In ogni caso, ogni volta che questo pensiero crepuscolare si affaccia alla finestra della mente, una strana sensazione di profonda serenità mi pervade. È come se fossi in trance. È come se, in un modo o nell’altro, queste immagini, questi frammenti di un ricordo più o meno lontano e senza un senso apparente, siano a me familiari e mi conducano piano piano alla quiete.
Per spiegarmi meglio: nei momenti in cui mi abbandono a questo sogno ricorrente, mi sento come chi, con un sentimento misto di malinconia e di pace, è seduto sulla sabbia in riva al mare mentre osserva il tramonto e, proprio in quel momento, nel mare fermo, così grande e vasto, vede e ritrova la pace dei sensi. Come chi, nella silenziosa solitudine della montagna d’estate, attende su una panchina – con l’animo colmo di pace – che tra una vetta e l’altra si faccia spazio il sole che va a riposare macchiando qua e là il cielo come le tempere su una tela.
Ogni volta che mi affiora alla mente questo flusso di immagini è come se – davanti a una madeleine proustiana – affondassi in vorticose reminiscenze.
Il ricordo ha in sé qualcosa di divino: è il mezzo attraverso il quale tutti noi guadagniamo l’immortalità; vivere per sempre nella testa e nel cuore di qualcuno è qualcosa che ha in sé la potenza dei miti greci. L’eternità dell’anima che rivive in ogni pensiero, in ogni rievocazione della vita, in ogni lampo di luce che accende un faro nel buco nero della mente umana e che squarcia l’oscurità nera come la pece che rabbuia i cuori feriti dei più.
Ma il ricordo è anche la virtù, gratuita e alla portata di tutti, che ci permette di cristallizzare nella mente, per molto o poco tempo non importa, qualcosa o qualcuno. E così, senza nemmeno accorgercene, trascorriamo la vita collezionando quelli che un domani saranno ricordi.
Il ricordo – specialmente quello di una persona – è il mezzo più potente che ci è dato per appuntare in noi stessi alcuni frammenti e alcune immagini nella speranza che un giorno, prima o poi, si compongano in un puzzle perfetto e vengano a bussare tuonanti nella nostra testa. Il ricordo, un po’ come il dolore, è un compagno di viaggio, a volte scomodo, a volte salvifico. Il trucco – se mai ce n’è uno – è imparare a conviverci, riesumarlo non appena affiora alla mente, senza relegarlo nei luoghi più reconditi della nostra memoria.
Il ricordo va coltivato. Ognuno ha un modo tutto suo e non ne esiste uno più efficace degli altri. C’è chi ne trova frammenti nel silenzio, chi nelle note di uno strumento musicale, chi in un libro d’infanzia, chi nelle eterne e indelebili foto che, inspiegabilmente, sono fisse e ferme nella mente. L’importante è ascoltare se stessi, i propri bisogni e assecondare il ricordo ogni volta che si palesa.
Il ricordo, però, non dev’essere forzato. Il fatto di non riuscire ad avere immediatamente una precisa reminiscenza di qualcuno o qualcosa non significa che in noi non esista alcun frammento di un ricordo di quel qualcuno o qualcosa. La memoria, come capacità di evocare un ricordo, va dunque attesa, aiutata. Più semplicemente, occorre dare al tempo la possibilità di ricomporre i tratti di un’immagine e di renderci maturi e pronti per poterla affrontare.
Insomma, solo l’ardente desiderio di un ricordo o di un suo frammento – e non invece il solo sogno – ne consente e ne agevola la rievocazione. I desideri, possono, infatti, realizzarsi; i sogni, invece, proprio perché frutto dell’inconsapevolezza umana, laddove non realizzabili in concreto, rischiano di diventare ossessioni.
Sfortunato è dunque colui che non ha la forza del ricordo e che non godrà mai dei frammenti eterni che lo compongono.
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