Per me, sessanta era quel numero che nelle scelte “a tendina” del computer era uscito dalla fascia “da quaranta a cinquanta” ed era piombato in quella più vicino ai settanta. Era l’inizio degli sconti di Trenitalia o dei biglietti del cinema; era l’età che in cronaca ti fa de-scrivere non più come un uomo o una donna, ma un anziano o un’anziana. Non c’è nulla da fare: a sessant’anni sei già vecchio.
È stato un passaggio molto difficile. E non parlo della morte di mio padre, perché per me era già morto parecchi anni prima e, quindi, avevo avuto modo di metabolizzare il mio essere diventata orfana. Era solo un dettaglio, il funerale tardivo di chi era morto qualche anno prima.
Era però anche il funerale dei miei cinquant’anni, come se fosse stato il funerale delle mie aspettative, dei miei progetti, dei miei verbi coniugati al futuro. Una pesca quando matura diventa saporita, si completa nella sua struttura e nei suoi colori, ma io in questa mia maturità non ho niente di meglio degli anni passati. O forse sì, ma veramente poche cose: un po’ di consapevolezza in più; mi sento più diretta e anche coraggiosa; un pizzico di gentilezza e selezione maggiore delle persone che mi stanno intorno. Il tutto, però, condito amaramente dalla perenne insoddisfazione del mio aspetto esteriore. Non mi riconosco più. La ragazzina dentro di me e la sessantenne che vedo nello specchio – e sento nelle ginocchia – si scontrano ogni giorno. E sogno, spesso, di fare la cosa che mi manca maggiormente e che questa vecchia carcassa non mi permette più: in sogno riesco con leggerezza e fiato infinito a correre all’impazzata in riva al mare, d’inverno.
Poi è arrivato quel pensiero buio: la morte.
A sessant’anni aumentano considerevolmente le probabilità di morire o di ammalarsi gravemente per poi morire. La morte comincia a farsi sentire un po’ più vicina. È un killer spietato che comincia a far fuori i tuoi coetanei, alcuni conoscenti o le persone che ami. È ovunque.
Potresti essere il prossimo o scoprire che non lo sei, ma quel sollievo dura pochi istanti perché sei di nuovo sotto tiro. Ed è per allontanare dai miei pensieri questa minaccia, che ho cominciato a pensare a ciò che mi piace: mi piace svegliarmi con il sole sul letto e fare progetti; mi piacciono le fotografie e le cene con le amiche. Mi piacciono i viaggi e atterrare in un paese lontano con la musica nelle orecchie. Le brioches e l’autunno. Le luci lampeggianti dell’albero di Natale che si accendono, così come i nomi dei miei figli sul telefono che squilla. L’odore delle zampe dei miei cani e sentirli respirare vicino a me la notte. L’avocado e l’avambraccio di un uomo. I ricordi dell’infanzia che arrivano all’improvviso, in seguito a un profumo. Place de Vosges a Parigi, le saline di Cervia. Ridere delle battute di mio figlio, l’odore dei capelli di mia figlia. Il vino bianco ghiacciato, le partite a burraco. Viaggiare da sola. L’acqua e il sapore del mare, i ricci e Pantelleria. La musica, la flemma della parlata siciliana e la voce di Biagio Antonacci. Stare scalza e spettinata, lavarmi i denti. Spegnere tutte le luci e stare col naso in su a guardare un cielo stellato.
Credo che quando morirò, mi mancherà tutto questo. Quindi, voglio iniziare da qui a vivere questa nuova vita. Non importa quanto durerà. O forse no, certo che importa! Ma cercherò di non pensarci e assaporerò tutto come se ogni giorno fosse l’ultimo. La consapevolezza della morte sta allungando ogni istante di questa mia Terza vita che per questo motivo, indipendentemente da quanto durerà, sarà lunghissima e bellissima. Mi manca qualche progetto da terminare per potermi concedere qualche sogno, ma è solo una questione tecnica e la sbrigherò il prima possibile.
Ora sono qui e basta con le favole. E cambiamento sia!
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