«Perché capire che la Verità non ci appartiene, ma che noi apparteniamo a essa, non può che spaventare. Non possiamo plasmarla a piacimento, e ogni tentativo, be’… ogni tentativo è destinato a fallire. Non importa se occorreranno minuti, anni, secoli, millenni. Basta un attimo a farci sperimentare l’eternità. E finché non saremo pronti ad accettare quell’attimo puro, come sotto un sole accecante, non possiamo che chiudere gli occhi e tornare a sognare, tornare nella caverna.» Sorrise.
«Da quanto esistete?» fece ancora la voce, proveniente dalla luce accecante del faretto acceso. Era cristallina sopra il costante rumore meccanico della vecchia macchina da presa.
«C’è chi dice da secoli, da quando le cose iniziarono a mettersi male, o da quando i primi partirono e non tornarono più. Altri sostengono che esistiamo da sempre.» Scosse le spalle, ma solo lei poté vederlo.
«E tu cosa pensi?»
«Io penso che sia ininfluente. Se la storia insegna, le cronache difficilmente lo fanno.»
«Ma quindi, cosa siete?»
«Siamo Custos» rispose semplicemente l’uomo.
«Sì, ma…»
«Tu credi sia la funzione a definirci, ma non è così. Non lo è mai stato» la interruppe, prevedendo la sua domanda. Le labbra rosse, che lui poteva solo ammirare nella visione interiore costantemente intenta a sovrapporsi alla realtà, si aprirono dietro l’abbagliante luce, ma rimasero silenziose non appena lui riprese con un lieve cenno del capo.
«Si pensa che ciò che noi possiamo fare sia possibile perché il nostro genoma si è alterato lentamente, nel corso del tempo. Che la nostra capacità di vedere brevemente nel futuro immediato sia il frutto di un’evoluzione. Sostengono che il nostro poterci addentrare tra le pieghe del tempo sia in realtà il risultato di complessi calcoli quantici che la nostra mente ha imparato a elaborare in pochi istanti. Una capacità di compenetrare a fondo la relazione causa-effetto, trascendendola.»
«Ed è così per tutti voi?»
«Non siamo tutti uguali, ma ognuno descrive ciò che può fare, a modo suo. Alcuni di noi erano capaci di vedere pochi minuti avanti, altri decine, almeno per le apokalypses. Per altre intuizioni, invece, molto più avanti.» Fece una pausa. «Altri, compreso l’Ordine stesso, hanno avuto di noi una visione più mistica. Esseri non del tutto umani, capaci di connettersi con il tutto, con l’energia che pervade ogni cosa, di leggere la Verità attraverso la sua manifestazione plurale, modulare la sua vibrazione e interagire con essa, percepire lo spazio e il tempo come un tutt’uno, annullandoli. I mezzi con il quale il velo di Maya è destinato incessantemente a squarciarsi.»
«E tu? Cosa credi?»
«C’è differenza? Modi di dire la stessa cosa e allo stesso tempo incapaci di spiegare la realtà… nella sua essenza. Maschere.»
«Maschere?» Un bagliore rosso e poi una voluta di fumo.
«Che cos’è la Verità?» L’uomo ignorò la domanda, ponendone un’altra.
«Io non saprei…» rispose la donna, improvvisamente a disagio.
«Una buona risposta. Avresti potuto dire qualsiasi cosa, eppure non l’hai fatto. Etsi, den gnorizo.»
«So di non sapere.»
Annuì. «Vedi, ognuno ha una sua declinazione della verità. Tutti percepiscono per la loro stessa natura che ne esiste una sola, eppure ognuno pretende che la propria versione sia la più perfetta. Ognuno le dà una forma, scolpendola in parole, pensieri, azioni, morali, religioni, leggi e sentimenti. E persino costoro, della propria, ne hanno una mutevole… prospettiva, che cambia nel tempo, senza accorgersene. E tutte queste verità entrano in conflitto le une con le altre. Sorgono occasionali nemici e alleati, opinioni e consensi, rivoluzioni e propagande. Io e te. Noi e voi. Ma solo quando qualcuno con la propria semplice esistenza rammenta loro che non può essere così, che esiste una sola Verità, allora quel qualcuno illumina troppe ombre e diviene l’altro, il nemico.»
«È per questo che vi odiano?» Un’altra voluta di fumo uscì dalle labbra rosse. Ora lui poteva vederle con gli occhi ormai abituati alla luce abbagliante puntatagli contro.
«Sì, è per questo.»
«Ma cosa…»
«Cosa ci rende diversi da coloro che ci odiano?» completò di nuovo l’uomo, senza attendere.
La donna trasalì in un brivido. «Lo stai usando ora?» chiese con la voce rotta.
La sensazione di essere stata parte della visione premonitrice del Custos era quasi palpabile. Era percepibile sulla pelle come una gelida brezza causata dalla sovrapposizione temporale. Aveva l’eco di un basso ronzio appena avvertibile ai margini della percezione, e il sapore che rimaneva in bocca, dolceamaro, delle parole incompiute perché già previste. Per un attimo pensò che lui lo facesse di proposito, volutamente, per farle comprendere qualcosa. Il potere di cui loro erano capaci sarebbe stato per sempre così alieno per gli altri, per quelli che non ne condividevano la natura, che non potevano vedere nel futuro? Un futuro. No. Intuiva che non sarebbe stato per sempre così.
«Posso smettere di essere ciò che sono? Esserlo una volta è esserlo per sempre» riprese lui, riportandola alla realtà.
«Io credo che tu abbia ragione» confermò lei placando gli ultimi sussulti provocati dalla vista atemporale dell’uomo sulla sua pelle. «Ma cosa vi rende diversi?» incalzò.
«La Verità non può essere declinata, può solo essere accolta e vissuta. Non perché ci arriva da chissà dove, ma perché noi siamo suoi frammenti da sempre. Non si è detentori della Verità, non si può esserne amanti, né cercatori. Non si può esserne legislatori, bocche e neppure nemici. Solo parte di essa.»
«Servitori?» intervenne la voce di donna.
Sorrise. «Se vogliamo possiamo dire così, ma anche questo, temo, sarebbe frainteso. Noi l’accettiamo. Tutto qui.»
Seguirono alcuni secondi di silenzio, rotto solo dal costante rumore della cinepresa.
«Perché mi hai parlato della Verità?»
«Perché il Doron, il nostro dono, fa sì che essa si imponga e squarci il nostro, il vostro reale. Come spalancare una finestra all’alba a qualcuno che sta dormendo. Le nostre scelte sono uno spiraglio sulla… fede.
«Quando agiamo non possiamo dimostrare di aver fatto la cosa migliore. Non per questo però non andava fatta. E ciò che rimane è la domanda: verrà accettata? O ricorderà a tutti, radicalizzandola, l’onnipresenza tirannica della propria verità? Quando accadrà che il sole della Verità li abbaglierà troppo e una volta di troppo suscitando la loro ribellione? Vedi, molti ormai ci considerano dei vigilantes, freddi, amorali persecutori di una nostra visione della Legge, standone al di sopra, e il cui unico scopo sia quello di prevenire crimini. Ma non è così. Ogni vita che salviamo ha un suo perché, ha un suo scopo, fa parte della Verità, è un ruolo da interpretare in essa. Non ci limitiamo a fermare una mano che sta per uccidere, non evitiamo che un attentato si compi, né impediamo a uno spacciatore di vendere droga a un ragazzino per strada. Noi siamo altro. Eravamo altro.» Una lieve smorfia gli increspò le labbra. «Ciò che siamo è qualcosa di ancora più radicale e… semplice. E il nostro compito non è quello di mantenere l’ordine, ma è molto più antico ed essenziale; il nostro sguardo non si limita, non dovrebbe mai limitarsi, all’immediato. E forse in questo abbiamo delle colpe. Per troppo tempo ci siamo confusi con l’immagine riflessa di noi stessi nei vostri occhi.»
«Con la maschera» aggiunse titubante la donna.
«Con la maschera» convenne l’uomo.
Sentì la penna passare sulla carta e una pagina del blocco note girare.
«In quanti siete rimasti?»
«Pochi.» Si interruppe, le labbra divennero sottili, per poi contrarsi in un moto di concentrazione.
«Dopo ciò che è successo in questi ultimi giorni qui a Neo Babylon, di Custos, dei Custos come li conoscevamo, non rimane nessuno… da quando…» La voce dell’uomo si sospese e le sue labbra si serrarono, immobili.
«Mi dispiace…» La voce si ruppe, rivelando solo allora che anche lei portava la stessa ferita.
Non disse nulla.
Lei rispettò il silenzio e non andò oltre. Dopo un po’ riprese: «Com’è la vostra vita?».
Sorrise. «Difficile a dirsi. Io non so come sia la vostra, posso solo immaginarla, non ho quindi nessun metro di paragone per definire la mia. L’unico modo è narrarla.»
«Raccontami, ti prego.»
«Viviamo perlopiù vagando per le strade. Abbiamo dei rifugi sparsi per la città, ma la nostra casa – sempre che sia una casa – è all’Akropolis. Lo Ieron, il Tempio, come viene chiamato. Dobbiamo tornarci regolarmente, qualora sia possibile. A volte c’è così tanto da fare da impedirci di poter tornare, ma non possiamo mancare troppo a lungo. La burocrazia e i controlli non ce lo permetterebbero. E neppure coloro che vigilano su di noi. In tempi passati c’era chi si allontanava e non tornava più, ma per costoro restava solo una possibilità: l’esilio dalla città. E quindi la morte.» Prese una breve pausa. «Ogni volta che torniamo all’Akropolis, che dormiamo, che non siamo là in mezzo, tra la gente, sappiamo anche che non abbiamo impedito qualcosa che avrebbe potuto essere impedito, salvato qualcuno che avrebbe potuto essere salvato, detto o fatto qualcosa che avrebbe dovuto essere detto o fatto. Come sai, ci è proibito parlare. Se non qualora non sia necessario alla nostra… funzione. Non possiamo farci conoscere, né intrattenere alcun tipo di rapporto con nessuno all’infuori dei nostri fratelli e sorelle. E anche in questo caso, solo e sempre in funzione del nostro scopo.»
«È per questo che portate…» e indicò con gli occhi il pezzo di pesante stoffa nera posato sul suo avambraccio.
«Questa?» La toccò, e lei annuì. «Sì, è anche per questo. Ci rende distinguibili, e sai qual è la pena per chiunque altro si copra la parte inferiore del volto. E per chi ci disubbidisce, naturalmente.»
«La morte.»
«La morte» annuì lui. «Chiunque veda qualcuno indossarla viene preso dal timore, dalla deferenza, e ora sempre di più dalla diffidenza e dall’odio. Cosa, meglio di ciò che nasconde, è soggetto a cambiare la percezione delle persone?»
«E se qualcuno di voi trasgredisse?»
«Vuoi dire come sto facendo io ora?» Poté percepire l’assenso del capo. «Vi sono sorti peggiori dell’esilio e della morte.»
«Ma non possono…»
«Possono e lo fanno, lo hanno fatto. Vite tenute in sospensione forzata, e in passato succedeva anche di peggio. Soggetti per gli esperimenti sulla nostra natura, alcuni ridotti persino a vegetali, altri rinchiusi fino alla follia.» La vide rabbrividire per la consapevolezza improvvisa del rischio che lui stava affrontando.
«Ma perché non potete parlare? Perché vi tengono lontani da noi, incapaci di spiegarci ciò che siete, di conoscervi? Non è giusto.» La sua voce divenne così appassionata e viva, nella sua profonda e umana compassione.
«Perché siamo un pericolo. Noi sveliamo chi voi siete, non tanto e non solo con ciò che facciamo o con ciò che ordiniamo, ma con la nostra stessa esistenza. Noi mostriamo troppo chiaramente la Verità, ma la Verità…»
«… va vissuta» concluse la donna, immersa nel flusso.
Questa volta fu lui ad annuire, e lei ne ammirò il viso calmo, fiero, illuminato dalla luce del riflettore, mentre il resto della stanza giaceva nell’oscurità, ignorando lo schermo che le rimandava solo una parte così insignificante di quel volto che lei, solo lei, poteva invece contemplare per intero.
«E chi indossa una maschera più artificiale, chi ha da difendere una verità più radicale di colui che recita la parte del protagonista? In questo mondo si è scelto di confondere l’autore con i protagonisti…»
«Che differenza c’è?»
«L’autore crea, non è scelto tale; semplicemente lo è. È la sua natura. E la natura, che sia materia o spirito, non è soggetta a votazioni e a opinioni. I protagonisti invece sono la quint’essenza delle realtà create da ciascuno, coaguli innalzati sopra la massa perché portatori di una somiglianza con le piccole vostre identità che vi tengono insieme. Ne sono le idealizzazioni.» Prese fiato. «Conosci le antiche storie dei Titani?» riprese dopo poco.
«Sì, le ho studiate.»
«Abbiamo qui una piccola ribelle?» Sorrise e lei arrossì, ma comprese ciò che lui intendeva.
«E tu…»
«Sì, devo.» Le labbra tornarono a essere sottili e serrate.
«È per questo che hai acconsentito a farti intervistare?» La sua voce tremò, impercettibilmente, vibrando di paura.
L’uomo annuì.
«Qualsiasi sia il prezzo?»
«Non esiste nessun prezzo, solo ciò che siamo. E io sono un Custos.»
«Non hai paura?»
Guardando i suoi occhi, lui seppe che lei ne aveva per entrambi.
«Cambierebbe qualcosa?» Doveva fare quella domanda, quel momento doveva esistere.
«Una volta ed è per sempre» ripeté lei, riferendosi a parole già dette.
Lui sembrò estraniarsi. Lei lo vide nei suoi occhi, eppure percepì il suo sguardo come se si fosse reso presente tutto attorno. La osservava dalle labbra immobili sul monitor alla sua destra, dal buio alle sue spalle e nella luce che vi si rifletteva come nuova, non più artificiale.
Poi tornò a essere solo dentro se stesso.
«E tu hai paura?» chiese lui.
«Prima ne avevo. All’inizio, molta» rispose la donna.
«E cosa è cambiato?»
«Io… credo che prima avessi paura perché non comprendevo le cose come le comprendo ora» sorrise a se stessa, un sorriso spontaneo, di quelli irresistibili.
«Su di noi?» chiese l’uomo conoscendo già la risposta.
«No, non solo. Su ciò che ci circonda, di cui facciamo parte… non so spiegarlo.»
«Nessuno sa spiegarlo. Non agli altri, almeno. È la profonda consapevolezza di far parte di un tutto unico, nonostante i nostri sforzi per dimostrare il contrario e che ci conducono alla vera e unica morte.»
«E perché proprio io?»
«Io. L’eterna tentazione di sentirsi qualcosa di… individuale. Fatale errore.» Orfeo cercò le parole con accuratezza. «Credi ancora che, come i nomi che portiamo, qualcosa possa essere frutto del caso, Euridice?»
«No, non lo credo… non penso di averlo mai creduto.» Abbassò lo sguardo, arrossendo ancora.
«È, semplicemente è.»
Lei allungò la mano. Un click. La bobina rantolò ancora un poco, infine la telecamera si spense e l’immagine sparì dal monitor. Lui si alzò e lei fece lo stesso. Si guardarono immobili, l’uno di fronte all’altra.
Euridice gli prese la mano e se la portò al viso. Orfeo la accarezzò e sentì le lacrime iniziare a scendere, scosse da un unico sussulto.
«Tutto questo… tutto questo avrà delle conseguenze?» chiese con voce flebile, immersa nella carezza.
«Molte» le bisbigliò all’orecchio prima di posare le labbra sulle sue.
Luca Barbieri (proprietario verificato)
Toderi accompagna per mano il lettore in un mondo postapocalittico, allucinato, che si svela piano piano come un paesaggio dapprima nascosto dalla bruma. Appare quindi un pianeta pervertito da una tecnica fine a se stessa e abitato da un’umanità inebetita che solo i Custos possono salvare. Ma non siamo in un banale mondo di supereroi: la salvezza è prima di tutto adesione consapevole a quell’unica Verità che schiaccia con vigore le vuote ideologie del mondo contemporaneo, il monstrum democratico in primis.
Verbum non è dunque un libro distopico a meri fini ricreativi (ma rimane comunque perfettamente fruibile anche da parte di chi cerca “solo” una storia accattivante di ambientazione non banale con cui distrarsi): leggendolo si è portati infatti a riflettere su quelle che si potrebbero chiamare le Grandi V della storia umana: la Verità, che è una e non muta; la Volontà, che è la voglia di (ri)costruire un mondo nuovo, diverso e migliore, e anche di aderire a un preciso messaggio di salvazione; la sete d’infinito dell’uomo, si potrebbe dire; e infine il Verbo, il potere della parola che distingue l’essere umano dall’animale, elevandolo così a quel Tutto a cui appartiene e da cui discende. A quel Verbum che era in principio.
I riferimenti precisi e pertinenti alla storia e alla mitologia greca danno smalto alla narrazione e istituiscono un paragone continuo, a tratti malinconico, con il mondo classico.
L’appendice finale è in realtà qualcosa di più (e non è meramente accessoria): in essa vengono approfondite la storia, la forma di governo e l’organizzazione della società dei Custos. In tal modo la narrazione acquista un apprezzabile spessore supplementare che tradisce il pregevole bagaglio storico-filosofico (interiorizzato e non di maniera) dell’autore.