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Un giorno il mondo esploderà per me

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Ercole, dotato di un gene che lo rende incapace di morire, ha macchiato la sua vita eterna di un crimine terribile: ha abusato della sua fidanzata, ma non ha alcun ricordo dell’accaduto. Dopo essersi consegnato alla giustizia, sconta la sua pena in carcere, ricevendo regolarmente le visite del suo caro amico Michael, sempre al suo fianco. Durante la detenzione, inizia un percorso di riabilitazione con una psicoterapeuta, che gli consiglia di scrivere per fare in modo che gli torni tutto alla memoria. Solo così potrà prendere consapevolezza di ciò che è successo e di una verità che ancora non conosce, prima di liberarsi davvero non solo dal carcere, ma anche dalla sua prigione interiore.

 

Il lancio
del bambolotto

La mia vita cambiò quando avevo solo pochi mesi.

Non ho ricordi di quel giorno, ma mia mamma ne parla continuamente e, alla fine, è come se di quel momento ricordassi tutto.

Ero avvolto in un morbido asciugamano, stretto tra le forti braccia di mio padre che mi cullava. La situazione sembrava serena e io ero pronto ad addormentarmi, ma lui, dopo lunghi giochi di sguardi con mia madre, fece un respiro profondo e, sotto il suo sguardo terrorizzato, mi lanciò giù dalla finestra del nostro appartamento al quinto piano.

Ecco, sì, sono un sopravvissuto.

Ora ho ventisei anni e sono un adulto. Sono adulto? Ma quando si diventa adulti? Forse a ventisette anni, età in cui i grandi artisti decidono di ammazzarsi, forse proprio perché capiscono di essere diventati realmente adulti.

In questi ventisei anni e pochi mesi dopo il lancio del bambolotto non ho combinato poi un granché nella mia vita ma a questo ci arriveremo. Perché, ora, tutti vi starete chiedendo come cazzo io abbia fatto a sopravvivere a una cosa del genere. Ovviamente questa è una domanda che ha accompagnato anche me per gran parte della mia vita.

La risposta me la diede un giorno mia madre: «Tu sei un bambino speciale».

Questa, però, è una frase che molte madri italiane come la mia sono solite dire ai propri bambini, iniziando a ingannarli fin dalla tenera età, e non chiariva affatto come io fossi sopravvissuto. Mia madre, tuttavia, con quelle parole non stava affatto esagerando, nonostante tendesse a farlo spesso. Io ero veramente un bambino speciale.

Appena nato, ero viscido, brutto e piangevo come tutti gli altri bambini, ma i medici comunicarono ai miei genitori, subito dopo le prime analisi, che sì, ero fatto come tutti gli altri ma che un particolare cromosoma, di cui non si conosceva ancora nulla, mi rendeva una persona immortale.

I medici si dissero certi di questa cosa. «Il bambino ha tutti i sensi sviluppati tanto quanto quelli degli altri, ma è nato con una coppia di cromosomi in più. Ciò lo rende immortale.»

Insomma, ero un bambino normale che si apprestava a vivere una vita normale ma senza l’ansia della morte.

Sono immortale. Ecco spiegato il perché del lancio dalla finestra. I miei genitori, come probabilmente chiunque, non credettero subito alla notizia e allora mio padre si fece coraggio e mi lanciò per provare la veridicità della cosa.

Ed eccomi qui. Era tutto vero: io non posso morire.

Dopo questa premessa vorrei iniziare a raccontarvi un po’ della mia vita, ma prima devo chiarire delle cose.

Non sono un supereroe, non ho alcun tipo di potere: non corro più veloce degli altri, non picchio più forte degli altri, non volo, non mi arrampico, non sputo fuoco e non faccio tutte quelle mille cose fighe che sanno fare i supereroi. Io invecchio come chiunque, provo dolore fisico, ho paura, soffro, gioisco e sono raramente felice, proprio come tutti. Solo che non morirò. Ho questa certezza come gli altri esseri umani hanno la certezza di dover morire.

Crescendo mi sono interrogato più volte su quale fosse il senso della vita e, data questa mia peculiare caratteristica, ho dovuto spostare in fretta il pensiero su altre domande: qual è il senso della morte? Come fanno le persone a vivere le proprie vite sapendo che la morte li aspetta? E come faccio io a vivere la mia vita sapendo che niente e nessuno mi aspetta? Sto andando incontro a un destino crudele.

La morte generalmente è raffigurata vestita di nero e con una falce tra le mani, ma io me la immagino come un lampo di luce che ti libera da un dolore. La desidero. Vedete? Sono proprio come tutti gli altri esseri umani, desidero quello che non posso avere.

I vantaggi di essere immortale non sono tanti ma uno in particolare c’è: sono molto coraggioso.

Con coraggio intendo quel coraggio che ti porta a praticare paracadutismo o a fare un tuffo da una scogliera altissima, oppure girare alle quattro di notte nelle vie più buie della città, ma non chiedetemi di scacciare una cimice o un nido di vespe perché penso che per quelle cose potrei anche morire.

Ah! E con coraggio non intendo neanche il saper ammettere a una donna che non sta bene con un vestito. È proprio un coraggio del tipo: «Va be’, faccio questa cosa tanto so che non muoio». Che poi, è coraggio questo? Boh.

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Spesso mi trovo a parlarne con il mio miglior amico, Michael, uno stupido mortale, che, nonostante la sua fine certa, è molto più coraggioso di me.

Insieme facciamo discorsoni sul fatto che loro, i mortali, sono perennemente angosciati dalla paura di morire.

Lui spesso cerca di spiegarmi che non è che ci pensino costantemente, ma che si tratta di un pensiero subconscio che li accompagna. Con un esempio banale mi ha fatto capire quanto influisca la paura di morire sulla mente dell’uomo: «Quelli che hanno paura di prendere l’aereo, hanno paura di volare o hanno paura di morire?».

Secondo lui tutte le grandi paure dell’uomo sono riconducibili a un’unica paura che è quella della morte. Non mi spiego come, allora, io tema di affrontare una cimice.

La realtà è che io mi sono sempre sentito un po’ più impavido degli altri, non per carattere o educazione, ma solamente perché non avevo paura di morire.

Primi giorni delle superiori: mi rovescio il cappuccino delle macchinette sul pantalone e mi si forma la tipica macchia imbarazzante in zona pube. Sono pronto a essere sfottuto dai liceali più grandi e iniziare in salita i miei anni di superiori. È così già al primo corridoio. Un ragazzotto alto, con i capelli lunghi, portati alla Jesse McCartney dei tempi d’oro, mi vede e, con un’ indiscussa creatività, mi urla: «Oh, non hai trovato i bagni?» ridacchiando complice con i due amici accanto a lui che fanno palesemente solo finta di divertirsi.

Al che io penso al da farsi e mi dico: Vacci a botte, tanto non puoi morire. Così gli rispondo: «E tu hai mai pensato di trovarti un parrucchiere?».

Il tizio smette di ridere e mi si avvicina incazzato, avevo fatto il gradasso ma non ero pronto alle conseguenze.

Mi molla un pugno e io cado per terra e ne esco con un occhio nero, un gran dolore, una figura di merda e con la strada che è rimasta in salita per il resto dei miei anni di liceo.

Ho portato questo esempio al mio amico per spiegargli che, da quel giorno, mi è rimasta comunque la paura di rispondere male a qualcuno più grosso di me perché il dolore fisico che ho provato mi ha segnato e spaventato. Quindi gli ho posto questa domanda: «Noi esseri umani abbiamo paura della morte o del dolore?».

Lui d’istinto mi ha risposto che vorrebbe morire senza accorgersene. Ma la domanda gli è rimasta dentro, glielo leggo negli occhi.

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Federico Nardella
Federico Nardella nasce a Milano nel 1995. Dopo aver completato gli studi liceali, ha conseguito il diploma presso un’accademia di cinema a Milano, con una specializzazione in sceneggiatura. Attualmente è regista di cortometraggi indipendenti e ha lavorato come sceneggiatore per il film “Ughetto Forno - il partigiano bambino”, che ha ottenuto vari riconoscimenti, tra cui una menzione speciale ai Nastri d’Argento 2023.
“Un giorno il mondo esploderà per me” è il suo romanzo d’esordio.
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