Maria era una ragazza dai modi poco disinvolti, enormi occhi azzurri dallo sguardo soffice e capelli biondi che le rigavano il volto come raggi di luce. Viveva in un monolocale anonimo, nessuna fotografia in cornice né oggetti personali, come se volesse tenere accuratamente nascosta la sua intimità pure a se stessa, cosa strana per una cantante. Lavorava in un locale di musica dal vivo, dove ogni giovedì sera si esibiva davanti a un pubblico appassionato, ma anche a spettatori casuali che, visto il basso prezzo dell’ingresso, si lasciavano coinvolgere dall’atmosfera. Aveva una voce incredibile, piena, ricca, come se si appoggiasse con brio sulle note, per poi adagiarsi sulla melodia più malinconica. Con quel volto angelico avrebbe potuto nascondere intenti spietati e nessuno se ne sarebbe accorto; invece, lontana da ogni cattiveria o frivolezza, quando la sua voce di velluto interpretava brani di jazz, gli ascoltatori si mettevano a proprio agio come per incanto, ammaliati dalla purezza del suono. La chiamavano l’Angelo ma non seppe mai se ciò fosse dovuto alla sua voce incredibile o al suo viso serafico incorniciato da capelli biondi, la pelle diafana come una bambola di porcellana.
Il dolore fra le scapole non le dava tregua. Aveva l’impressione di avere un coltello infuocato conficcato nella schiena e avvertiva un tremendo bruciore. Era scossa da una bufera interiore, come un vulcano in eruzione. Seduta a un tavolo di legno faceva colazione, ovviamente sola nella stanza spoglia. Dall’unica grande finestra entrava la luce del mattino che colava sulla sua testa quasi ritagliandola dallo sfondo scuro della parete nuda dietro di lei. Uno spiffero le spostò una ciocca di capelli.
Che il vetro sia rotto? si chiese. Guardò la stanza come se la vedesse per la prima volta: gli arredi decisamente modesti, un tappeto sbiadito sul pavimento, un cesto di vimini in un angolo con le riviste del locale in cui cantava, la cornice rovinata di uno specchio che pareva non riflettere nulla. L’unico tocco di colore era la fila di piastrelle quadrate di ceramica che correvano sul battiscopa; fra i disegni azzurri si riconoscevano delle frecce lanciate forse da un cupido nascosto fra ombre di nuvole. Mescolava il caffè muovendo il cucchiaino dall’alto verso il basso, anche se non aveva aggiunto lo zucchero. Le palpebre abbassate sulla tazzina, assorta in quel movimento circolare, pareva quasi aver bloccato il tempo; un attimo insignificante, eppure così dilatato all’infinito da custodire il segreto della sua intera esistenza. In preda a una specie di delirio controllato, alzò gli occhi e guardò la parete spoglia davanti a sé.
Delle tracce di passato affioravano alla superficie: un chiodo, il buco di un altro chiodo, segni di colla che non erano svaniti, avevano anzi in parte scrostato l’intonaco dopo maldestri tentativi di eliminarli. Erano impronte reali e insieme ricordi.
Un tempo c’era una carta geografica, a suggerire la presenza del mondo esterno, la foto di sua madre, manifesti con dediche scarabocchiate. Aveva eliminato ogni cosa, come se tutto il mondo fosse lì, annegato nel suo caffè nero, in quel gesto ripetitivo che metteva la vita in pausa. Il chiodo però c’era, si vedeva, come il buco e come il segno di adesivo. Quelli restavano a raccontare il vuoto dell’assenza, le ferite, lo sbriciolarsi della superficie su cui si posa la carezza polverosa del tempo. Con la punta dell’indice tracciò dei solchi nella patina che copriva il tavolo, come se scrivesse i suoi pensieri.
Nonostante fosse un po’ impedita nei movimenti a causa del dolore persistente, riuscì a vestirsi. Indossava abiti smessi, capaci di reggere anche il suo umore peggiore. La camicia gialla si confondeva con i capelli che frusciavano come sabbia fra le dita. Teneva le maniche rimboccate, la stoffa dei pantaloni era sgualcita. Quell’impressione di logoro e trasandato faceva parte del suo modo di essere, incurante del giudizio altrui, eppure, forse anche per il suo portamento disinvolto, aveva la dignità di una regina.
«Chi le confeziona gli abiti?» le aveva chiesto con ironia uno spettatore una sera.
«Nessuno, li faccio io stessa. A volte però li compro dalle migliori modiste» aveva risposto, esorcizzando il momento con una gran risata. La luce spietata di quelle parole aveva spento all’istante il sorriso malizioso sul volto dell’interlocutore, curvando le sue labbra in una smorfia artificiale. Non era la prima volta che le sue risposte taglienti intaccavano la sicurezza di qualche malcapitato.
Si avvolse nella sua sciarpa preferita e uscì in strada. Camminando con passo lesto per riscaldarsi, quasi inciampò per evitare un uccellino che zampettava malamente sul marciapiede.
Dev’essere caduto dal nido poverino, pensò raccogliendo quel piccolo frammento di vita pigolante, prima che altri passanti lo schiacciassero. Un uomo che passava in quel momento le lanciò un’occhiata perplessa nel vederla armeggiare fra le foglie nel tentativo di deporre la creatura al sicuro. La fragilità di quelle alucce infantili aveva una strana familiarità con la sensazione che provava da quando si era svegliata, come se schiacciando un bottone qualcuno avesse attivato un congegno interiore. Una fitta più forte delle altre la costrinse a rincasare.
Una volta al riparo da sguardi indiscreti, dopo essersi tolta la camicia, guardandosi di profilo allo specchio e sforzandosi di raggiungere quel punto doloroso fra le scapole, gridò di stupore quando vide due piccole estremità pennute. Come foglie di primavera appena spuntate, sulla schiena erano comparse due piccole ali!
Elena Bortuzzo (proprietario verificato)
Ambienti surreali, magie che diventano realtà, pensieri che scorrono in uno “stream of consciousness” dei personaggi, molto ben descritto dall’autrice che ci regala così forti emozioni.
Una lettura entusiasmante, ricca di sorprese. L’autrice rende l’ordinario straordinario. Consiglio l’acquisto di questo libro!
Elisa Monardo (proprietario verificato)
Molto bello, lo consiglio!! Soprattutto a chi ama immergersi nella magia di storie profondamente simboliche e ricche di rimandi letterari. È scritto benissimo, è immaginifico e scorrevole, come una bella passeggiata nei sogni! Ogni racconto dischiude un mondo, un sapore, un’emozione che permangono a lungo, tra i pensieri e nell’animo. Un incantesimo!
Barbara (proprietario verificato)
Dove vanno a finire le innumerevoli immagini che la nostra irrefrenabile fantasia riesce a produrre? E i mille pensieri che si rincorrono, giorno e notte, nella nostra mente? L’autrice dimostra di saper abilmente catturare le proprie visioni e sensazioni restituendoci atmosfere talvolta dense, talvolta fluide, ma sempre cariche di molteplici significati e inattesi stati d’animo.
“Das Ewig-Weibliche zieht uns hinan”, “L’eterno femminino ci trae in alto”, afferma Goethe, e, in qualche modo, le figure femminili presentate in questi racconti sembrano voler confermare, attraverso le proprie esperienze ed il proprio sentire, la natura salvifica ed elevatrice del “femminile”.
La realtà, trasfigurata dalla capacità percettiva e intuitiva dell’autrice, ci svela così i sui volti più nascosti.
Una lettura assolutamente consigliata, che trasporterà il lettore in una dimensione senza dubbio diversa, “altra”, eppure, in fondo, così vera.