Prologo
«Pensi sia lei quella giusta?» le sussurrò lui, tenendole la mano e guardando verso il basso.
«Sì, mi piace. È intelligente, forte e caparbia» gli rispose lei sistemandogli la giacca un po’ sgualcita.
«Ce la farà a sopportare tutto?»
«Comprendo le tue perplessità, ma ci saremo sempre noi al suo fianco. Quando nacque ci fu affidato il compito di vegliare su di lei in silenzio e proteggerla, ricordi?» gli rispose sfiorandogli con le labbra la spalla. «Non la lasceremo mai sola nei momenti difficili» continuò abbassando le palpebre e stringendosi a lui.
«Allora è arrivato il momento di avvicinarci, non troppo, altrimenti potrebbe accorgersi della nostra presenza» pronunciò suo marito.
«Non preoccuparti, ci sentirà solo quando ce ne sarà davvero bisogno.»
«Saremo in grado di farlo?» le domandò dubbioso.
«Dobbiamo solo ricordarle che durante il suo lungo viaggio potrà sbagliare e non trovare la strada, ma dovrà sempre andare avanti… a modo suo, ma dovrà sempre essere in grado di farlo» gli rispose in tono perentorio la moglie.
Si scambiarono un ultimo sguardo e, stringendosi in un lungo e silenzioso abbraccio, iniziarono la discesa in un fascio di luce che incorniciava i loro profili evanescenti.
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Da piccola abitavo con i miei genitori e mia sorella Giulia in un piccolo appartamento in un quartiere popolare della periferia occidentale di Napoli, la mia bella città fatta d’Inferno e Paradiso.
La nostra casa affacciava su una distesa di palazzoni di sei, sette piani costruiti nella metà degli anni Settanta, tutti rigorosamente abusivi e senza un piano regolatore. All’epoca molti costruttori, in pochi giorni e con la loro scaltrezza, fecero sorgere veri e propri quartieri; peccato però che nella fretta di alzare il più velocemente possibile quegli edifici, incastrati l’uno nell’altro senza una logica, dimenticarono di lasciare un po’ di spazio alla luce, al verde e all’aria fresca.
La nostra era una casa più piccola rispetto agli standard del luogo e di quel tempo, che ci era stata affittata da una coppia di cugini di mio padre ormai residenti all’estero. Era un bilocale di circa quaranta metri quadrati. Dentro c’era uno stanzone con un angolo cottura e una cucina in muratura, un tavolo tondo e un divano letto a due piazze. Accanto c’era la porta del bagno, lungo e stretto, con delle mattonelle marroni e bianche esagonali e, di fronte, la camera da letto con l’unico armadio a quattro ante che arrivava fino al soffitto. In cucina il divano rimaneva tutto il giorno chiuso e veniva aperto solo la sera dopo cena per permettere a me e a Giulia di dormire. All’epoca io avevo quasi otto anni e mia sorella dodici. Tutte le sere, l’apertura di quel divano era un rito che si svolgeva quasi alla stessa ora (verso le ventuno e trenta) e sempre con la stessa metodica: io aiutavo mamma a spostare il tavolo mentre mia sorella aiutava papà a impilare le sedie per fare spazio. Potrebbe sembrare un’attività noiosa da compiere tutte le sere, ma a noi non scocciava, anzi, finivamo sempre col ridere grazie al buon umore di mio padre che pronunciava la stessa frase, mentre apriva il divano che in poco si trasformava nel nostro lettone: «E anche stasera ci toccaaaa! Prima il dovere e poi la dormita».
Noi ridevamo mentre mamma lo guardava compiaciuta. Erano belli i loro sguardi complici, ed era bello quando io e Giulia ci infilavamo sotto le coperte e loro passavano a darci il bacio della buonanotte prima di ritirarsi nella stanza da letto. Mamma era sempre profumatissima. Odorava di acqua di rose. Se chiudo gli occhi, mi sembra di sentire ancora sotto le narici il suo profumo che si fondeva con l’odore della sua pelle morbida.
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