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Uthar e L’origine del flusso

Uthar e L'origine del flusso
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Consegna prevista Febbraio 2023
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“Soggetto H. Droid 001. Questo è il mio nuovo nome da quando hanno stabilito il Loro dominio. Sono in questa cella. Sono il primo. Non ho mai desiderato esserlo in nulla. Non ho mai aspirato ad essere il primo e ora lo sono, il primo in un intero mondo. Sono qua rinchiuso, circondato da altri prigionieri o cavie o quello che siamo. Non li vedo ma so che ci sono. Prod. 1, Prod. 2 e Rdm. 3. Così siamo classificati. Anzi, gli altri sono classificati perché io sono l’unico, H. Droid 001. Era diverso un tempo. Elfi, nani e umani. Questi eravamo prima della Loro conquista, adesso siamo scatole piene di energia. Abbiamo combattuto perché il nostro istinto ci ha suggerito che era giusto farlo. Abbiamo perso perché l’evoluzione ci ha suggerito che era giusto perdere. Loro sono superiori, noi siamo stupidi. Quando tra pochi secondi sarò svenuto, voglio ricordare quando tutto era verde, quando tutto era diverso, quando tutto non era più bello ma quanto meno era nostro…
Quando tutto era…”

Perché ho scritto questo libro?

Ho sempre avuto il grande desiderio di poter unire la magia con la tecnologia, il fantasy alla fantascienza, dando una nuova origine alle razze Fantasy. Il progetto era arduo, e non tutti avrebbero apprezzato questo connubio, così il primo libro è stato scritto per preparare il terreno a quello che verrà.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Capitolo 1

Flusso di ricordi

«Uthar svegliati, ho bisogno di te.»

Una voce femminile risuonò fin troppo premurosa.

Rapito improvvisamente dai suoi sogni, Uthar aprì gli occhi. Il respiro era affannato, gocce fredde di sudore imperlavano la fronte e una sensazione di appiccicume lo infastidiva.“Un altro meraviglioso giorno, non voglio alzarmi.” Il cinismo si svegliò prima di lui. Il dovere aveva attecchito fin troppo bene nella sua persona. “Bisogna farlo perché è giusto farlo.” Le parole di suo padre avevano lasciato profondi solchi nella sua coscienza. Riecheggiavano come moniti, in modo perpetuo. Era legato a quelle parole, un legame profondo ma vincolante. Poteva perfino arrivare ad odiarle quando gli imponevano di fare le cose contro voglia, eppure provava un sentimento troppo forte per poterle ignorare. Si alzò dal suo giaciglio con l’amaro in bocca staccandosi dal torpore del suo letto con lo stesso trauma che poteva subire un bambino levato dal seno della madre. Piegò le coperte di pelle e le appoggiò sopra al letto ancora tiepido. L’Auleen di Rutfeld non era situata eccessivamente a nord ma nonostante ciò, a causa di forti venti durante la stagione fredda, le temperature scendevano vertiginosamente.
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Quelle coperte di pelle di Koa però rendevano quasi piacevole la nottata mitigando il freddo. Un timido raggio di sole penetrava dalla finestra preannunciando che per quanto le temperature sarebbero state basse, quanto meno la luce del sole avrebbe addolcito quel freddo pungente.

Uthar si stiracchiò, le ossa scricchiolarono e si accorse che gli dolevano i muscoli a causa dei lavori pesanti del giorno prima, del giorno prima ancora e dell’altro ancora.

Sbuffò inacidito, si vestì e scese le scale. Viveva con sua madre Nary e sua sorella Lunia in un piccolo villaggio di nome Arohim. La casa in cui abitavano l’aveva costruita con il padre. Era una casa umile ma accogliente, o almeno lo era stata. Avevano impiegato poco più di due rotazioni per finirla. Erano orgogliosi del loro lavoro, o almeno lo erano stati. Nel villaggio erano tutti un po’ invidiosi perché Rihon, il padre di Uthar, aveva trovato un giacimento di pietre Füar, molto preziose per la loro incredibile resistenza e capacità di mantenere il calore. Una magra consolazione alla luce dei fatti. Il camino era acceso, l’acqua era già a scaldare e Uthar vide le impronte della sua mano e quella di suo padre su una tavola di legno, proprio lì sopra. Le avevano incise una volta terminati i lavori per firmare l’opera. Lo assalì una profonda tristezza. Non che si fosse svegliato con l’umore giusto per affrontare la giornata ma i ricordi sono flussi di immagini incontrastabili che trovano materia fertile in ogni dove pur di tormentarti. Si costrinse ad abbozzare il miglior sorriso che il suo morale gli permettesse mentre salutava Nary.

«Da dove arriva quell’acqua?» chiese Uthar, mentre osservava la madre che stava inutilmente spostando dei sassi per cercare di deviare il corso di un piccolo ruscello, creando una sorta di argine ma con scarsi risultati.

«Non lo so, forse il fiumiciattolo qua sopra ha deciso di cambiare direzione, magari si stava annoiando» rispose sorridente. Uthar aveva una profonda stima nei confronti di sua madre perché anche dopo la morte di Rihon non aveva mai perso il suo sorriso, mentre lui, era stato giorni interi senza proferire parola e ora provava un profondo odio per la vita e per qualsiasi cosa non andasse come lui sperava. Praticamente tutto. Si mise a mangiucchiare un frutto, soffermandosi a giochicchiare con il torsolo mentre ponderava come dire alla madre che quello che stava facendo era semplicemente inutile. Nary era snella, abbastanza alta rispetto alle altre donne del villaggio. Portava con umiltà due occhi di un intenso verde smeraldo che la rendevano molto affascinante, dei capelli castani eccessivamente chiari per essere un abitante di Arohim e presentava evidenti segni sulle mani tipici di una donna forte che si era sempre data da fare, specialmente nei momenti così bui.

«Dal momento che ha nevicato per tre giorni, la neve avrà fatto cedere qualche albero che avrà rotto gli argini del fiume» Uthar detto ciò lanciò quel poco che rimaneva del torsolo. Il bosco sopra casa era stato per Uthar un rifugio, un luogo dove la sua immaginazione proliferò attraverso il gioco. Da piccolo sognava di vivere avventure epiche, sconfiggere mostri di ogni genere, lottare con fiere feroci e riportarne a casa la teste come bottino. Ora quello stesso bosco era diventato solamente una gran rottura. Suo padre aveva scelto quel luogo in modo che la casa fosse più vicina agli alberi per facilitarne il trasporto del materiale per la costruzione dell’abitazione. La vicinanza al bosco per risparmiare fatica durante i lavori, divenne la prefazione di molte delle arrabbiature di Uthar. Avrebbe potuto essere tutto molto più piacevole ma ora niente aveva senso. L’inerzia lo obbligava ad andare avanti, ma non gli forniva la forza per credere che fosse veramente giusto farlo.

«Dai, aiutami, se l’acqua di questo ruscello entra in casa è un guaio.».

«Mamma…» sospirò Uthar cercando di sembrare il meno acido possibile «…È inutile mettere dei sassi per cercare di deviarne il corso. Bisogna prima di tutto andare a vedere da dove arriva l’acqua, poi se è davvero il fiume qua sopra è necessario scavare per risistemarne gli argini. Vai pure in casa a fare i tuoi lavori, qua fuori ci penso io.» La madre fece un sorriso, diede un bacio sulla guancia al figlio ed entrò in casa. “Deviare un fiumiciattolo con dei sassi”.

Uthar s’immaginò il volto sorridente del padre mentre gli raccontava delle meravigliose trovate della mamma. Gli uscì un sorriso spontaneo. Si ritrovò felice di sorridere per un attimo ma poi pagò a caro prezzo quel futile momento di serenità con una pugnalata gelida al cuore. Non rivedrà mai più il sorriso di suo padre. Ricordi. Una volta la madre gli disse che “Il tempo, anche il ricordo peggiore, lo fa diventare bello.” All’epoca non capì a pieno il significato di quella frase, ora aveva tutto molto chiaro. Era un’amara menzogna. Si armò di pazienza e si incamminò. Per prima cosa andò a controllare da dove provenisse l’acqua. Seguì il piccolo corso e scoprì che era proprio come sosteneva lui. Un grosso albero era crollato per il peso della neve. Cadendo, aveva creato una rottura degli argini già sottili del ruscello. Senza perdere altro tempo a farsi crivellare dalla nostalgia e dalla tristezza, si mise al lavoro. “Stufo di pensare? Trova qualcosa da fare”. Gli diceva sempre suo padre. Dopo la morte di Rihon aveva dovuto occuparsi lui della famiglia.

Possedevano un piccolo campo davanti casa, purtroppo, avendo difficoltà economiche, come tanti ad Arohim, non potevano permettersi di comprare una coppia di Koa. Dovette quindi farsi carico dei lavori di aratro e di semina, già parecchio faticosi, senza considerare le imprecazioni verso gli attrezzi mal funzionanti, le arrabbiature, i nervosismi, la tristezza e le lacrime che ogni tanto cadevano sul terreno rendendolo forse ancora più aspro. Il vento era irregolare quella mattina. Si alzava con raffiche gelide e impetuose facendo rabbrividire Uthar. Poi smetteva per lasciargli il tempo di capire che tutto sommato non avrebbe fatto così freddo se il vento si fosse degnato di non soffiare.

Al peggio non c’è mai fine”. A volte la sua acidità per la vita lo nauseava, lo scaricava del tutto. Cercava in qualche modo di reagire, voleva tornare a respirare, ma i ricordi sanno anche soffocarti quando vogliono. In lontananza osservò un appezzamento di uno dei facoltosi di Arohim, se possono essere definiti facoltosi dei contadini che avevano avuto la fortuna di comprarsi più di dieci capi di bestiame. Pascolavano una dozzina di Koa. Uthar stava spesso ad osservarli, nonostante fossero collegati ai suoi momenti più brutti, non poteva farne a meno.

Erano animali addomesticabili impiegati per molti lavori, specialmente in campo agricolo. Un esemplare adulto era alto poco più di un metro e mezzo, camminava su quattro zampe con un possente corpo lungo quasi tre metri e una grossa testa sormontata da grandi corna ricurve rivolte verso il corpo. Si nutrivano di erba e piccoli arbusti. Avevano un’indole pacifica ed erano adoperati moltissimo come animali da soma per trainare carri e arare i campi. L’unica forma di violenza la mettevano in pratica per conquistare una femmina. La ricerca dell’accoppiamento è sempre un brutto affare. Nonostante la loro stazza, riuscivano a correre molto velocemente se pur per poco tempo. I due pretendenti si disponevano uno dinanzi all’altro. Ovviamente questi scontri avvenivano nel periodo di calore della femmina, i cui ormoni emanavano un odore che il maschio non poteva per nulla ignorare. Ciò conferiva grandi motivazioni e non solo, ai pretendenti. Cozzavano con le corna dopo un imponente scatto. Generalmente si scontravano una sola volta poiché uno dei due, il più debole, stramazzava a terra privo di sensi dopo il colpo.

Il vincitore quindi diventava momentaneamente il maschio alfa e la femmina attratta si avvicinava a lui per completare il corteggiamento e concederli l’ambito premio. Si sceglievano una compagna per la vita anche perché sarebbe stato impegnativo uscire vivo da un secondo scontro. Le femmine potevano dare alla luce solamente due cuccioli e non sempre riuscivano a farlo. Solo dopo che i Koa trovavano la propria femmina, potevano essere addomesticati e impiegati negli onerosi lavori della campagna. Il rapporto di coppia rende mansueto anche l’animale più selvatico. I Koa femmina erano più mansuete rispetto ai maschi anche se avevano una struttura corporea non molto inferiore.

Capitava sporadicamente che due femmine di Koa si scontrassero. Generalmente erano per lo più femmine dominanti che cercavano il comando in un branco in cui l’alpha maschio era morto, e gli altri maschi erano troppo giovani per riprodursi. Le difficoltà con cui i Koa riuscivano a dar luce a dei piccoli facevano sì che fossero trattati con i dovuti riguardi da chi li possedeva. Comprare un Koa era molto costoso e bisognava ingaggiare un mandriano per addomesticarli. Era una dote tramandata solamente di padre in figlio sulla quale vigeva una ferrea condotta. I Koa non erano animali pericolosi ma andavano istruiti in funzione del lavoro agricolo. Gli esemplari più deboli, inadatti a certi sforzi, erano usati per la carne, le pelli molto resistenti dalle quali si potevano ricavare coperte, sacche, vestiti e per le corna che potevano essere utilizzate come attrezzi da lavoro. Esistevano anche aneddoti interessanti sull’utilizzo dei loro possenti attributi riproduttivi ma questa è tutta un’altra storia.

Uthar tornò a casa, prese una pala e un’ascia e s’incamminò nuovamente verso il ruscello. Iniziò a scavare una buca a un paio di metri di distanza dall’argine rotto. Le spalle gli dolevano, nulla di nuovo. Imprecò nel sentir bruciare i muscoli mentre adagiava la terra a pochi passi da lui. Iniziò a canticchiare una canzoncina allegra per distrarsi. Alla bottega giù al villaggio era un tormentone. Non ne aveva mai capito il senso anche perché probabilmente un senso non c’era. Il ritmo però era incalzante e le parole producevano un bel suono ed erano facili da ricordare.

Il vecchio gira su una pira e il fuoco che lo evira

Denti stretti, rutti e peti risuonan sopra i tetti

La puttana mezza sana esce in palandrana.

Ripeti e bevi oggi e ieri il domani non lo vedi

Il vecchio grida la fiamma infida l’acqua che la sfida

Denti stretti, fotti e balbetti che è una donna hai dei sospetti

La puttana, la cortigiana è di natura arcana

Ripeti e bevi, oggi e ieri il domani non lo vedi

Giù…sempre di più…giù giù giù.

trinca trinca trinca

fino a vomitar,

torna poi,

insieme a noi

per rincomiciar.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Lorenzo Clementin
Sono un appassionato di palestra, Hiking, viaggi , sono un fotografo ed un videomaker. tutto questo ha fatto sì che racchiudermi in una sola categoria mi stesse un po’ stretto, maturando e portando avanti le mie molteplici passioni. Sono appena tornato da 3 anni di esperienza all'estero tra Australia e Nuova Zelanda, e in quest 'ultima ci ho lasciato il cuore. Cosa altro dirvi di me? Tra le mille passioni sicuramente la scrittura insieme alla fotografia e la realizzazione di video sono le più grandi. Ma la scoperta migliore di me stesso è stata che adoro raccontare storie, con immagini o parole e coinvolgere le persone per far loro vedere la bellezza che vedo io.
Realizzo ora, in questo momento, con queste righe l'inzio di uno dei miei più grandi sogni, vi invito a scoprirlo.
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