Non fu facile arrivare a quell’appuntamento perché dovetti convincermi innanzitutto che avessi davvero un problema, di quelli che non puoi risolvere con la solita compressa che hai imparato a mandar giù automaticamente quando avverti uno specifico dolore. Manco fossi un medico, poi. Cioè dovrei consultarmi sempre con quello di famiglia prima di prendere o meno un farmaco, prima di cominciare o sospendere una cura. Se non fosse, però, che il mio medico è sempre stato uno di quelli neutrali, che non ti dicono mai cosa devi fare. Lui si limita a darti un consiglio. Come se la medicina fosse un fatto soggettivo, come se prendere o meno questo o quel farmaco fosse un fatto di gusti. Come se “Oh ma stasera? Due Brufen in compresse da 600 mg da me?”. Lui è fatto così, non si sbilancia mai, nemmeno davanti a dei chiari sintomi di infarto in corso. Giuro, non sto scherzando. Un giorno mio padre fu rispedito a casa dopo essere stato in visita da lui con un «Controlla la pressione, io aspetterei prima di allarmarmi». Il giorno dopo fu operato d’urgenza al cuore e se non fosse andato al pronto soccorso forse, quella notte, ci avrebbe rimesso le penne. Un gran bel tipo il mio medico. Mi son perso, cosa stavo dicendo? Ogni tanto divago, parto e non torno più. Ah, sì, le pillole buttate giù in autonomia!
Insomma, ho sempre fatto da me, ho imparato a conoscere e riconoscere i segnali che il mio fisico lancia quando qualcosa non va. Ho imparato a gestirmi, se devo dirla in poche parole. Ma quella volta, non andò come tutte le precedenti. A farmaco ingerito non corrispondeva la reazione attesa, non riuscivo più ad avere il controllo della reazione, come se fossi in grado, prima, di predisporre il mio corpo all’effetto di quel medicinale. Una sorta di immenso effetto placebo generato dal mio cervello ancor prima di fagocitare qualche pillola. Ma in quel periodo qualcosa stava andando storto. Dopo settimane di passione, dovetti dismettere tutte le mie convinzioni e affidarmi a qualcuno che, dicevano, ne sapeva “a pacchi”.
La spiegazione del dottore, sotto un certo punto di vista, mi confortò. Si, perché fino a quel momento ero convinto di avere chissà quali malattie, come se dentro di me si fosse scatenato un gioco al massacro tra la volontà e il funzionamento delle viscere. Che poi, pensandoci bene, non hanno volontà. Loro subiscono il corso degli eventi reagendo agli stimoli come un bambino imbeccato dalla mamma. D’altro canto, quelle parole, mi preoccuparono. Perché per la prima volta mi ero dovuto confrontare con qualcosa che sfuggiva al mio controllo, al regolare espletamento delle funzioni vitali che il corpo mi aveva finora assicurato. Riflettendo su quanto detto dal dottore, cominciai a ricostruire tutti i miei comportamenti e mi resi conto che aveva dannatamente ragione. Non che lo facessi volontariamente, era una reazione inconscia, un riflesso incondizionato. Si, ma reazione a cosa? Chiaro, a tutte le paure, a tutti gli impacci che ingorgavano gli impulsi elettrici del mio cervello al punto da mandarlo in tilt e, con sé, tutto il baraccone che si trascinava dietro. Il cuore cominciava a pulsare forte, la lingua sbiancava come stinta dal sole, le ginocchia si piegavano come spinte, da dietro, dai calci di un inafferrabile nemico.
Per questo motivo, tra le svariate malattie che mi ero auto-attribuito, in cima a tutte c’era il mal di cuore. Mio nonno è morto d’infarto, mio padre ci è andato vicino, io ci avrò sicuramente a che fare, è soltanto questione di tempo. Non avevo tutti i torti a pensarla così. Immaginate se un giorno, di punto in bianco, vi mancasse l’aria e, contemporaneamente, avvertiste una fitta lancinante allo sterno, all’altezza del cuore. Voi a cosa pensereste? Ad un infarto, chiaro! È facile fare i duri dopo, ma in quel momento pensi al peggio! Immaginate se un giorno, senza un vero motivo apparente, sentiste le mani sudare e il bisogno insensato di correre via dal posto in cui vi trovate perché, di colpo, non riconoscete più nulla. Tutto attorno sembra estraneo, minaccioso, fuori dalla vostra dimensione abituale. Voi cosa fareste? Restereste li immobili facendo finta di niente, oppure urlereste aiuto a qualcuno? Io ero a metà strada tra le due soluzioni: rimanevo immobile chiedendo aiuto. Pensando, sperando che poi sarebbe passata.
La spiegazione del dottore mi aveva dato conferma che la mia non era paranoia (o non solo, per essere onesti!) e che quelle fitte erano reali così come il dolore fisico che provavo. Attenzione, però. Mi aveva spiegato il meccanismo di funzionamento alla base di quei dolori, provocati da uno stato d’ansia che induce a fare grandi sospiri e a buttar giù, continuamente, grandi masse d’aria. Io, però, ero nel suo ufficio per risolvere il problema di quelle maledette fitte intercostali, di certo non quello dell’ansia! Avevo bisogno di una diagnosi per potermi curare, così mi accontentò.
– Gastrite Nervosa. È una particolare infiammazione della parete interna dello stomaco che ha come causa scatenante lo stress intenso o stati di ansia molto forti. È una malattia psicosomatica, può colpire chi vive momenti fortemente stressanti o è particolarmente emotivo.
Quindi: una compressa di Omeprazen da 10 mg per rilassare le pareti dello stomaco, da prendere soltanto quando si avvertono le fitte, fermenti lattici con vitamine del gruppo B e zinco da prendere continuativamente per regolarizzare la flora batterica, venti gocce di valeriana per rilassarsi quando si ha voglia di correre via. Questa era la cura che mi aveva prescritto. Era finita, finalmente sarei tornato alla vita di sempre. Non che la rimpiangessi particolarmente, per carità. Ho sempre avuto, in tutti questi anni, dei momenti in cui cervello e corpo si scollegano al punto da non capire più cosa sia vero e cosa sogno, ma mai come quella volta, mai mi era capitato di perdere il controllo per tanto, troppo tempo. Con quella cura, invece, era tutto finito, tornavo perlomeno a quel periodo nel quale avevo il potere sul mio corpo senza dovermi preoccupare di ciò di cui avesse bisogno, di ciò che fosse o meno in grado di fare.
Ma come tutte le cose della vita, non fu cosa semplice, quella situazione sarebbe durata più a lungo rispetto alle mie previsioni. Quelle fitte non svanivano, presentavano puntualmente il conto senza darmi il minimo sentore di attenuarsi. Così trascorrevo le mie giornate in un perenne stato di tensione, in continuo ascolto dei più piccoli sussulti del mio corpo. Un piccolo dolore, una leggera fitta faceva subito scattare l’allarme e via di Omeprazen da 10 mg. Il più delle volte riuscivo a tamponare così, ma quella insensata voglia di correre si ripresentava con una certa frequenza e allora ci andavo giù pesante con la valeriana, venti gocce a corsa. Capii che quegli attacchi prima o poi sarebbero arrivati, che non potevo evitarli, così pensai di prevenirli ingurgitando al mattino, ogni giorno, quelle pillole. Geniale, vero? Se non fosse che da quelle, dopo la prima settimana, ne divenni completamente dipendente. Perenne non era diventato soltanto il mio stato di malessere, ma anche il bisogno di una prospettiva che comprendesse non soffrire almeno per un giorno, non star male almeno per due di seguito. Di tamponare, insomma, quella ferita che sgorgava senza arrestarsi.
Così ripresi pian piano a vivere quella nuova normalità, con le tasche del giubbino e dei pantaloni sempre piene di farmaci. Portavo sempre con me: due compresse di Omeprazen da 10 mg, la boccettina di valeriana, quella dei fermenti lattici con vitamine del gruppo B e zinco, due compresse di Tachipirina 1000, due bustine di Oki da 80 mg in polvere, due di Moment, due di Dissenten da 2 mg. Al minimo impercettibile sintomo, che un normodotato avrebbe a malapena avvertito, zac, tiravo fuori la pillolina e tutto era apposto. L’imperativo era “non soffrire”! Gli amici ormai mi avevano soprannominato “il farmacista”. Avevi mal di testa? Eccoti un moment! Febbricitante? Ti ci vuole una tachipirina! Ormai non domandavano più se avessi un farmaco, me lo chiedevano e basta. Il beauty da viaggio era pieno per ¾ di medicinali. Il cassetto del comodino accanto al letto era equiparabile a quelli senza fondo delle farmacie. Insomma, ovunque fossi, ero in salvo!
Dopo qualche mese di questa delirante routine farmacologica, mi capitava saltuariamente, per puro caso, di non avere sotto mano il farmaco giusto, di uscire e dimenticarlo a casa, di accorgermi che il blister era vuoto. Panico. Mani che sudano, il cuore che sembra di vederlo saltare sul filo della pelle, gambe che non reggerebbero nemmeno i vestiti. Poi, dopo venti minuti, un’inattesa calma. Ma poi di nuovo il sudore e ancora la pace, avanti così per un’ora. Passata quella fase, mi sentivo quasi libero, sciolto da un tepore insolito, rassicurante. Ma come, i farmaci non facevano più effetto? Anzi no, i farmaci avevano dato l’effetto sperato e adesso, finalmente, ne raccoglievo i benefici?
Così cominciai a ripensare alle parole del dottore, pronunciate in quello Studio mesi prima. «Dell’ansia, signore, dell’ansia». D’un tratto mi accorsi che l’unica domanda che non mi ero mai posto era “perché?”. Si, perché l’ansia? Ok, a ciascuno il suo male, mica si sceglie, ma volevo capire da dove venisse quell’ansia. In effetti quelle vagonate d’aria che ingurgitavo ogni giorno esistevano davvero, ma perché lo facevo, perché sospiravo? A questo non avevo mai pensato. Che idiota, non ero stato capace di pormi l’unica domanda che mi avrebbe potuto davvero aiutare!
Abbozzai delle ipotesi e capii che quegli impacci che mandavano in tilt il mio cervello erano anch’essi il riflesso di un altro disagio e non la causa di questo malessere. Ne erano la conseguenza, non il motivo! Cominciai a pensare a quello che mi era successo nell’ultimo anno: il trasferimento nella metropoli, la fuga dall’inquilino selvaggio, le aspettative verso un sogno che si era rivelato tutt’altro che all’altezza, il secondo coinquilino demente con il quale ero costretto a condividere la stanza, i muri squallidi e grigi di una città ancor più grigia del cielo che le sfiorava la testa. Era cominciato tutto lì. Una reazione allo stress, alle paure, alle aspettative. Un blackout totale. Mi era capitato altre volte, ma mai come quella. Non riuscivo ancora a darmi una spiegazione di quel crollo, ma averlo riconosciuto, averne capito i meccanismi di funzionamento mi aveva permesso di comprendere che qualcosa, in me, si rompesse ciclicamente e che quello, quello era il vero male con il quale avrei dovuto imparare a convivere. Dei crolli fisici e mentali apparentemente inspiegabili, improvvisi, che invece trovavano una spiegazione, affondavano le radici nell’emotività del mio carattere, nel modo di percepire e vivere le cose che accadono attorno. Imparare a gestirli, saperli riconoscere e soprattutto reagire. Questa era la vera sfida!
Mi sentii così stupido per essermi imbottito di tutti quei farmaci. Avrei dovuto prendermi cura della testa e invece ero troppo occupato nel mettere pezze a colori su tutti i dolori che sentivo in corpo. Certo, non era facile, stavo male per davvero. Ma se quelle pillole, dopo mesi, non avevano risolto il problema, allora che senso aveva continuare? Così, con immensa fatica, poco a poco cominciai a disintossicarmi dalla valeriana e da tutto il resto e ci riuscii soprattutto grazie alla convinzione che quei farmaci non sarebbero serviti a farmi stare davvero bene. Certo, anche adesso, a distanza di anni, il cassetto del comodino accanto al letto è ancora pieno di medicinali, così come il beauty da viaggio, la soglia del dolore è sempre bassa, il ricorso al farmaco è sempre la prima soluzione, ma almeno ho smesso con quegli anestetici. Già perché, lo capii soltanto dopo, quei medicinali avevano il solo scopo di anestetizzare lo stomaco in modo da non farmi più avvertire le fitte, i riflessi, le gambe e le braccia per non sentire quella voglia di scappar via. Il risultato era un corpo inerme, incapace di reagire agli stimoli. Capii dopo, invece, che l’unica cura possibile era restare sempre in ascolto dei propri umori, delle sensazioni, delle emozioni. La soluzione era ascoltare, non soffocare! Solo così avrei imparato a gestire quella mia condizione. Perché il grande equivoco alla base di tutto, era che a questo malessere ci fosse la soluzione. Quando capii di non essere davvero malato, che non c’era nessun cancro da sconfiggere, mi sentii libero. Perché l’unica cosa che avrei potuto fare era imparare a gestire la mia emotività. Nulla di più semplice, niente di più complicato!
Il dottore mi aveva spiegato che quelle fitte terribili che facevano assaporarmi il gusto della morte con così tanto anticipo, in realtà erano semplicemente “aria”. Si chiamava Gastrite Nervosa. Se mi avesse spiegato anche che tutte quelle medicine, che mi avrebbe prescritto di li a breve, non sarebbero servite a nulla se non mi fossi preso cura della mia testa, forse mi sarei risparmiato tante pene. Oppure no, magari sarebbe andata lo stesso così. Sicuramente, adesso, avrei nel portafogli 100 € in più.
– 120 con fattura, 100 senza.
– Senza, grazie.
Fede Papicchio
Non vedo l’ora di avere il libro tra le mani!
Mattia Biondi (proprietario verificato)
Ho avuto la fortuna di conoscere Andrea, mi sento che farò parte di quelle persone che leggendo il libro penseranno “anch’io”.
Gabriele Garavini (proprietario verificato)
Conoscendo Andrea, sicuramente non deluderà.
Domenico Leone (proprietario verificato)
Non vedo l’ora di leggerlo… il tema è interessante… e già nell’anteprima mi ha incuriosito…