Le scuole, con i lunghi corridoi, le tinte sbiadite delle pareti, le carte geografiche consunte, l’aura vagamente museale delle aule di scienze: chi non ne ha respirato gli odori, la sobria quotidianità che queste pagine vogliono restituirci? Ed ecco dipanarsi davanti a noi oltre sessant’anni di scuola italiana. Emergono dapprima sullo sfondo fatti e atmosfere di un Paese povero, ligio all’autorità, ancora ferito dalla guerra: una famiglia troppo squattrinata per comprare al figlio il grembiulino, un maestro dispotico, un cartello con l’invito a guardarsi dalle bombe inesplose. Fra studio, impegno politico, amicizie e inimicizie, fra amori giovanili e momenti di disperazione esistenziale, gli anni del liceo vedono poi microstorie personali (il tal professore con i suoi lasciti profondi e le sue bizzarrie, le intemperanze di qualche compagno di scuola destinato a diventare famoso) incrociare la Storia. Né mancano riflessioni critiche sulle politiche scolastiche degli ultimi decenni.
Perché ho scritto questo libro?
Perché ho scritto questo libro? Prima di tutto per testimoniare un’epoca di grandi trasformazioni attraverso un suo spaccato particolare ma rappresentativo come il mondo della scuola. Poi per dare voce a un disagio credo non solo mio nei confronti di tanta politica scolastica dell’ultimo mezzo secolo. Da ultimo, per condividere magari anche solo con un lettore a me affine odori e atmosfere di quelle aule, di quei corridoi per i quali noi tutti siamo passati.
ANTEPRIMA NON EDITATA
Mi iscrissi (iscrissero) al liceo Berchet: scuola che già mia madre aveva frequentato a suo tempo.
In attesa dell’inizio delle lezioni, ero piuttosto sovreccitato. Di lì a poco mi sarei venuto a trovare anch’io con i grandi. Quindi, taglio definitivo con l’età infantile: per sottolineare il quale, il primo giorno mi feci anche la barba o forse solo i baffi, che comunque non avevo. Ero poi incuriosito da una lingua del tutto nuova, il greco, di cui cominciai in anticipo a studiarmi le lettere e i rudimenti, con il partecipe aiuto di mio padre. Ma soprattutto non vedevo l’ora, giovane animato da focoso spirito rivoluzionario, di dare il mio contributo all’attività politica che sapevo svolgersi nella nuova scuola.
Assieme a Paolo, l’amico originario, mi misi quindi in contatto con alcuni studenti della sinistra berchettiana, ai cui incontri cominciai a partecipare, schiacciato da uno straziante senso di inadeguatezza, quattordicenne alle prese con quelli che mi apparivano in tutto degli adulti. Spesso ci riunivamo in Corso di Porta Romana, a due passi dal Berchet, in una ex sede del Partito socialdemocratico, oppure a casa dell’uno o dell’altro di tali inarrivabili fratelli maggiori. Difficile descrivere il clima di queste riunioni, con tutto il contorno d’epoca. Un’epoca, gli ultimi mesi del ’67, che non aveva ancora conosciuto la burrasca, vero e proprio storico spartiacque, che si sarebbe scatenata di lì a poco, e le cui atmosfere sapevano ancora in parte di dopoguerra. Un mondo un po’ ingessato, di cui recano sbiadita testimonianza fotografie in bianco e nero dove non è raro vedere operai azzimatissimi in giacca e cravatta alzare battaglieri cartelli, nel corso di questa o quella manifestazione sindacale. Un mondo che anche ai ragazzi richiedeva un abbigliamento e modi che ne facevano dei giovani adulti. In questo tempo un po’ fermo e, col senno di poi, ormai agli sgoccioli, avevano da poco cominciato a insinuarsi elementi vari di blanda contestazione: echi d’America e più ancora d’Inghilterra. I Beatles… Manifesti raffiguranti muri di mattoni rossi e altrettanto rosse cabine telefoniche rimandavano trasognate atmosfere londinesi. Tutto questo pareva riverberarsi nelle nostre riunioni pomeridiane, nel fumo azzurrino che ristagnava a mezz’aria, preannunciando la sera: fumo di sigaretta, al quale si univa, signoreggiandovi, quello aromatico di un morbido tabacco d’oltremanica. M. M. fumava la pipa, e quel suo fumare la pipa (una pipa dalla tipica forma a esse), insieme con la sua figura alta e snella e i suoi modi compassati, col suo inarcare di tanto in tanto un sopracciglio come per prestare particolare attenzione a questo o quel discorso, gli conferiva un’aura tipicamente britannica in linea con i tempi.
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Vertevano, i discorsi di questi liceali, intorno a questioni varie, strategiche e organizzative, di cui non capivo nulla. Di fronte al loro contrapposto e spesso animato argomentare mi riusciva impossibile comprendere chi avesse ragione, dato che sembravano avercela tutti. Uno dei temi di più immediato interesse riguardava le elezioni ormai vicine per il rinnovo dei rappresentanti del CsB, ovvero del Circolo studenti Berchet. Questo, così come altri consimili circoli d’istituto, considerato non più espressione genuina dell’intera componente studentesca, sarebbe stato di lì a poco spazzato via dal sommovimento in corso. Allora però esso figurava ancora come l’unico organo ufficiale di rappresentanza di chi il Berchet frequentava.
Per partecipare alle votazioni per il rinnovo dei suoi vertici, al Csb bisognava ovviamente essere iscritti. Ricordo l’emozione di quando mi diedero la tessera, con tanto di fotografia appiccicata sopra. La mostravo a destra e a manca. Finalmente un’identità autonoma riconosciuta, un’identità da grande. Fu mia nonna a mettermi in guardia rispetto a tanta euforia: ricordati, mi disse, che il fascismo ha preso piede anche grazie al gusto della tessera. Parola più parola meno.
Assieme a tanti discorsi di politica, non mancavano, a margine di quelle riunioni, momenti più colloquiali, in cui veniva magari raccontato un aneddoto o un fatto di costume. Una volta per esempio si misero a parlare di un loro conoscente, uno che doveva aver dato di matto o semplicemente essersi rincoglionito, da ricco però, perché i ricchi hanno un modo tutto loro di rincoglionirsi o dare di matto. Quando qualcuno lo andava a trovare, dicevano, veniva ricevuto dal maggiordomo e quindi introdotto nella sua stanza, dove lui sostava perennemente tra i fumi del suo narghilè.
Un figlio dei fiori con maggiordomo.
Un altro mondo. Dove le ragazze, a differenza di noialtri, a scuola dovevano indossare il grembiule. Non solo: tale discriminazione non destava neppure troppo scandalo. La mia insegnante di italiano nonché latino, greco, storia ed educazione civica e geografia basta così, persona peraltro di mentalità aperta, non certo una reazionaria, difendeva la detta regola sulla base di principi egualitaristici. Così facendo, questo il succo del suo discorso, si sarebbero livellate le differenze sociali espresse dal vestiario: non siamo qui, diceva, a fare la fiera delle vanità. D’accordo, ma allora perché noi maschi no? Già: le donne sono vanitose e frivole.
Della protesta contro il suddetto obbligo, Sanguinetti, del gruppo dei situazionisti (chi fosse interessato consulti una qualsiasi enciclopedia alla voce situazionismo), aveva fatto il proprio cavallo di battaglia elettorale. Girava per i corridoi indossando come le ragazze un lungo grembiule nero, che mi ricordava quello del maestro F..
Laura Pizzocaro (proprietario verificato)
Un libro che mi ha coinvolta fin dalle prime pagine per la straordinaria capacità dell’autore di far rivivere con limpida chiarezza un’età ormai lontana (si parte dalla fine degli anni ’50), in cui la scuola, con il suo mondo, era una realtà ben diversa da quella di oggi: il banco con il foro per il calamaio, la lavagna di ardesia, la maestra che ispeziona, prima della lezione, l’igiene dei bambini… Ma questo è solo l’inizio: Luca procede nella narrazione attraverso un percorso personale che tocca i tempi del liceo, alla fine degli anni ’60, con la contestazione che cambiò la scuola italiana; per arrivare al mondo universitario, alle problematiche (tuttora irrisolte) del precariato, per finire con l’inevitabile esperienza di una scuola digitale. Un quadro completo di più di 60 anni di scuola, anzi di vita, dipinti con una narrazione scorrevole, ma elegante, curata, non priva di riferimenti colti e di una pacata ironia, segno di un’intelligenza critica, ma obiettiva.
Posso solo ringraziare Luca, per me un caro compagno di liceo, nonché collega, per avermi fatto rivivere un passato ormai ofuscato dalla nebbia dell’oblio: soprattutto gli anni del liceo che riaffioravano sempre più vivi, man mano che procedevo nella lettura.
Un libro, per finire, che ho “divorato” in due giorni e che sicuramente rileggerò con piacere.