bassa, un rumore percepito pi. dallo stomaco che dalle orecchie.
da sbrigare, se la pioggia fosse arrivata sin sulla costa. Tutti i pescatori dei villaggi vicini
locanda di Otar. La pioggia voleva sempre dire più guai
che altro, per una cameriera.
frustandole le caviglie pallide. Sebbene Lyara
alla locanda. Era alta, graziosa e sapeva come trattare gli
uomini dalle mani troppo ardite. Le sue gambe da cicogna,
Principe, al termine della salita. Quando si fermò ansimava,
la camicetta le si incollava alla schiena per il sudore.
la città ai suoi piedi. Scrutò l’orizzonte fin dove poteva
giungere il suo sguardo.
assunto lo stesso nome. Nonostante questo, il centro
terre ondulate del Kay. Mura robuste circondavano il borgo,
seguendo il pendio. Nella piana antistante, tutto intorno
altri edifici. La città si era sviluppata parecchio da quando
nobili signori o ricchi mercanti, ma agricoltori e manovali.
dell’abitato. Accanto a lei c’era il Palazzo Principesco,
si alzavano le mura austere delle magioni nobiliari.
della città bassa.
in arrivo. Non aveva dubbi, la tempesta sarebbe giunta
un numero probabilmente pi. che doppio di avventori.
problema – mormorò guardando il Palazzo Principesco.
lo sfarzo e il lusso della corte prima della guerra.
ereditaria era ancora vivido.
le sue sciocche considerazioni. Era una cameriera di taverna,
mai stata accolta a Palazzo. Avrebbe fatto bene a finirla
con quelle stupide fantasticherie.
verde cupo dei campi. Poteva quasi distinguere la curva
che rientravano al porto per attraccare.
– Tutti clienti per Otar, poco ma sicuro – sbuffò.
forte e pieno. La superficie del mare in lontananza era increspata
confine tra terra e cielo.
– Oh, Dei, non mandateci troppi ubriachi, questa sera.
Nubifragio.
Quella era la parola giusta. Non era solo pioggia quella
che cadeva dal cielo. Sembrava che il mare stesso volesse
situata più in alto sul colle per sfuggire al diluvio.
rami abbaglianti. Le acque del golfo rumoreggiavano tanto
che si udiva il loro tonfo sordo persino a quella distanza.
restare solo in un tempo da lupi come quello.
– Altra birra, piccola! – chiamavano da un tavolo.
– Porta del formaggio, Lyara, e del pane! – da un’altra.
Elettricità nell’aria.
Non le piaceva.
Lyara era certa che sarebbe stata quella.
tavoli colmi della sala comune. I boccali che aveva in
subito ancora. Dietro al banco la sagoma massiccia
poter appoggiare i loro boccali.
vostra razione! – gridava. Erano ore che Otar era costretto
fiato in gola. Le cuoche dalla cucina vociavano e facevano
al banco.
– Otar, versami altri sei boccali. Subito per favore! –
disse Lyara all’oste, senza preoccuparsi di controllare se
l’avesse udita.
Prese uno straccio umido e iniziò a pulire più in fretta
che poteva i bicchieri che teneva davanti a sé. Approfittò
del momento di pausa per osservare l’insieme della sala
comune.
Acquascura era situata nella parte più meridionale delle
marche del Nord, vicina ai passi meridionali per Nylamon.
La gente che frequentava la locanda era per lo più
nordica, con pelle e capelli chiari, ma qua e là la carnagione
scura e la chioma nera degli uomini del sud lasciavano
intendere che anche i mercanti meridionali preferivano
una bevuta in compagnia piuttosto che affrontare il
fortunale.
Da dovunque venissero, a Lyara non importava, fintantoché
rimanevano tranquilli.
Il vociare dai tavoli aumentò, e la ragazza con un sospiro
lasciò cadere sul banco lo straccio, raccolse i boccali
che per magia sembravano essersi riempiti da soli, e si
tuffò di nuovo tra i corpi accaldati degli avventori.
L’umidità toglieva il fiato. La sala comune della locanda
aveva il soffitto basso, attraversato da grandi costole di
legno scuro. Quella sera il fumo delle pipe e dei sigari degli
uomini ai tavoli era tanto denso da far bruciare gli occhi.
Ormai era notte fatta, il cielo aveva abbandonato le
tinte fosche del crepuscolo da un bel pezzo e se si fosse
potuta vedere oltre le nuvole, la luna avrebbe fatto capolino
vicina al culmine della sua corsa. Eppure, nonostante
l’ora tarda, la taverna era ancora piena.
– Larya, vieni qui! – grid. Otar, appoggiandosi ai battenti
basculanti che separavano la cucina dalla sala.
La ragazza si fece largo tra gli uomini, scacciando le
mani che si allungavano per tirarle la veste.
– Cosa c’è, Otar? – chiese, stizzita. La folla e la stanchezza
la rendevano nervosa.
– Fai attenzione, ragazza. Il livello della birra nella
botte giù dabbasso si sta avvicinando un po’ troppo al limite.
– E non ne sei contento, grosso bue? – disse lei, lanciandogli
uno sguardo tagliente come una lama.
Otar la afferrò per il collo, e la portò lontano dalla
sala. In cucina Setta e Larisa si muovevano come falchi,
ma sebbene non ci fosse pentola o padella che sfuggisse
alla loro attenzione non badarono al grande oste e alla ragazzina.
– Ascoltami bene Lyara – disse, con occhi pericolosamente
scuri. – L’ultima cosa che desidero in una notte
maledetta come questa, è avere una torma di avventori
mezzi ubriachi che mi distruggano il locale perché non ho
pi. birra da servire. Qui non arriviamo a chiudere i battenti,
se andiamo avanti di questo passo.
– E cosa intendi fare? – chiese lei, ignorando la posa
aggressiva di Otar. Non che l’oste fosse una persona gentile,
Lyara aveva già assistito alle sue discussioni con i
clienti che facevano storie. Teneva sotto il banco della locanda
un bastone liscio e grosso quanto il polso della ragazza,
e non si era mai tirato indietro dall’usarlo quando
era necessario. Una volta aveva persino percosso una
guardia cittadina, finché questa non aveva pagato il conto.
– Sai benissimo come fare, ragazza. Lascia molta
schiuma e non servire troppo in fretta quelli che hanno
già avuto la loro dose.
Layra fece roteare gli occhi – Tutti hanno già avuto
una dose, Otar. Anche due, credo.
– Quindi direi che ne hanno avuta abbastanza, di birra
– disse lui, con un sorriso tirato – Fai quello che devi, e se
ci sono problemi… beh, sai che fare.
Lyara annuì.
I problemi di solito alla locanda di Otar avevano una
sola soluzione.
Nella sala comune la gente rumoreggiava quando Lyara
vi tornò. La confusione era addirittura aumentata, e gli
avventori non defluivano come al solito, dato che la tempesta
là fuori non accennava a diminuire; quelli in piedi
erano numerosi almeno tanto quanto quelli seduti; molti
agitavano il boccale e bevevano. Alcuni addirittura si erano
assopiti (ma come potevano, si chiese Lyara, col fracasso
che c’era?) appoggiati al muro o stavano sdraiati negli
angoli dello stanzone, annegati nei fumi dell’alcol.
Un tuono lacerò il chiasso della sala come una lama
che taglia un lenzuolo, ma dopo qualche istante di timoroso
silenzio gli schiamazzi ripresero con rinnovato vigore.
– Dei, fate finire presto questa pioggia – mormorò a
mezza voce Lyara.
Un uomo dal volto paonazzo la fermò per il braccio,
rivolgendole uno sguardo annebbiato.
– Portami una birra, bella ragazza – il suo alito le ricordava
l’odore di una botte in cui fossero annegati dei
topi – Porta una bella birra al tuo paparino, che ne dici?
Lyara si divincolò, ma l’uomo la tratteneva, stringendo
la sua mano fino a farle male.
– Se mi porti una bella birra potrei anche tenerti per un
po’ sulle mie ginocchia, che ne dici? Le vuoi due coccole
da parte del tuo paparino? – l’espressione dell’uomo era
un misto di euforia e di scherno.
Con un ringhio Lyara afferrò la brocca dal tavolo e
colp. forte la tempia dell’uomo con il fondo spesso del recipiente.
Si udì un tonfo sordo, e gli occhi dell’uomo si
voltarono all’insù. Con uno schianto il suo capo cadde sul
tavolo, dove il suo labbro lasci. un filamento di bava vischiosa.
– No grazie, paparino. Sarà per un’altra volta.
Gli uomini al tavolo vicino, inizialmente interdetti, alzarono
i boccali e vociarono la loro approvazione allo spirito
della ragazza. Un’ottima occasione per un nuovo brindisi.
Pochi minuti dopo, Otar sollevava il corpo ciondolante
dell’ubriaco per sbatterlo di peso in strada.
Ormai la notte era profonda, quando dal bancone per
l’ennesima volta la voce di Otar richiamò. Lyara.
– Piccola, vieni un momento in cucina – le disse sporgendosi
a fatica con il suo ventre prominente al di là delle
assi umide del banco.
– Dimmi Otar, che c’è? – chiese lei con aria stanca, sedendosi
pesantemente su di uno sgabello accanto a Larisa,
che nel frattempo stava impilando le scodelle di zuppa da lavare.
L’oste le indicò il barile della birra.
– Guarda tu stessa. Questo barile . quasi finito, e stasera
ne abbiamo già fatti fuori due. In cantina ne rimane
soltanto uno. Com’è l’atmosfera di là?
Lei si stropicci. lo straccio tra le mani, cercando di
pulirle – Ci sono ancora parecchie persone, sedute. Alcuni
sono in terra, troppo sbronzi per ordinare ancora anche
solo un boccale, ma gli altri per quello che so potrebbero
andare avanti anche tutta la notte. Che cosa faccio, gli
dico che da adesso in avanti serviamo solo acqua?
– Non dire sciocchezze, Lyara. Una serata come questa
non ci capita più, te lo dico io! Piuttosto, credo che a questo
punto un po’ d’acqua nel barile non darò fastidio a nessuno,
non pensi?.
Lyara si pass. la mano tra i capelli – Che ora è?
– Un’ora dopo la mezzanotte.
– È tardi. E se li mandassimo via?
Setta, lì accanto, rise sguaiata. – Chiudere con questa
pioggia? Sei matta, Lyara! Quelli abbastanza sobri per
tornare a casa non metterebbero più piede qui dentro, e gli
altri sarebbero capaci di andarsi ad ammazzare sulle gradinate
per la città bassa.
Larisa sghignazzò con lei, mentre entrambe tornavano
a rassettare le stoviglie. Facile parlare per loro, pensò
Lyara, la cucina non è tenuta a rimanere aperta tutta la
notte.
– Se non possiamo avere altra birra, allungheremo
quella che rimane.
– Otar! – disse lei, battendosi la mano su una gamba. –
è contro la legge!
– Lo è solo se qualcuno si accorge della differenza.
Guardali Lyara. Sono più ubriachi dei parenti di Setta al
suo matrimonio. Potremmo dargli brodo di pollo invece
che liquore, e loro brinderebbero alla mia salute.
– Niente da fare grassone. Non finirò nelle segrete del
Reggente insieme a te.
Otar sorrise, sardonico.
– D’accordo, ragazza. Si dà il caso però che la cucina
sia rimasta a corto d’acqua.
Lyara guardò l’oste con gli occhi stretti.
– Devo tornare di là grassone disonesto. L’acqua per la
tua birra falla prendere a Randyll.
Gli occhi di Otar brillarono, e per un istante Lyara
ebbe il timore che potesse colpirla. Per quanto la trattasse
come un membro della famiglia, l’oste sapeva essere severo.
– Fila a prendere due secchiate d’acqua al pozzo, Lyara.
Con uno sguardo astioso, la giovane ragazza afferrò i
manici di corda dei secchi, e uscì sotto la pioggia.
Il temporale per sua fortuna stava placandosi, e gli
scrosci di pioggia non erano più così torrenziali. Sentiva
il suo abito leggero che le aderiva addosso come una carezza
gelata.
– Vecchio maiale! Che gli Dei ti portino all’inferno! Se
vuoi annacquare la tua birra potresti almeno andare al
pozzo sulle tue gambe – borbottò la ragazza.
Gli edifici della città alta erano scuri di pioggia, ma la
pietra bagnata rifletteva ogni luce, creando bagliori spettrali
nella notte intorno a Lyara.
Sospirando e proteggendosi al meglio dall’acqua, la
giovane corse con passo leggero su per la salita verso la
piazza. Si muoveva come uno spettro tra le case, facendo
ogni tanto sbatacchiare le due tinozze di legno che portava,
colpi secchi rapidamente inghiottiti dalla pioggia sul
selciato.
Giunse alla Piazza del Principe. Al centro era stato costruito
secoli addietro un piccolo pozzo, profondo e stretto,
che in origine serviva ad rifornire la fortezza costruita
dove ora sorgeva il Palazzo. Aveva un muretto basso, in
pietra, e un tettuccio di legno a cui era legato il piccolo
argano per calare il secchio. Lyara fece ruotare la manovella,
e il secchio discese nelle tenebre. Tirarlo su colmo
era decisamente più faticoso, e sebbene la pioggia l’avesse
infreddolita fino alle ossa quando ebbe finito di riempire
i due secchi di legno aveva le gote in fiamme.
Fermò con il gancio il meccanismo del pozzo, quindi
si adagiò sulle pietre, tirando un respiro profondo.
L’autunno stava arrivando con rapide falcate, e ben presto
le piogge sarebbero state frequenti. Non sapeva se avrebbe
retto una serata come quella, se si fosse ripetuta in futuro.
Sentiva l’orlo della gonna che le si arricciava sulla
gamba, mentre cercava una posizione pi. comoda sul muretto
di pietra, e con la mente annebbiata dalla stanchezza
lasci. i suoi sensi vagare.
Era consapevole di ogni rivolo d’acqua piovana che le
scorreva addosso, sentiva un ruscello freddo che le colava
lungo la schiena, il fastidioso gocciolare dalla gronda intasata
del pozzo che le colpiva la spalla, i piedi zuppi dentro
le scarpette di cuoio che indossava.
Sull’acqua, nei secchi di fronte a lei, si disegnavano
migliaia di piccoli cerchi, come se un’intera trib. di folletti
invisibili vi stesse danzando sopra.
La notte era silenziosa, il borgo della città alta deserto.
Inspirò a fondo l’odore ricco dell’aria umida, così pieno
dopo l’atmosfera fumosa della locanda. Sentiva che almeno
un po’ della tensione si scioglieva, la rabbia nei
confronti di Otar si stemperava, lasciando dietro di s.
solo la sensazione di una stanchezza terribile.
Era strano sentire la città così quieta, nessuna guardia
a fare la ronda, nessun avventore che si metteva in cammino
verso casa. Nemmeno i cani abbaiavano quella notte.
Tutto era calmo.
Nel momento in cui Lyara stava quasi per assopirsi,
però, un urlo agghiacciante risuonò tra gli edifici di pietra.
Un grido terribile, un lamento così disperato da farle
portare d’istinto le mani alle orecchie.
Il cuore le galoppava nel petto, frullando come una
rondine in gabbia. Cos’era stato? Da dove veniva?
Tra le vie si spense anche l’ultima eco di quel suono
lancinante, lasciando un silenzio ancora più greve dietro
di sé. Lyara stette immobile per qualche istante, finché
non fu scossa dai suoni di qualche imposta lontana, e da
qualche voce che chiamava per sapere cosa fosse accaduto.
Qua e l. si accesero delle luci, nelle case del paese, e
dietro i vetri Lyara vide comparire volti pallidi, intimoriti.
Nessuno, però, la raggiunse nella piazza.
Per le strade di Acquascura quella notte poteva esserci
chiunque, immaginò. Qualunque cosa, mostri che si muovevano
nella città deserta, tra le ombre illuminate dai riflessi della pioggia.
Un brivido la percorse.
Da dove veniva il grido?
Chi l’aveva lanciato?
Solo di una cosa si sentiva sicura: quello era il grido di
una persona che aveva incontrato la morte.
Raccolse i secchi, e dimenticando il freddo e la pioggia
mosse qualche passo verso il vicolo da cui era giunta.
E se chi aveva gridato non fosse morto?
E se avesse bisogno d’aiuto?
Lyara scosse con decisione il capo. Non erano affari
suoi. Non era una guardia, non poteva fare nulla se non
mettersi al più presto al sicuro. Senza dubbio anche alla
caserma e ai posti di guardia avevano sentito. Doveva
solo fare come quella gente dietro alle finestre, essere
cauta e non esporsi.
Però le era sembrato vicino. Molto vicino.
Lasciando cadere tutti i pensieri di prudenza, contro
l’istinto che le urlava prepotentemente di togliersi di mezzo,
posò i due secchi di legno a terra.
Percorse la piazza, fino a potersi sporgere dall’altra
stradina che vi si immetteva. Solo uno sguardo veloce, si
disse. D’altra parte erano pochi passi, e se avesse lasciato
i secchi lì sarebbe potuta scappare molto più in fretta.
Un singhiozzo.
L’aveva sentito distintamente, anche se la pioggia batteva
ancora sulle pietre del selciato.
Un vicolo poco distante si diramava dalla viottola,
stretto e scuro. Non era illuminato dalle lanterne, ma era a
pochi passi dalla piazza. Solo pochi passi da dove si trovava lei.
Seguendo il profilo del muro, protetta dal lembo di tetto
del palazzo al suo fianco, percorse con le gambe tremanti
quei pochi metri che la separavano dal vicolo.
Lanci. uno sguardo rapido, sporgendo la testa oltre l’angolo.
Tenebra.
Le ombre degli edifici circostanti inghiottivano qualunque
cosa ci fosse in quel vicolo.
Lyara inspirò a fondo, iniziando a pensare che fosse
una follia rimanere là. Era solo una sciocca ragazza curiosa,
peggio delle stupide servette delle nobili signore che
infestavano i palazzi lì intorno. Loro erano un branco di
stupide ochette, ma in quel momento sarebbero state ben
distanti dalla piazza, dai vicoli e soprattutto dalle ombre
in cui creature misteriose singhiozzavano…
Un suono. Un rumore soffocato, come un gemito. Poi
forse un passo, il tacco di uno stivale. Il cigolare del cuoio.
Un lampo improvviso illuminò la notte, trasformando
la strada buia in un dipinto in bianco e nero che si fissò
nelle iridi di Lyara.
A pochi metri da lei.
Un uomo, in piedi.
Fermo, di fronte al fagotto scuro che era la sua vittima.
Fermo, con lo sguardo fisso verso di lei.
Lyara non potè trattenere un urlo, un grido che rimase
strozzato dalla paura che le attanagliava la gola.
Le ombre tornarono a colmare il vicolo, ma la ragazza
terrorizzata sentì i passi dell’uomo dirigersi verso di lei,
sempre più vicini, sempre più veloci.
Le stava correndo incontro.
Le gambe della cameriera erano diventate di pietra,
due inutili appendici che la tenevano ferma in quel punto.
Da qualche parte nella sua mente sapeva che si stava
comportando come una lepre terrorizzata, che forse era
tardi per scappare, ma che correre via più veloce che poteva
sarebbe stata la cosa pi. furba da fare in quel momento.
Quella parte del suo cervello per. non era quella
che governava le sue gambe, ancora immobilizzate dal panico.
Percepiva la corsa dell’uomo verso di lei, solo pochi
istanti e mi sarà addosso pensò Lyara.
Sentiva sopra la pioggia il raschiare del suo respiro, lo
schioccare del suo mantello.
Era su di lei.
Un calore intenso, febbrile, emanava dal corpo scuro
dell’uomo. Lyara vedeva la sua sagoma che usciva dal vicolo,
come una nube di tenebra. Un mantello dalle larghe
falde. I passi veloci, ma incerti.
Il suo respiro era un ansito, raschiava l’aria come un
pezzo di corteccia polverosa. Caldo. Ardente.
Un paio d’occhi si fissò nei suoi, in quell’istante. Il
suo viso era un’ombra, ma gli occhi di quell’uomo catturarono
la luce delle lanterne lontane, brillando di luce
propria.
Lyara sentì che finalmente le sue gambe si scioglievano,
anche se quella consapevolezza giunse come ultima,
flebile informazione prima che il suo corpo si accasciasse
al suolo privo di sensi.
Le voci concitate di molti uomini la circondavano. Un
brusio confuso intorno al suo capo, poi ebbe la sensazione
di essere abbracciata. Qualcuno la stava sollevando.
Lyara aprì gli occhi, le palpebre potevano anche essere
fatte di piombo per quanto le era difficile tenerle sollevate.
Davanti a lei c’era il volto grasso e rassicurante di
Otar. Era lui che l’aveva raccolta dal suolo. I suoi radi capelli
erano incollati al cranio, lo sguardo perso nelle caverne in cui
sembravano sprofondati i suoi occhi. Intorno
a loro una coppia di lanterne illuminava l’incrocio, facendo
danzare le ombre.
Lyara seguì la direzione dello sguardo dell’oste, che
ora era ammutolito. Anche coloro che erano venuti con
lui stavano in silenzio. Capì immediatamente perché.
Nel vicolo, dove in precedenza stava ritto in piedi
l’uomo, giaceva a terra riversa una persona. Il fagotto che
aveva intravisto nella luce del lampo era un cadavere.
Fece fatica a capire che si trattava di una donna, data la
sua posa innaturale. Stava distesa sulla schiena, così arcuata
e contratta da sembrare sul punto di spezzarsi. Le
braccia erano sollevate come a coprire il capo da un urto.
I gomiti ossuti ricordavano a Lyara dei rami spezzati. Le
mani erano rigide come il resto del corpo, le dita ritratte
come in un istante di agonia.
Se possibile, però, il volto della donna era anche peggio.
Gli occhi sbarrati erano rivoltati, e non mostravano
l’iride. Aveva le labbra tanto contratte da rivelare le gengive
annerite e una chiostra di denti che sembravano d’avorio
nella luce eterea della notte. Sulle guance incassate gli
zigomi erano lame d’aratro che solcavano il volto. Un rivolo
di bava schiumosa si stava mescolando alla pioggia,
cadendo sulle pietre scure del vicolo.
Emise un gemito.
Non era morta.
Sconvolta da quell’orrore, Lyara svenne di nuovo.
Al suo secondo risveglio, la giovane si trovò in un letto
caldo. Era asciutta, e calda. Non era nella piccola stanza
che divideva con Setta e Larisa, però. L’arredo non le
diceva nulla, anche se il mobilio era di legno pregiato.
Intorno a lei diverse figure si alzarono, vedendo che
stava riprendendo conoscenza. Ormai il sole era sorto, ma
Lyara non avrebbe saputo dire che ora del giorno fosse.
Lentamente riaffiorò alla memoria il motivo per cui era
svenuta, e il suo stomaco si contrasse.
Ricordava il grido nella notte.
Ricordava l’uomo nero che bruciava come un demone.
Soprattutto, ricordava il corpo rattrappito della donna
riverso nel vicolo.
Vide, chino su di lei, un uomo dagli abiti di lana e velluto.
Sul suo colletto brillava una spilla dorata che ancora
non riusciva a mettere bene a fuoco.
Cercando di schiarirsi dalla nebbia dell’incoscienza, si
rese conto di dove fosse: il Palazzo dei Principi. Se non
fosse stata tanto sconvolta, si sarebbe messa a ridere. Alla
fine ce l’aveva fatta, ci era entrata.
– Lyara, mi senti?
La voce che la chiamava non era quella di Otar.
– Lyara, ti senti meglio? – una mano maschile, calda e
morbida la accarezzò sul viso. Di certo non era la mano di
Otar. Le sue erano piene di calli e di bozzi.
– Dimmi, piccola: che cosa è accaduto ieri notte nel vicolo?
Lei si voltò verso di lui, cercando il suo volto.
Come aveva intuito prima, non erano soli. Tante figure,
uomini e donne, si stavano assiepando intorno al suo
giaciglio. Vide al fianco di alcune figure la forma allungata
del fodero di una spada.
Lei aprì la bocca, ma non le venne alcuna parola.
– Lasciatela respirare – disse una voce femminile. – Indietro,
non accalcatevi!
Madre Tamea, del Tempio. Sicuramente era lei.
Sentì un tocco fresco ora, sulla fronte.
– Cosa ricordi, piccola incosciente? Dicci, che cos’hai
visto nel vicolo ieri notte?
Lyara si concentrò. Non era sicura di voler ricordare
quel particolare.
– Oro… – disse, con voce asciutta. Si schiarì la gola.
– Quell’uomo… aveva occhi d’oro.
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