Milano, 1975. Margherita e Lavinia sono migliori amiche da sempre, ma il loro approccio al fermento politico e culturale è molto diverso: la prima è fermamente convinta che servano cambiamenti radicali, spesso portati da atti violenti; la seconda viene da una famiglia borghese e, anche se vorrebbe cambiare le cose, ancora non ha trovato la sua strada, protetta dai privilegi in cui è cresciuta.
Dopo una sparatoria in cui è stata ferita, tutte le certezze di Lavinia però crollano e lei si ritrova a fare i conti con una realtà molto diversa da quella in cui è cresciuta. Convinta ormai di non poter superare il trauma, conosce Prem, l’insegnante di meditazione di Margherita, che le farà scoprire l’energia che ognuno ha dentro di sé. A risvegliarsi in Lavinia, però, non è solo una nuova vitalità, ma anche la consapevolezza di ciò che deve fare per trovare il suo posto nel mondo.
PROLOGO
Milano, 22 giugno 1975
Lavinia fissava il suo riflesso nello specchio. Sistemò una piega nel tessuto scozzese della gonna e seguì una delle linee grigio chiaro che disegnavano i quadrettoni, fino ad arrivare alla cintura troppo allentata. Tolse lo spillone e lo accomodò in modo che la gonna aderisse al corpo, sottolineando la vita stretta. Ora si potevano indovinare i fianchi, morbidi.
Alzò una mano verso la camicia, sbilanciata da un lato. Sistemò anche quella, perché mascherasse il seno; poi chiuse il bottone più in alto, bianco, a forma di perla.
Era la copia vivente dei cliché del mondo borghese, glielo dicevano spesso in università. Lei non li smentiva, perché era la pura verità. Quei cliché la facevano stare al sicuro.
Aveva imparato lo stile da sua madre, suo padre lo approvava, ad alta voce, come si fa con i bambini. I bravi bambini. E lei voleva disperatamente essere brava.
Continua a leggere
I suoi occhi marrone chiaro la guardavano dallo specchio.
Avrebbero potuto essere occhi incredibili, se solo lei glielo avesse permesso. Una volta qualcuno le aveva detto che erano magnetici. Da allora guardava sempre in basso, o altrove.
Recuperò il golfino blu, in tinta con la gonna, e se lo infilò.
Era un’operazione che faceva senza pensare: sistemava la camicia lungo il girocollo e chiudeva il piccolo bottoncino di madreperla.
Si controllò di nuovo allo specchio: la gonna, le calze, le scarpe. Tutto blu, tutto scuro. Si sbottonò la camicia, con un movimento improvviso, come quando ti rimane qualcosa in gola.
Sentì suonare il campanello. Il trillo veniva dal fondo del lungo corridoio oltre la sua porta chiusa, ma sembrava proprio di fianco al suo orecchio.
Diede le spalle allo specchio e fuggì dalla sua stanza.
«Salve, dottor Canti. Come sta, signora Canti?» sentì dire.
«Margherita, ma è possibile che ancora mi chiami così?
Quante volte te lo devo ripetere? Gabriella! Mi chiamo Gabriella! Santo cielo, ti conosco da quanto? Vent’anni?» «Giorno più, giorno meno. Ha ragione sa, ma che ci posso fare… è più forte di me.»
Lavinia assistette, nascosta, lasciandosi consolare dalla scena: era sempre la stessa. Anche la sua amica lo era, fin da quando l’aveva conosciuta in prima elementare, diciotto anni prima per la precisione.
Non esisteva creatura più diversa da lei, né qualcuno a cui volesse più bene.
Lasciò che un sorriso le facesse capolino sulle labbra e varcò il sipario d’ombra che separava lo spazio dei suoi rimuginare da tutto il resto: «Ciao!».
«Lavi, tesoro!»
Il sorriso di Margherita sapeva rimetterla in pace col mondo. Suo padre si ritirò in salotto, la madre rimase un attimo in più e lei le diede un bacio. Poi seguì la sua amica fuori di casa.
Con una ruota sopra al marciapiede, c’era una Cinquecento di un violento color arancio. Lavinia alzò le sopracciglia e Margherita sghignazzò: «Sei noiosa, lo sai? È sempre la mia macchina ed è sempre arancione».
«Be’, è sempre un pugno in un occhio.»
Ed ecco la risata, grassa, piena. Lei non sapeva ridere in quel modo, Margherita non sapeva farlo in un altro. Quello scampanio libero e selvaggio si adattava ai capelli mossi sciolti, alla fascia di cotone annodata sotto la nuca, alla gonna lunga, nera, costellata da fiori gialli e arancioni… lo stesso arancione della macchina e della maglietta di finto tessuto indiano.
Entrò in macchina e chiuse la portiera.
«Hai intenzione di guidare con gli zoccoli?»
«E tu di andare in giro con quello chignon da istitutrice nazista?»
Lavinia strinse gli occhi e le fece una smorfia. «Se devo prendere appunti, sono più comoda con i capelli raccolti!» «Scusami?!» Margherita sbandò, poi si girò verso di lei. «Guarda che non stiamo andando all’università!»
«Si parla dei consultori, no?»
«Sì, ma è un dibattito… sull’emancipazione femminile, hai
presente?»
«Ho presente, sì! È per quello che corro l’immenso rischio di andare in giro con te, per raccogliere notizie utili per la mia tesi! Come faccio a ricordarmele, se non me le scrivo?»
«Il rischio? Il rischio di cosa? Di divertirti invece che ammuffire di noia?»
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.