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Vademecum per piccole carogne

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Consegna prevista Dicembre 2025
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Orazio Marchedini è una persona di poche parole e di scarsa immaginazione, ingenua e semplice. Lavora in una scuola elementare, ed è innamorato della maestra Carmen.
Una notte, un intruso si materializza nella sua cucina con una proposta assurda: Orazio otterrà ciò che vuole, dopo aver assistito a cinque carognate, una al giorno “…eventi subiti da poveri ignari per mano, appunto, di piccole carogne: bastardelli comuni, di scarsa empatia. Insomma, gente annoiata che si trastulla come può.”
Giorno dopo giorno, Orazio diventa spettatore di un’umanità meschina, crudele e compiaciuta. E quando finalmente può rompere il patto con l’intruso, c’è un’ultima condizione da seguire: la prossima volta non dovrà solo guardare.
Un romanzo che mescola fantastico e realismo, per svelare un interrogativo da sempre attuale: quanto può resistere un uomo prima di diventare parte del Male che osserva?

Perché ho scritto questo libro?

Nel Paradiso Perduto, l’ambizione di Lucifero è ciò che lo fa precipitare sulla terra. Ho immaginato un personaggio agli antipodi dell’antieroe di Milton: un uomo buono fino all’idiozia, incontaminato, invisibile ai più. Mi sono chiesto in quali circostanze una persona del genere avrebbe potuto perdere la sua innocenza. Non certo per ambizione. Ma per un contatto diretto con azioni disdicevoli. Come reagire, allora? Resistere, isolarsi o mutare in peggio?

ANTEPRIMA NON EDITATA

Sabato, prima di mezzanotte

Sebbene il Creatore non gli avesse concesso il dono dell’immaginazione, Orazio Marchedini, bidello della Scuola elementare Leonardo Da Vinci, si chiese se stava sognando, quando, accesa la luce, trovò un estraneo in cucina, accomodato su una sedia con un piattino carico di semi di zucca davanti a sé.

Orazio sentì i muscoli del corpo sfilacciarsi, ma riuscì a mantenere l’equilibrio e non disse nulla.

L’ospite inatteso si era voltato verso di lui, lo aveva soppesato con indolenza ed era tornato a contemplare il lavandino alla sua sinistra.

Orazio si era svegliato perché aveva sete, ma viste le circostanze rinunciò ad avvicinarsi al rubinetto. L’unica cosa che il buon senso gli ordinò di fare fu di sedersi dalla parte opposta del tavolo.

Studiò l’intruso, stringendo gli occhi feriti dalla luce del lampadario.

Era convinto di non aver mai visto né conosciuto quell’uomo, anche se non poteva esserne certo.

L’estraneo aveva la barba di un giorno, della stessa lunghezza dei capelli tagliati con il rasoio elettrico, dando l’impressione che non ci fosse un vero confine tra il nord e il sud del suo volto. Le braccia erano prive di peli, e benché fosse inverno, l’uomo indossava solo una polo azzurra, da golfista.

Orazio cercò di ammucchiare le bucce dei semi di zucca allungando le braccia sul tavolo, ma senza invadere lo spazio dell’intruso. Mosse le labbra per chiedergli chi fosse, ma in quel momento l’uomo si sollevò dalla sedia. Orazio si irrigidì. L’estraneo si limitò a infilare una mano sotto il tavolo. La risollevò dopo qualche istante: tra le dita stringeva un foglio a quadretti.

Sopra c’era scritto: “Mi dica qualcosa, please.”

Orazio s’inceppò sull’ultima parola. Era sicuro che fosse scritta in inglese, ma non sapeva come pronunciarla, visto che a scuola lo avevano esonerato dallo studio delle lingue straniere, per lui troppo complicate.

L’uomo riprese il foglietto e lo fece sparire da dove lo aveva preso.

«Mi scusi, dove ha trovato i semi di zucca? Pensavo di averli finiti», disse il bidello con una voce impacciata, simile a quella di un bambino della 2°C quando gli chiedeva di accompagnarlo in bagno.

Solo in quel momento notò la luce del forno accesa, riflessa nel piccolo crocefisso d’argento sul lobo sinistro dell’estraneo. Il quale sfoggiò un sorriso bonario dall’ampiezza invidiabile, senza però mostrare i denti, che sporgevano in maniera non comune per un sapiens.

«Grazie», disse, incrociando le mani sul petto: «Se non iniziate voi a parlare, per noi è impossibile farlo». Si passò la lingua sui denti e fece l’occhiolino al bidello. «Sa, alcune cose non cambiano sotto il cielo né sopra di esso. Le regole sono regole, ab aeterno gloria Dei».

L’uomo appoggiò il braccio destro sul tavolo, scoprendo un tatuaggio sul deltoide. Orazio iniziò a fissarlo con le labbra semiaperte. Quando non capiva qualcosa, smetteva di respirare dal naso senza accorgersene, aprendo così la bocca. Era un riflesso condizionato, che lo accompagnava dalla tenera età in cui i bambini iniziano a chiedere il perché delle cose, seguito da un tic tra i più comuni: la gamba ballerina, ora in movimento.

L’intruso si accorse dell’attenzione destata dal tatuaggio e grattandosi le scapole disse:

«Ammetta che siamo oltre la pop art, e abbiamo doppiato il ciarpame intellettualoide dell’arte contemporanea. L’ha disegnato un mio amico: mano fina e di un’irriverenza squisita, pieno d’idee barocche. Ammetta di non aver mai visto la testa di Che Guevara sul corpo obeso del Buddha, con una nuvola da fumetto, dove c’è scritto: Hasta il Nirvana Siempre. Al primo non sarebbe piaciuta, era di una serietà ammorbante, mentre il secondo ne avrebbe riso, chiedendomi però di spiegargli cosa fosse il Nirvana. E mi permetta un caustico ah! ah!, più che altro di scherno».

Il bidello non reagì.

«Dove eravamo rimasti?», chiese l’estraneo: «… Yes! Ai termini del contratto, my lord!».

Orazio appoggiò una mano sulla gamba per placarne l’isteria.

«Mi scusi, Dottore…», disse: «quale contratto?». Era abituato a chiamare le maestre e il preside della scuola con il loro appellativo postlaurea. Nessuno gli aveva mai chiesto di fare altrimenti, e a lui quella parola piaceva, perché era più pratica da ricordare di tanti nomi propri.

L’intruso si diede un colpetto sulla fronte.

«Che scemo! Sa, dormire poco rallenta i riflessi e arrugginisce la memoria; dicono che possa provocare allucinazioni se prolungato nel tempo. Non abbiamo ancora parlato del contratto… disculpe, Seňor!».

La gamba di Orazio scattò in alto e lui cercò di placcarla con ambo le mani.

«Bisogna che io prima le dica una cosa: lei mi piace ed è per questo che l’ho scelta. Nessun tipo d’influenza esterna e nessuna gara d’appalto. È stata una ricerca mossa da un bisogno spirituale che, come ogni sublime idea che si rispetti, va seguita in solitudine».

Orazio era attirato più dalla forma ovale della testa dell’uomo che dalle sue parole, ma l’altro non sembrò avvedersi dello sguardo ipnotizzato del bidello.

«Ho una profonda stima per lei, mi creda. E sono qui per dimostrarglielo».

L’intruso fece scomparire di nuovo una mano sotto il tavolo. Bofonchiava parole incomprensibili, ma cercò di mantenere un aplomb da professionista di fronte a Orazio, che, in cuor suo, sperò di non dover leggere un altro biglietto con parole che non capiva o non sapeva pronunciare.

Il volto dell’estraneo si tese ancor di più, assumendo l’espressione ferina di un guerriero che lotta per dare o ricevere la morte. Dopo alcune mosse convulse, accompagnate da un profondo respiro di sollievo, liberò la mano per appoggiare una fotografia sul tavolo, a una spanna dal pomo d’Adamo del bidello.

«Mi dica che cosa vede in questa foto, s’il vous plait?».

Orazio si rilassò: non c’era nulla da leggere. Capì che si trattava di una vecchia istantanea: i bordi erano logori e nel mezzo c’era una linea verticale, come se la foto fosse stata piegata e riposta in una tasca per anni: la lucentezza dei colori era appassita in un giallognolo spento. Orazio ci mise poco a capire che cosa raffigurava lo scatto.

In quel momento la sua attenzione fu attratta da due bucce di semi di zucca a pochi centimetri dalla foto. Le soffiò via, ma se ne pentì all’istante. Setacciò il pavimento, finché non le raccolse, tenendole strette in mano. Quando si risollevò, soddisfatto, vide l’intruso che giocherellava con i pollici roteandoli l’uno attorno all’altro, mentre stava aspettando una risposta sul soggetto dello scatto.

«Sì, Dottore… è il fungo dell’esplosione…. della bomba… atromica».

L’altro lo squadrò perplesso, ma poi si mise a battere le mani. Migliaia di applausi scrosciarono da ogni direzione: dal frigorifero, dai cassetti, dalla dispensa, da dietro la tapparella serrata e dalle altre stanze dell’appartamento. Orazio chinò la testa per la vergogna. Appena l’uomo riappoggiò le mani sul tavolo, l’ovazione finì, e il bidello si rese conto di quanto fossero lunghe e sottili le dita del suo ospite.

«Esatto! Bravissimo! La bomba… la bomba atromica, come dir si voglia. Che cosa le suggerisce?».

«La… la seconda guerra mondiale».

«Certo – chi potrebbe dire il contrario – e poi… poi cosa… mi dica?»

Orazio rifletté, o almeno cercò di farlo; ma poi si arrese all’incapacità di dare una risposta.

«Non… non lo so…».

L’uomo non sembrò per nulla deluso, anzi, si alzò in piedi, concitato, con la visibile intenzione di spiegare qualcosa. Il bidello si accorse che il suo ospite non indossava i pantaloni, ma solo un paio di boxer a righe con l’immagine di un profilattico usato, ricamata nella parte adibita alla raccolta dei genitali. Poco sopra c’era un’altra scritta in inglese, che però Orazio non fece in tempo a memorizzare. Le gambe erano glabre e molto scarne, sembravano ossa laccate di un rosa pallido.

L’uomo iniziò a camminare per la cucina con le braccia conserte. I piedi erano così piccoli che Orazio, a una prima occhiata, li scambiò per un altro paio di mani, ma non quelle dell’ospite, bensì le sue, paffute e ben curate.

«Morte, signor Marchedini. Tantissima morte in pochissimo tempo», s’interruppe fermandosi a metà tra il frigorifero e il lavello: «Mi creda, una vera tragedia! Mi tocca essere sincero con lei, ho sbagliato fotografia, questa doveva essere l’ultima, il colpo di scena finale. Prima ho avuto un po’ di difficoltà nel trovarla, come avrà notato».

La gamba di Orazio aveva ormai iniziato a palleggiare con il bordo del tavolo.

L’uomo continuò.

«Ottantamila morti nella sola esplosione. Ah! Quasi dimenticavo: sto parlando di Hiroshima. Ho anche la foto di Nagasaki, se le interessa, scattata a cavallo della Fat Man, un gioiello di forte impatto. Certo, smontai a seicento metri di quota e mi allontanai per avere la giusta visuale, quella pattuita nella riunione con gli altri manager dell’azienda per cui lavoro. A proposito, com’è venuta quella che le ho fatto vedere? Bene, vero? È un po’ rovinata, I know, I know. Ma la rifarò, promesso, appena mi verrà chiesto di farlo. Anche se tornare indietro è spesso così insensato, privo di nuove emozioni. Lei potrebbe capirmi, se fosse al mio posto. Comunque, le dicevo, migliaia di morti in un solo istante, e in soli sei mesi, i morti raggiunsero la ragguardevole cifra di duecentomila. Una tragedia, non trova? Una vera mancanza di creatività».

L’intruso si grattò le scapole di nuovo.

«Mi permetta di essere sintetico, Orazio, alla pari della polo che indosso. Come lei ogni mattina si sveglia per rassettare le aule della scuola o portare gli avvisi alle maestre durante le lezioni, anche gli addetti al Male dovrebbero seguire le direttive a loro assegnate. L’unica differenza è che lei ogni tanto riposa, e a ragion veduta. Mi dica con mostruosa sincerità: pensa che il Male sia mera distruzione? Mi creda, quando lo diventa, viene meno alle sue funzioni principali, come se lei avesse lasciato un’aula sporca prima di andarsene. Si fidi: i miracoli non sono il sigillo del Bene su questa terra, come la distruzione, il caos, le morti di massa non sono quelli del Male. Non è questo il lavoro che ci spetta, non sono le direttive assegnate. Non c’è nulla che snaturi di più le mansioni di un’attività nobile come quella che dovrebbe compiere il Male di una bomba atomica, di un gas nocivo o di un’enorme strage a colpi di machete».

Orazio cercava di seguire il discorso dell’estraneo, ma si perdeva, come durante i monologhi nelle recite alla fine ogni anno scolastico.

«Noi, invece, siamo per la vita… e le dirò di più: siamo anche per l’immortalità di tutte le specie viventi. Ci stiamo lavorando sopra, così da costringere i nostri competitors a un capovolgimento della loro inefficace strategia imprenditoriale. Ci rifletta sopra: se tutti venissero sterminati, esisterebbe più qualcuno da far soffrire e da proteggere? Noi perderemmo il lavoro. E questo non sarebbe juste nei nostri confronti. Ma torniamo a noi».

Orazio aveva capito la metà di quello che l’estraneo gli aveva detto. Per lui era impossibile immaginare qualcosa di più coerente di una bomba atomica come simbolo del male sulla terra.

L’intruso aprì le mani davanti a sé, con i palmi in alto, come se stesse pregando o reggendo un libro.

«Giorno: lunedì, numero: 6, mese: dicembre, dell’anno ancora in corso. Lei si trovava a scuola, alle 11 e 15 minuti, in una fredda mattina di sole incerto. Era seduto a una delle cattedre offerte a voi bidelli, per stare comodi quando non avete mansioni da svolgere. Stava cercando di inserire nella colonna 13 verticale il nome del procuratore distrettuale di Gotham City… mi occorre dire con scarso successo. La risposta corretta era Harvey Dent e non il guazzabuglio dadaista che lei stava incasellando. Alla sesta lettera aveva riposto la settimana enigmistica e salutato due maestre. Mentre queste si dirigevano verso le loro rispettive classi, lei capì di che cosa stavano confabulando. Il soggetto era una loro collega: Carmen Delia, di cui Orazio Marchedini è segretamente innamorato», alzò lo sguardo dal libro immaginario e gli fece un secondo occhiolino: «Ha disegnato anche qualcosa per lei, se non sbaglio. Diversi ritratti che non le ha mai mostrato, ma che tiene sempre con sé. Mi piace l’arte figurativa, mi creda, ha dato modo a tanti mantenuti d’incensarsi del titolo d’indagatori dell’animo umano. Li ho sempre trovati soberbios. Gli artisti non sono altro che dei manager mancati. Tornando a noi, le due maestre, riferendosi a una circostanza di quella mattina, dissero, testuali parole: “Quando ha parlato ad Armando dell’entusiasmo dei bambini per il laboratorio di cinema, volevo buttarmi a terra e gridare. Svenevole e inopportuna, come al solito. Non sa fare nient’altro, se non girare per i corridoi con il suo sorrisino da ragazza pompon”. Le due colleghe della signorina Delia avevano poi ridacchiato di quella similitudine alquanto banale, mi lasci dire.

Lei, Orazio, non si capacitò di come potessero essere così meschine e avvertì un’emozione quasi sconosciuta alla sua indole: la rabbia. Pur non avendola cercata, pronunciò una parola, mi creda, una palabra bellissima, un seme linguistico d’insolita raffinatezza: carogne. Conoscendola, non so nemmeno da dove le sia uscita. Ma com’è noto, il nostro cervello la sa più lunga della nostra coscienza».

L’ospite si acquietò, in piedi sulla soglia della cucina. Quando Orazio sentì parlare della scuola, del cruciverba, delle maestre e della donna di cui era innamorato, l’inutile sforzo elettrico dei suoi neuroni si era trasformato nell’antenna parabolica più ricettiva al mondo.

La sensibilità verso i bambini e la passione con cui Carmen svolgeva il suo lavoro non potevano essere motivo di pettegolezzo. Non si chiese come mai l’intruso fosse a conoscenza di quell’episodio e non ricordava di aver usato la parola carogne nel riferirsi alle due maestre; ma appena l’estraneo la pronunciò, Orazio sentì risuonarne la precisione: un senso di disgusto si sposava a pieno con ciò che aveva provato. Il ricordo di quella mattina lo infastidiva ancora, quando l’ospite inatteso continuò con il suo monologo.

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Francesco Montori
Nasco in una città piena di portici.
Dai vent’anni in poi vivo in diversi paesi, fra cui Francia, Germania, Polonia, Egitto, Libano e Siria – dove ho assistito all’inizio della guerra civile. Una volta tornato, collaboro con diversi giornali locali e siti di informazione. Vinco il bando per entrare nella Scuola Superiore di giornalismo di Bologna. Il master però non viene attivato perché non si è raggiunto il numero minimo di ammessi. In quel momento sento mancare la terra sotto i piedi, anche per via della crisi economica.
Decido quindi di reinventarmi.
Seguo un Master in Germania. Da quel momento inizia un’Odissea privata, comune a molti italiani. Trovo lavoro all’estero nel 2014. E nel 2017 entro ad Heineken, dove lavoro tuttora come responsabile di progetti internazionali, viaggiando spesso in Africa e in Europa.
Attualmente vivo a un passo da Amsterdam con la mia famiglia.
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