Primo ottobre 1959. Il mio primo giorno di scuola. I bambini radunati in cortile, grembiulino nero colletto bianco fiocco azzurro noi maschi, grembiule bianco fiocco rosa le bambine. La mia maestra che raccoglie me e i miei compagni della prima A. Il direttore, anzi, il signor direttore, che a voce alta ordina di dare la precedenza ai bambini di prima. Noi che ci incamminiamo, dietro la nostra insegnante, attraverso la palestra il corridoio la scalinata.
E poi l’evento scompaginatore. Io ero, come suol dirsi, di buona famiglia; di quelle famiglie, cioè, che della scuola, ai bambini in procinto d’andarci, parlano bene. In quel giallo edificio, che vedevo tutti i giorni dalle finestre di casa mia, sapevo che prima o poi sarei andato a imparare tante cose. Nei confronti della nuova esperienza ero insomma ben disposto. Ed ecco che, al momento di entrare in classe, la maestra ci fa mettere in fila. Non so se sulla soglia ebbi un momento d’indugio o se questa fu solo la percezione del compagno che mi tallonava. Fatto sta che Valerio mi aggredì, spintonandomi e apostrofandomi violentemente. Mi girai, ed ebbi l’impressione di trovarmi davanti una specie d’orsacchiotto: un orsacchiotto robusto, tarchiato e soprattutto determinato, una lotta col quale sarebbe stata impari.
Tutt’a un tratto, il posto-dove-sarei-andato-a-imparare-tan- te-cose era diventato un luogo periglioso. Zona di guerra.
La maestra: la signora G., madre di Paolo, amico di nascita più che d’infanzia e ora anche compagno di classe, con speciale nullaosta. Una maestra molto colta (tra l’altro laureata in filosofia, in un tempo in cui, per insegnare alle elementari, era sufficiente l’apposito diploma). Grazie al suo metodo innovatore, riconducibile al cosiddetto attivismo pedagogico, la vita scolastica divenne per noi tutti un piacere assoluto.
1959. L’Italia un Paese ancora perlopiù contadino. Fra i compiti della scuola, anche quello di promuovere abitudini igieniche da non Terzo Mondo. Appena in classe: mani sul banco. La maestra che ispeziona. Cose dall’aspetto decente, ma solo alcune. Unghie. Di tutte le lunghezze e di tutti i colori. Dieci tirano al nero più che al viola, e la maestra che con pacatezza cerca di indurre nel proprietario il senso di una maggiore cura di sé, istituendo anche qualche confronto: guarda che belle unghiette, osserva, riferendosi alle mie. L’ho detto, ero di buona famiglia. Un signorino, insomma.
A questo punto però credo si debba sgombrare il campo da un equivoco. Come fa questo, si chiederà qualcuno, a rievocare esperienze di quando aveva sei anni, e in modo così dettagliato? Si starà inventando tutto.
No, non invento niente. Il fatto è che ho una memoria di un tipo particolare, per cui ricordo in modo nitido anche eventi di cui sono stato testimone quando avevo circa un anno e mezzo. Si tratta certo di schegge, che tendono però a connettersi in un quadro sempre più unitario con l’avanzare della mia età infantile. Già dai quattro anni credo di aver ritenuto moltissimo, tanto che sarei in grado di ripetere in maniera precisa interi dialoghi a cui assistetti allora. Se non mi si vuole credere, niente di male. Io proseguo.
Proseguo col resoconto di un dibattito fra noi bambini, la maestra a fare da moderatrice, che proprio nei primi giorni di scuola vide contrapporsi quelli che potrei indicare rispettivamente come il partito del mare e il partito della campagna. Insomma: il mare è bello, no è bella la campagna.
La mia proposta equanime: il mare e la campagna sono belli.
Tale soluzione pacificatrice trovò subito il generale consenso, tanto che la suddetta frase fu scritta alla lavagna e noi la copiammo, senza ancora saper leggere, così come si copia un geroglifico.
Laura Pizzocaro (proprietario verificato)
Un libro che mi ha coinvolta fin dalle prime pagine per la straordinaria capacità dell’autore di far rivivere con limpida chiarezza un’età ormai lontana (si parte dalla fine degli anni ’50), in cui la scuola, con il suo mondo, era una realtà ben diversa da quella di oggi: il banco con il foro per il calamaio, la lavagna di ardesia, la maestra che ispeziona, prima della lezione, l’igiene dei bambini… Ma questo è solo l’inizio: Luca procede nella narrazione attraverso un percorso personale che tocca i tempi del liceo, alla fine degli anni ’60, con la contestazione che cambiò la scuola italiana; per arrivare al mondo universitario, alle problematiche (tuttora irrisolte) del precariato, per finire con l’inevitabile esperienza di una scuola digitale. Un quadro completo di più di 60 anni di scuola, anzi di vita, dipinti con una narrazione scorrevole, ma elegante, curata, non priva di riferimenti colti e di una pacata ironia, segno di un’intelligenza critica, ma obiettiva.
Posso solo ringraziare Luca, per me un caro compagno di liceo, nonché collega, per avermi fatto rivivere un passato ormai ofuscato dalla nebbia dell’oblio: soprattutto gli anni del liceo che riaffioravano sempre più vivi, man mano che procedevo nella lettura.
Un libro, per finire, che ho “divorato” in due giorni e che sicuramente rileggerò con piacere.