Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors

Un altro cammino

Un altro cammino
100%
200 copie
completato
2%
49 copie
al prossimo obiettivo
Svuota
Quantità
Consegna prevista Aprile 2024
Bozze disponibili

Milano. 1975. Lavinia è una laureanda in psicologia.
I suoi genitori sono alto borghesi, cattolici, benpensanti.
La sua migliore amica è un’attivista di sinistra, una guerriera.
Lei è una brava ragazza. Per cliché, per estrazione, perché le sta bene così.
Solo che se non ti accorgi di un posto di blocco e tardi a frenare nel 1975, la polizia spara.
È così che Lavinia viene ferita e crollano tutte le sue sicurezze.
Un anno dopo soffre di una sindrome post traumatica che sembra inguaribile. La meditazione Kundalini arriva in quel momento, promette piacere al posto della paura, però indica una strada che passa in mezzo ad altro dolore, perché la via della guarigione porta verso il basso prima di risalire, se mai si potrà risalire…

Perché ho scritto questo libro?

A volte mi sono guardata allo specchio, e non mi riconoscevo. Che paura!
Per questo ho scritto la storia di Lavinia, anche se all’inizio non lo sapevo. Ho scritto per sfida. Niente di strano, la mia esistenza era tutta un dimostrare cose a qualcuno. Ma poi è cambiato tutto: a Lavinia hanno sparato!
Non potevo lasciarla così, né risolverla con una favola. Ho cercato UN ALTRO CAMMINO per lei, e per me. Ho potuto scriverlo perché non ne ero consapevole. Siamo state le medicine una dell’altra.

ANTEPRIMA NON EDITATA


Milano, 22 giugno 1975

Margherita rientrò in macchina, tutta rossa in viso e gesticolando, invasata dal dibattito. La fascia le era caduta dopo appena mezzora dall’inizio e ora la teneva avvolta attorno alla vita come una cintura. I capelli le sobbalzavano attorno al viso, sembravano una criniera.
“Non ce la faccio più! Sono arrivata al limite della sopportazione. Devo fare qualcosa per combattere questo qualunquismo di merda. Sta dilagando… è una pestilenza! Bisogna farla finita in qualche modo.”

Lavinia le si sedette accanto in silenzio, rassegnata. L’altra se ne accorse:
“E tu non pensare di essere esclusa, sai? Non hai detto una parola… con tutte le stronzate che hai ascoltato! Perché le hai ascoltate! Eri lì con me, abbiamo sentito le stesse cose!”
“Marghe, perché non provi a rilassarti un po’?”
Continua a leggere

Continua a leggere


Forse a causa del tono accondiscendente che le era scappato, la sua amica esplose in una delle sue filippiche sulla rivoluzione, sottolineando i punti salienti con una grattata della frizione e con sbandamenti più o meno spaventosi.
Lavinia non aveva voglia di rovinare una delle poche serate assieme. Concordava con Margherita, ma non col suo modo di affrontare le cose, e non sopportava che la sua amica la colpevolizzasse di questo. Lei faceva del suo meglio con calma e tranquillità. Che male c’era?
Si trovavano su uno di quei lunghissimi rettilinei nella campagna attorno a Milano, deserti di gente, case e anche di lampioni. I fari della Cinquecento non erano sufficienti a diradare il buio.
Lavinia intravide qualcosa in fondo alla strada, chiamò Margherita, ma lei non l’ascoltava.
Si sporse in avanti per vedere meglio.
“Marghe!” tentò ancora.
“Cosa? Che c’è?”
Indicò davanti a loro col braccio teso.
La strada ora era più visibile e anche la macchina di traverso. Qualcuno che aveva fatto un testa coda? “Che cazzo…?”
Nel buio esplose una luce azzurra.
“È un posto di blocco?” chiese Lavinia.
“Merda!”
“Rallenta!”
“Lo sto facendo, ma siamo troppo vicine!”
Videro alcune sagome muoversi verso di loro e sentirono delle urla. Lavinia si girò verso Margherita: aveva gli occhi sgranati e impallidiva.
“Oh, mio Dio, Lavi, stai giù!”
“Cosa? Perché?”

“Perché c’è la maledetta legge Reale1!” sbottò Margherita, poi le spinse giù la testa e inchiodò.
Il suono delle ruote che slittavano sull’asfalto e delle loro grida si fuse con quello degli spari.
Il lunotto anteriore andò in frantumi. Le pallottole fischiavano, la macchina girò su se stessa e la parte posteriore della fiancata venne crivellata di colpi.
La cosa non durò più di qualche secondo, ma sembrarono millenni. Quando tutto finì, il silenzio pesava quintali.
La voce di Margherita suonava ovattata:
“Lavinia! Per l’amor del cielo, stai bene?”
Lei era paralizzata e non riuscì né a rispondere, né a muoversi. Qualcuno aprì la portiera e la costrinse a uscire. Si ritrovò all’aperto, in piedi, contro la macchina.
Era viva.
La spalla destra le faceva un male insopportabile e il braccio era insensibile. C’era qualcosa di caldo e umido che le colava lungo le dita della mano.
Cadde a terra, e il grido di Margherita le fece da scivolo mentre perdeva i sensi

***

Milano, giugno 1976

La visita medica era stata la solita serie di “mi dispiace” e “sono costernato”!
Non c’era altro che potessero dirle.
Lavinia ne aveva parlato a suo padre, ma lui non voleva sentire ragioni: stava male, doveva esserci un motivo, punto!
Il motivo era la sparatoria di un anno prima.
“Sciocchezze! La spalla è guarita da un pezzo” diceva lui.
Ma il problema non aveva nulla a che fare con la spalla, né col suo corpo, che pure era malato.
Per questo ora si trovava nell’accogliente sala d’aspetto della sua analista: la psicoterapia rientrava tra le scienze che suo padre accettava… il prossimo passo era fargli accettare che nemmeno la dottoressa Broschi avrebbe potuto fare niente.
Entrò rassegnata, con le spalle curve, le occhiaie scure, e la pelle giallognola. Le mani avevano sempre un leggero tremore.
“Buongiorno, Lavinia, come ti senti oggi?”
“Buongiorno, dottoressa, forse un po’ meglio dell’ultima volta.”
Una laureanda in psicologia che mentiva alla sua analista era disarmante.
Ecco perché nemmeno la dottoressa poteva aiutarla.
Ma che altro poteva fare? Certo non dire che nulla stava cambiando, né descrivere ad alta voce la marea nera che la sommergeva quando chiudeva gli occhi.
Non era una metafora.
“Come spiega quanto le accade?” le avrebbe chiesto la Broschi, accondiscendente e calma, come coi casi gravi. Lei le avrebbe risposto che non sapeva spiegarlo. Poi lo avrebbe descritto: la marea nera sorgeva e lei non riusciva più a respirare, infine arrivavano le convulsioni.
A quel punto, la dottoressa le avrebbe spiegato in tono formale che quanto descriveva si chiamava allucinazione… sì, l’avrebbe sillabato probabilmente: al-lu-ci-na-zio-ne.
Poi le avrebbe chiesto se ne conosceva il significato.
“In effetti sì, cazzo! Quest’anno mi laureo in psicologia!” avrebbe risposto lei, forse.
Allora la dottoressa, dopo una pausa accurata, le avrebbe sorriso tenera, si sarebbe alzata e le avrebbe messo una mano sulla spalla. Con un grande sorriso le avrebbe sussurrato che non c’era possibilità che lei si laureasse.
“Prima dobbiamo risolvere questo problema” le avrebbe detto, mimando le virgolette e a bassa voce, come un segreto.
Lavinia cercò di sintonizzarsi con la dottoressa, quella vera, non quella nella sua immaginazione. “Cara, tutto bene?”
“Ehm… sì. Tutto bene, solo un po’ di affanno.”
“Sicura? Sei impallidita di colpo. Come va con le crisi respiratorie?”
“Meglio.”
Mentiva ancora.
Per fermare il nero sarebbe stato necessario respirare luce, l’ossigeno non era mica sufficiente! Che poi… che diavolo voleva dire respirare luce?!

“Perché scuoti la testa?” le chiese l’analista.
“No, è che a proposito di bloccarsi, ricordavo un episodio divertente, in cui mi trovavo in un bar e…” Era esperta in quel genere di racconto: inventato di sana pianta. Si era esercitata con suo padre, sua madre, i suoi parenti. Gli amici.
Provava un disagio crescente nel fluire delle bugie, ma anche una strana eccitazione.
Era brava, comunque, molto credibile… anche la dottoressa Broschi le credette.

***

Era dall’ultima crisi che litigavano.

Suo padre sembrava aver terminato la comprensione disponibile. Lui la chiamava pazienza. Le aveva detto un sacco di cose poco piacevoli, in un’impressionante escalation dal garbo alla più spietata crudeltà. Il succo era che i suoi erano capricci, e nient’altro.

Le aveva detto che se avesse fatto la guerra, come i suoi nonni, o se l’avesse anche solo conosciuta come avevano fatto lui e sua madre, non avrebbe fatto tante scene per un proiettile in un braccio. L’aveva chiamata in un sacco di modi. Ogni definizione adagiata in una frase ricca di paroloni, e avvolta da un tono aggraziato, nobile, elegante.

Ma non faceva comunque meno male.
Era arrivato al limite della sopportazione, e Lavinia era troppo stanca per ribattere. Ci aveva provato un paio di volte, ma lui era solo diventato più tagliente. Non capiva se il disprezzo fosse una sua sensazione o ci fosse davvero, perché suo padre non era mai stato così. Nemmeno lei, a dire il vero. Sua madre non era stata di grande aiuto. Durante le sfuriate del marito e i piagnistei della figlia, se ne stava immobile, in disparte, annichilita.
Davano la sensazione di non avere idea di cosa fare davanti a un rifiuto, dato o ricevuto che fosse, tanto meno quando il rifiuto era persistente. Non sapevano cosa fare quando le cose deviavano e poi non tornavano a posto.
Quel pomeriggio, Lavinia se ne stava seduta in sala, con un giornale sulle ginocchia. Per tutto il giorno aveva cercato di iniziare a lavorare, ma non ci era riuscita. Si sentiva inutile, la sua intera giornata le sembrava sprecata, come quella precedente e quella prima ancora, e ancora…Aveva un peso addosso, un senso di compressione sul petto. Le sembrava quasi di sentire le costole scricchiolare.
Sua madre rientrò poco prima di pranzo. Le diede cibo, da bere, poi ancora cibo. Le ronzava attorno continuamente, come se lei dovesse esplodere da un momento all’altro. Non smise neanche quando si era rifugiata in camera sua.
Suo padre le trovò ancora così, quando tornò a casa.
Rimase sulla soglia della stanza della figlia e poi sbatté la porta sbuffando.
In quel momento lei si mise a piangere. Prima in silenzio, con le lacrime che scendevano da sole, grosse come palline. Poi dalla gola iniziò a uscire un lamento. Anche quello era involontario, autonomo… vivo.
I suoi arrivarono subito, sua madre le chiese cosa stesse succedendo. Lavinia scosse la testa e andò avanti con il lamento e le lacrime. Si aggiunse il moccio al naso. Suo padre le mise in mano un fazzoletto con un’aggressività trattenuta a stento.
“Pulisciti, per l’amor del cielo!”
Lo fece, ma non riusciva a smettere di piangere. Loro volevano risposte, e lei non ne aveva nemmeno per se stessa. Più le facevano domande, più il lamento cresceva di tono. Alla fine, divenne un grido, un singhiozzo, una disperazione cantata a gran voce.
“Ma perché, Lavi, perché piangi?” continuava a chiederle sua madre, ossessiva come una vecchia al rosario delle sei.
“Vai in camera tua, se devi fare tutto questo rumore!” le ordinò suo padre.
Lavinia obbedì.
Il pavimento che li divideva, però, le porte chiuse, la sua faccia schiacciata nel cuscino non erano sufficienti ad attutire il “rumore”. Il dottor Canti, infatti, a un certo punto spalancò la porta ed entrò in camera di Lavinia come una furia.

“Adesso basta!” gridò. Lui non gridava mai. Non alzava nemmeno la voce. “Sono arrivato al limite della sopportazione!”
Lei rimase immobile per qualche secondo, la voce mozzata di colpo, gli occhi spalancati. Non si lamentava, ma nemmeno respirava.

Le lacrime non si erano mai fermate e ora al gemito si sostituì il solito rantolo di quando soffocava. “No!” gridò ancora il dottore. “Non ricominciare con questo teatrino. Ho detto basta! Basta! Basta! La devi smettere Lavinia, mi hai capito? La devi smettere!”
La prese per le spalle e la scosse. Prima piano, poi con forza.

Gli strattoni le riverberavano sul collo e facevano male. Il nodo che aveva in gola si ruppe con violenza, e ricominciò a respirare. E a piangere.
Allora lui le diede uno schiaffo.
Le lacrime le si seccarono negli occhi come ci avessero passato sopra un phon. Il lamento andò a nascondersi da qualche parte dentro di lei. Le rimase addosso una stanchezza che non immaginava si potesse provare, a cui non pensava si sopravvivesse.

Suo padre se ne accorse. Abbandonò quella strana posizione aliena dalla quale l’aveva colpita: piegato in avanti, le braccia che tracciavano linee spezzata, e così anche le dita. L’espressione che non era la sua, che qualcun altro sembrava avergli messo a forza sulla faccia. Si raddrizzò, si sistemò i capelli.

“Mi… mi dispiace! Io non…” Poi fuggì fuori dalla stanza. “Dormi!” le disse, prima di chiudere la porta.
E ancora una volta lei obbedì.

***

Margherita sorrise, un’ondata di calore dolcissimo.
“Allora, cosa posso fare per te?”
“Volevo solo vederti!”
“Certo! E poi?”
“Sto male.”
Rinunciò alla pietà, perché Margherita la fiutava come un segugio e le faceva lo stesso effetto di una bandierina a un toro.
“Che succede?” le chiese, preoccupata.
“Nulla di nuovo, il solito… ma è proprio questo il problema. Non ne esco, Marghe.”
“Andiamo al circolo” le propose, “ci facciamo una bibita e un panino, e ne parliamo. Ti va?”
Si lasciò guidare nel locale in cui Margherita passava la maggior parte delle sue serate. Ogni volta che pensava a lei, se la immaginava automaticamente a un tavolo in quello stanzone in penombra, in cui tutto era avvolto dal fumo di sigaretta.
L’ordinazione arrivò in fretta, spartana e squisita.
“È buono?” chiese Margherita. Lei annuì e sbuffò:
“Stavo pensando che forse sarei dovuta rimanere a Padova. Ci sto tutto l’anno!”
“Hai finito gli esami!”
“Sto facendo la tesi.”
“Però la tesi riguarda Milano.”
“Appunto! Forse avrei dovuto lasciar perdere Milano e restare là… questa città è troppo grande!” “In effetti, avresti potuto rintanarti nel tuo buco, zitta zitta, a fissare un muro bianco e a fingere di fare qualcosa di utile per il mondo.”
“Perché devi essere sempre così crudele?”
“Non sono crudele, sono diretta. Mi sei venuta a cercare per questo, no? Se avessi voluto le coccole te ne saresti stata a casa coi tuoi.” Le prese una mano e la strinse: “È la verità, che vuoi. E io sono d’accordo.” Lavinia rimase a guardarsi la mano stretta tra le dita dell’amica e prese un respiro profondo. “Sei d’accordo su cosa?”
“Sul fatto che il tuo problema sia collegato alle bugie di cui ti nutri tutti i giorni.”
Strappò la mano dalla presa e si lasciò cadere contro lo schienale della sedia.

“Non dico mai bugie!”
“Davvero?”
“Secondo te posso dire ai dottori quello che mi passa per la testa? Mi etichetterebbero, come una pazza maniaca!”
“Non sto parlando di quello.”
“E di cosa?”
“Del piccolo mondo in cui dici di voler vivere.”
“Ma di che parli?”
“Oh Lavinia! Hai tutto quello che desideri?”
“Sì!”
“E allora perché stai male?”
Prese il bicchiere di bibita e lo vuotò per metà, poi lo riappoggiò, sbattendolo:
“Perché mi hanno sparato, ecco perché!”
Margherita sobbalzò appena.
“Hanno sparato anche a me e anch’io sono stata male… non trattarmi come se non capissi cosa stai provando.”
Margherita si era trovata a fare i conti con la sua attitudine a trascinare con sé le persone senza pensare ai risultati, e si era sentita in colpa. Lavinia le aveva giurato di non ritenerla responsabile, ma non valeva lo stesso per lei.
Non aveva pensato al posto di blocco, non l’aveva avvisata dell’eventualità di incontrarne uno e non si era fermata in tempo. L’unica cosa di cui non si sentiva colpevole erano gli spari.
“Quelli sono un affare della polizia e dello Stato che l’ha armata.” Così aveva detto.
Nell’accettare le sue responsabilità, Margherita era guarita.
“È passato un anno, Lavi… non è più quella la causa dei tuoi problemi!”
“E dimmi, signorina Jung-dei-poveri-so-tutto-io… quale sarebbe la causa?”
“Vedi?”
“Cosa?”
“Che il tuo spirito non è morto! La causa, Lavinia Canti, sta nel fatto che il tuo cuore e la tua prodigiosa mente se ne vanno in due direzioni diverse.”
“Il mio cuore? Sul serio?”
“Sì. Il tuo cuore. Il tuo istinto, la tua pancia, chiamala come cazzo vuoi.”
Attese in silenzio, poi sbuffò:
“Ci sono un miliardo di cose che vorresti fare, ma non le fai perché quella merda di giudice che hai nel cervello scuote la testa e ti dice che sono sbagliate. E te lo dice non perché siano sbagliate davvero, ma perché non si adattano allo schema da pazza maniaca in cui hai incasellato la tua vita. Te ne stai al sicuro nel tuo piccolo recinto, poi una sparatoria lo distrugge ed ecco che ti guardi indietro, e quello che vedi ti piace talmente poco che ti butta nel panico.”
Lavinia impallidiva:
“Non vado nel panico quando penso alla mia vita, ci vado quando faccio cose quotidiane… quando dormo.”

“Certo! Perché in quei momenti, il Giudice-bastardo si distrae e la vera Lavinia soffoca.”
Si fissarono in silenzio finché finirono bibita e panini, poi Lavinia sospirò:
“Dovevi andarci tu a Padova a studiare psicologia.”
“Ma per favore! Che mi serve studiare psicologia? Io la capisco già la mente delle persone. Sei tu che non ci capisci un cazzo!”

“Grazie…”
“Prego! È importante che tu lo sappia, così puoi correre ai ripari.”
“Cioè?”
“Meno libri e più pancia.”
Lavinia sbuffò:
“Ancora la pancia! Come diavolo si fa a ragionare con la pancia?”
“Non lo so. Si fa e basta!”
Una ragazza con una montagna di ricci color miele tenuti a bada da una fusciacca verde scuro, si avvicinò.
“Ciao.”
“Paola!” Un sorriso immenso e Margherita si alzò ad abbracciarla, poi le diede un lungo bacio sulla bocca… entusiasticamente ricambiato. Lavinia abbassò gli occhi, imbarazzata.
“Come stai? Dove sei stata?” chiese Margherita.
“In Sud Italia, ho fatto un giro tra i siti archeologici più famosi.”
La guardava sognante, poi si ricordò di Lavinia:
“Oh, scusate, che stupida! Lavi, questa è Paola, studia restauro e storia dell’Arte.”
Si presentarono. La ragazza aveva occhi profondi come pozze d’acqua marina.
“Ho visto Alberto ieri. Sai che quella tua Prem è tornata?” disse a Margherita.
“Davvero?”
“E si è messa a tenere corsi di meditazione!”
Quella meditazione?”
Paola annuì con aria complice e l’espressione di Margherita all’improvviso divenne quasi ferina. “Ti ritrovo qui, più tardi?”
“Ci vediamo a casa tua.”
“Ti sei decisa?”
“Forse.”
Si scambiarono uno sguardo profondo, intimo, poi un altro bacio.
Margherita attese che Paola se ne andasse, osservandola fino all’ultimo secondo, poi si rivolse a Lavinia con un entusiasmo nuovo di zecca:
“Ti rendi conto? È destino!”
“Di che parli?”
“Di Prem… Prem Lahari.”
“Chi?”
“La mia maestra di yoga, ricordi?”
“Oh, la santona?”
“Non è una santona! Ed è stata in India…” La guardò come se quelle parole spiegassero tutto.
“Ha soggiornato da Osho e ha imparato la Kundalini.”
“Osho è quello del sesso?”
“È quello che potrebbe aiutarti a usare la pancia!”
“E come?”
“Vieni con me da Prem, fai la Meditazione e lo scopriamo.”
“Non se ne parla!”
Margherita spinse la sedia indietro e si alzò.
“Sai che c’è? Fai come vuoi, rimani in questa situazione, non provare nulla di nuovo… affoga!” “No, aspetta… va bene. Ci provo.”

Si disse che sicuramente quella sarebbe stata l’ennesima strada senza uscita.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

Commenti

Ancora non ci sono recensioni.

Recensisci per primo “Un altro cammino”

Condividi
Tweet
WhatsApp
Francesca De Blasi
Sono nata nel 1981.
Vivo e lavoro a Cinisello Balsamo.
Diplomata al liceo classico, ho conseguito la laurea magistrale in Lettere Classiche con un curriculum archeologico.
Faccio l’insegnante di materie umanistiche dal 2006. Nel 2012 mi sono formata come Mediatrice Feuerstein e da allora mi dedico anche al potenziamento cognitivo e al sostegno allo studio.
Ho fatto tre anni di formazione presso un’accademia di studi olistici e ho appena concluso un Master di primo livello all’Università di Udine dal titolo “Master in studi di Partnership e Sciamanesimo – Letteratura, Psicologia e Società.”
Sono appassionata di divulgazione letteraria e di studi danteschi e da quattro anni porto il mio lavoro nelle scuole. Ho fatto anche interventi e performance per diverse associazioni culturali e per il comune della mia città.
Francesca De Blasi on FacebookFrancesca De Blasi on Instagram
Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors