Pezzella, comincia a studiare le relazioni tra cinema e filosofia. Dal 2002 al 2008 collabora con la rivista filosofica Kikeion in cui pubblica diversi articoli. Si dedica per un periodo all’insegnamento per poi occuparsi di risorse umane. Attualmente collabora occasionalmente con la testata giornalistica Economy Sicilia in cui si occupa di arti.
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