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Un biglietto per Altrove

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Consegna prevista Aprile 2026
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E se la tua vita potesse dividersi in due? Una resta. L’altra parte. Ma quale delle due sei davvero tu?
Giulia ha tutto ciò che serve per sentirsi tranquilla: un lavoro sicuro, una casa a Milano, affetti solidi. Ma qualcosa le manca. Quel “qualcosa” ha il profilo brillante di Seoul, il suono dolce di una lingua straniera e il brivido di un sogno coltivato in silenzio.
Quando le arriva un’offerta irrinunciabile – sei mesi come traduttrice in Corea del Sud – è il momento di scegliere. Ma come si fa a decidere tra ciò che rassicura e ciò che fa battere il cuore?
Un biglietto per Altrove racconta due versioni della stessa vita, in un intreccio di emozioni, paure, sogni e piccole rivoluzioni quotidiane. Attraverso Milano e Seoul scopriamo che ogni scelta costruisce una strada. E che forse, non esiste un’unica via giusta, ma solo il coraggio di viverla fino in fondo.
Un romanzo per chi ha avuto paura. Per chi ha sperato. E per chi sa che a volte, il vero viaggio è dentro di sé.

Perché ho scritto questo libro?

Ho scritto questo romanzo perché, in fondo, racconta la vita che avrei voluto vivere.
Nessuno di noi può davvero dividere la propria esistenza in due strade diverse e percorrerle entrambe. Ma io ho provato a immaginarlo, a renderlo possibile almeno sulla pagina.
Ogni giorno, per mille ragioni, ci sentiamo intrappolati. Io ho cercato una via d’uscita dalla mia. E scrivere questa storia è stato il mio modo per respirare.

ANTEPRIMA NON EDITATA

CAPITOLO 1

RIAMANERE O PARTIRE?

“Rimanere o partire?”
Continuavo a ripetermi questa domanda, come se farlo potesse far magicamente apparire una risposta, una rivelazione improvvisa che mi salvasse da quel tormento. Ma niente, solo il ticchettio dell’orologio nella cucina. Un suono monotono, meccanico, che sembrava farsi sempre più insistente, come a sottolineare il tempo che passava, inesorabile.

Il caffè davanti a me era ormai freddo, una pozza nera che rifletteva il neon della cucina. Non mi ero neanche accorta di averlo preparato.

Sul tavolo, due fogli di carta mi fissavano. Non erano solo fogli: erano due pezzi di futuro, due vite completamente diverse che sembravano sfidarsi, come pugili in un ring.
Da una parte, la lettera con l’intestazione elegante e il logo del programma di scambio culturale a Seoul. Una delle migliori case editrici della Corea mi aveva offerto un’opportunità straordinaria: sei mesi come traduttrice. Non era solo un lavoro. Era la mia occasione per vivere in una città che avevo sognato per anni, per immergermi in una cultura che adoravo e che avevo studiato con passione. Era tutto quello che desideravo.

Dall’altra parte, il contratto della scuola dove insegnavo da quattro anni. Stabile. Sicuro. Prevedibile. Ogni riga di quel documento urlava “ragionevolezza”. La mia famiglia lo avrebbe approvato senza esitazioni. I miei colleghi avrebbero detto che era una scelta matura.

“Giulia, pensa alla sicurezza” mi risuonò nella testa la voce di mia madre. “Avere un lavoro stabile è fondamentale. Non buttarti in cose strane”.

Mi venne da ridere, ma era una risata secca, amara. “Non buttarti in cose strane”. Era la sua frase preferita. Un mantra che mi aveva ripetuto in ogni decisione importante: dal liceo alla scelta dell’università, fino alla casa che avevo affittato a Milano. Ma questa volta non riuscivo a ignorare quanto quelle parole mi stessero strette.

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Mi alzai e mi avvicinai alla finestra. La pioggia colava sui vetri, disegnando scie tremolanti. Nonostante l’estate che si stava avvicinando, Milano era grigia, come sempre. Un uomo con un ombrello rosso correva sul marciapiede, le auto scivolavano sull’asfalto bagnato, i clacson rompevano il silenzio con quella familiarità quasi fastidiosa. Tutto normale.

Ma io? Io non mi sentivo normale. Mi sentivo come se stessi vivendo la vita di qualcun altro, intrappolata in una routine che mi stava divorando. Gli stessi autobus ogni mattina, le stesse facce sonnolente, gli stessi discorsi. Era davvero questa la vita che volevo? Oppure il fatto che stessi ancora facendo questa domanda era già la risposta?

Il mio telefono vibrò sul tavolo, spezzando i miei pensieri. Era un trillo improvviso, quasi violento, che mi fece sobbalzare. Lo presi con un sospiro. Sapevo già chi fosse. Era mia madre.

“Allora, hai deciso? Non dimenticare che il lavoro alla scuola è una certezza. Non buttarti in cose strane. Ti voglio bene”.

Posai il telefono accanto alla lettera e al contratto, come se aggiungere quel messaggio al caos sul tavolo potesse chiarirmi le idee. Non aiutava.

La verità è che avevo già deciso, almeno una parte di me. Lo avevo deciso mesi fa, quando avevo compilato la domanda per il programma di scambio. Inviare la domanda era stato facile, non avevo un curriculum più interessante della media e i miei ventotto anni mi rendevano una possibile candidata per il rotto della cuffia. Ero praticamente sicura che non mi avrebbero accettata,  ma quando, due settimane prima, avevo trovato nella posta una lettera da Seoul il mio cuore aveva sobbalzato. Trattenni il respiro mentre con voracità tentavo di aprire la busta, i miei occhi passarono sillaba per sillaba il contenuto e quando si posarono su “La sua domanda di partecipare al programma è stata accettata” il mio respiro esplose e dei gridolini pieni di gioia mi uscirono dalla bocca ancora ansimante.

Trenta secondi fu il tempo che mi servì per rendermi conto che ero fregata.

Ora avrei dovuto scegliere per davvero.

Il suono del citofono mi fece sobbalzare. Mi diressi alla porta e dalla telecamera scorsi il viso sorridente di Andrea, mio amico e unico collega preferito. Aprii senza pensarci e, pochi secondi dopo, lui entrò nella mia cucina con il suo solito sorriso ironico e una bottiglia di vino sottobraccio.

“Di solito portiamo il vino solo nelle occasioni speciali. Quale sarebbe di preciso?” chiesi seriamente incuriosita.

“Dobbiamo assolutamente porre fine alla tua situazione” disse, mettendo la bottiglia sul tavolo e osservando la scena: il caffè freddo, i fogli sparsi e la mia faccia esausta. “Non puoi stare così per sempre. Decidiamo ora e appena avremmo fatto stappiamo questa bottiglia comprata in saldo al negozio qui sotto”.

Lo guardai, sospirando, ma non potei fare a meno di ridere. “Pensi davvero che possa decidere nei prossimi due minuti se non ci sono riuscita nelle ultime due settimane?”.

“Ti ho lasciata sola per non influenzare le tue scelte ma è chiaramente arrivato il momento” rispose sedendosi accanto a me. “Sei lì da settimane, Giulia. E sai cosa penso? La tua indecisione non è un problema di scelte. È paura”.

Non risposi subito ma istintivamente alzai gli occhi al cielo. Il problema non era solo scegliere tra due opzioni, ma affrontare tutto quello che quella scelta avrebbe significato. Ero davvero pronta a rischiare tutto per andare a Seoul solo sei mesi? E se avessi fallito? Ma allo stesso tempo, potevo sopportare di restare, sapendo che avrei sempre rimpianto di non essere partita?

Rimanere o partire. Le due parole ronzavano ancora nella mia testa mentre Andrea apriva la bottiglia di vino con un ottimismo snervante.

Che stesse scherzano o meno,  aveva ragione, avrei dovuto decidere presto. Forse quella sera. Forse prima che le lancette dell’orologio facessero un altro giro completo.

CAPITOLO 2

PARTIRE

Avevo firmato il contratto del programma di scambio con la stessa sensazione che si prova quando si salta da un trampolino: paura, eccitazione e quel brivido incontrollabile che attraversa le viscere. Il momento in cui la penna aveva toccato il foglio era stato liberatorio e terrificante allo stesso tempo. L’avevo fatto, davvero. Ma il sollievo durò poco.

La partenza era fissata per il dieci di giugno, il che significava che mi restavano poco meno di tre settimane per organizzare i prossimi sei mesi della mia vita.

Avrei dovuto comunicare alla scuola le mie dimissioni e sperare che trovassero subito una sostituta, non volevo lasciare niente irrisolto. Nonostante mi fossi informata, in passato, sulla città, avrei dovuto studiarla bene per conoscere i mezzi di trasporto e organizzarmi su come sarei andata al lavoro ogni giorno. Sarei andata a piedi? In autobus? O in metro? Il mio livello di coreano era sufficiente per parlare con i colleghi? Mi avrebbero presa in giro per le mie pronunce o io mi sarei chiusa a riccio per paura di sbagliare? La testa mi stava esplodendo, dovevo mettermi al lavoro subito per tenermi occupata e non farmi prendere dal panico.

La sera in cui Andrea si presentò a casa mia, il suo piano di farmi prendere una decisione si rivelò geniale nella sua semplicità. Aveva versato un bicchiere di vino con una disinvoltura che sembrava studiata, e io lo scolai in un sorso, più per spegnere i pensieri che per il piacere del gesto. Non fece una piega e riempì nuovamente il bicchiere, senza chiedere.

“Il tuo piano è farmi ubriacare?” gli chiesi, cercando di mascherare il lieve ondeggiare del mio equilibrio emotivo dietro un sorriso scherzoso. Mi appoggiai a lui, come se quella vicinanza potesse darmi stabilità.

“Il mio piano è alleggerirti” confessò. “È davvero troppo tempo che ti porti dietro questa indecisione, e il tuo umore ne sta risentendo. Basta, allora! Beviamo e poi decidi cosa fare.”

C’era una semplicità disarmante nelle sue parole, e per un attimo mi chiesi come mai non ci avessi pensato prima. Lasciare che il peso di una scelta si sciogliesse in quel liquido ambrato sembrava quasi poetico. Lo assecondai, non tanto perché convinta dalla logica, quanto perché non vedevo altre opzioni all’orizzonte.

Man mano che il vino fluiva, i miei pensieri sembravano perdere il loro peso specifico. Era come se le catene invisibili che mi tenevano ferma al bivio si stessero allentando. Alla fine, qualcosa dentro di me si mosse, come un meccanismo arrugginito che riprende vita dopo anni di inattività.

Non chiamai subito i miei genitori, però. Anche in quello stato di ebbrezza lucida, sapevo che sarebbe stata una pessima idea. Mia madre avrebbe immediatamente capito che c’era qualcosa che non andava – le bastava una sola parola stonata per leggermi dentro – e non volevo darle il piacere di un interrogatorio precoce. Così decisi di aspettare il giorno seguente.

Ogni domenica pranzavo dai miei, ed ero sicura che una volta messo piede in casa non avrei avuto scampo.

Mio padre, come sempre, sarebbe stato attento ma discreto. La sua presenza era un porto sicuro, una costante che non chiedeva nulla ma offriva tutto.

Mia madre, invece, era l’opposto. Diretta, quasi invadente, ma mai in modo malizioso. La sua curiosità era genuina, un riflesso del suo amore per me. Non si sentiva mai indiscreta – e in fondo, come avrebbe potuto? Era solita ricordarmi, con una punta di ironia che non lasciava spazio alla replica, che mi aveva creata. E questo, secondo la sua logica, le dava ogni diritto di sapere tutto. Non potevo neanche darle torto.

Quella sera, però, non pensai alle sue domande. Pensai solo alla sensazione che finalmente avevo preso una decisione, anche se ancora non la possedevo del tutto. La consapevolezza sarebbe arrivata con la luce del mattino, insieme a un leggero mal di testa e al profumo del caffè. E allora, forse, avrei trovato le parole per affrontare quella tempesta di domande che mi aspettava.

Il giorno seguente, in tarda mattinata, mi ritrovai ferma qualche secondo davanti al citofono di casa dei miei genitori. Le mani tremavano appena, forse per l’emozione, forse per la leggera brezza che scuoteva i rami degli alberi. Presi una boccata d’aria fresca, quasi cercando di inspirare un po’ di coraggio, e finalmente suonai.

Dall’altro lato ci fu un momento di silenzio prima del familiare ronzio che sbloccava il cancello. La mia mano esitò ancora un istante prima di spingere la porta, come se quel gesto avesse il potere di cambiare qualcosa di fondamentale. Quando varcai la soglia, mi colpì il silenzio che regnava nella casa. Era strano e innaturale. La mia mente corse subito a mille ipotesi, ma prima che il panico prendesse piede, Oxa, l’enorme pastore tedesco che avevamo da anni, apparve da dietro l’angolo. Con la sua coda che sbatteva furiosamente a destra e a sinistra, mi accolse con un entusiasmo che non aveva mai perso negli anni, richiedendo quante più coccole possibili. Mi chinai per accarezzarla, e subito pensai che presto avrei dovuto salutare anche lei.

“C’è nessuno?” chiesi in tono preoccupato, lasciandomi cullare dall’eco della mia voce nella casa vuota. Per un attimo, tutto rimase immobile. Poi una voce lontana, quasi ovattata, rispose: “Siamo di sopra! Ora scendiamo”. Il suono di mio padre mi rassicurò. Veniva dalla soffitta.

Mi alzai e aspettai, osservando la scala che collegava i piani. Pochi istanti dopo, li vidi scendere insieme. Papà portava in braccio due valigie: una talmente grande che avrei potuto starci dentro senza difficoltà e l’altra appena più piccola, ma altrettanto robusta.

“Avete organizzato un viaggio e io non ne so niente?” domandai, cercando di mascherare la mia sorpresa con un tono scherzoso. Il mio sguardo si soffermò sulle valigie, due oggetti che non avevo mai visto prima, e un lieve senso di inquietudine si insinuò tra i miei pensieri.

“Oh no, Giuli. Queste sono per te” disse papà, posandole ai suoi piedi con un sorriso enigmatico.

Le mie sopracciglia si alzarono istintivamente. I miei occhi si puntarono subito sul volto dolce di mia madre, cercando spiegazioni. “Per me?” chiesi, titubante.

Mia madre annuì, le sue spalle si mossero in un piccolo gesto di nonchalance. “Se avessi deciso di rimanere ci avresti mandato un semplice messaggio” disse lei, la voce calma ma intrisa di quella logica inconfutabile che solo una madre sa usare. “Ma non avendo ricevuto niente, abbiamo immaginato quale fosse stata la tua decisione. Quando parti?”

La sua domanda, così diretta, mi lasciò senza parole. Rimasi in silenzio per un attimo, ripensando alle sue parole e alle scelte che avevo fatto la sera precedente. Alla fine, con un lungo sospiro, trovai la forza di rispondere. “Parto il dieci giugno” dissi, con un filo di voce che sembrava quasi appartenere a qualcun altro.

“Oh tesoro! Sono così fiera di te!” esclamò mia madre, facendo un passo verso di me. Mi avvolse in un abbraccio così caloroso che quasi persi l’equilibrio. Il suo entusiasmo mi travolse.

“Ma se continuavi a ricordarmi di non fare cose avventate” ribattei, cercando di mascherare l’emozione con una punta di ironia.

Lei rise, una risata leggera e cristallina, e mi accarezzò una guancia con un gesto così familiare da farmi stringere il cuore. “È vero” ammise, “ma a volte, la cosa più avventata che puoi fare è rimanere”.

Le sue parole rimasero sospese nell’aria per un attimo, così potenti e vere che mi chiesi come avessi potuto non vederlo prima. In quella frase c’era tutto: il timore, l’amore e il sostegno che solo lei poteva darmi. Guardai le valigie accanto a noi e, per la prima volta, le vidi non come un peso, ma come la promessa di un nuovo inizio.

Dopo il momento intenso con i miei genitori, la giornata sembrava scorrere in un turbine di emozioni e pensieri. Tornai a casa con le valigie e con l’idea che presto le avrei riempite.

Seoul. Una parola che fino a poco tempo prima era soltanto una città lontana su una mappa, ora diventava il mio futuro.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Arianna Pradella
Arianna Pradella (Mantova, 1997) è al suo esordio narrativo con il romanzo "Un biglietto per Altrove".
Di professione impiegata, ha scelto la scrittura come via privilegiata per dare forma al mondo che desidera: un luogo in cui la mente può viaggiare libera, anche quando i piedi restano saldamente ancorati alla realtà quotidiana.
Attraverso costanza e sensibilità, Arianna ha saputo trasformare emozioni e suggestioni in un’opera che condivide la stessa età – 28 anni – della sua protagonista, con la quale condivide anche il bisogno intimo di scoprire, emozionarsi ed evadere.
Con questo primo romanzo, che spera non sarà l’ultimo, Arianna offre ai lettori non soltanto una storia, ma un’esperienza: quella di partire con la fantasia, acquistando un biglietto per un “Altrove” in cui tutti, almeno per un po’, abbiamo bisogno di credere.
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