Mi hanno sempre fatto salire il vomito i cartelloni elettorali giganteschi lungo i viali, alle porte della città, quelli con i faccioni enormi, improbabili, imbruttiti, tappezzati qua e là di slogan privi di originalità, svuotati di ogni senso logico. Me l’immagino, i grandi strateghi della comunicazione politica, seduti attorno a un tavolo cercando l’incastro perfetto, il gioco di parole audace. Magari a fine serata si alzano fieri, orgogliosi di aver trovato la frase unica, quella mai scritta prima, con la foto a ritrarre il politico di turno nella posa affascinante, seria ma non troppo, buona come immagine del profilo su Facebook.
Mi hanno sempre fatto salire il vomito quei faccioni lì. Perché l’ho sempre saputo che dietro quei volti di carta si nascondono i peggiori uomini di plastica, dalla reputazione di facciata, dai grandi sospetti, dalle tante voci ma nessuna prova. Fino a quando un giornalista, un giudice, un avversario tira fuori lo scandalo a sfondo sessuale e l’intercettazione compromettente per escluderli prima ancora di sedersi al tavolo da gioco.
Non parlo per sentito dire, credetemi, io li conosco, ci ho avuto a che fare. D’altronde è inevitabile, perché tutti, in città, prima o poi, hanno bisogno del loro benestare. Anni di servilismo e facce di bronzo non sono bastati per ritagliarmi un posto decente in qualche amministrazione pubblica, in una piccola cooperativa, in un’azienda di famiglia. Per me non c’è mai stato posto, ormai è chiaro. Perché non ho di meglio da offrire se non il mio servilismo travestito da lealtà, buono soltanto per le pacche sulle spalle. Perché i favori veri, i soldi veri sono sempre degli altri, di quelli di poche parole che si muovono nel silenzio. Dei criminali, insomma. Quelli che si fanno spazio con i calci delle pistole, che siedono ai tavoli che contano a forza di carte bollate, il cui nome va pronunciato a bassa voce perché non sia mai che qualche orecchio attento possa ascoltare e magari riferire di aver sentito certe parole da certa gente. Perché può capitare che quella chiacchera arrivi a quell’orecchio e te lo ritrovi sotto casa, una sera, a chiederti il conto. Così capita di trovare una bomba ai piedi della serranda del tuo negozio, di essere pestato a sangue o persino di morire, se in quel momento gli gira così. L’imperativo è sempre stato il silenzio. Per questo sono rimasto fuori, ai margini dei palazzi che contano, elemosinando al primo potente che passa. Non sono riusci-to a essere parte di quel cancro, né tantomeno la cura: non essere, per sopravvivere. Ho sempre puntato sulla simpatia, sul sembrare un fedele destriero, ma non è bastato, non mi ha mai portato a nulla.
Mi capita spesso di pensare a ciò che è stata la mia vita sin qui. Succede la mattina presto, quando sono sul pullman che mi porta al lavoro, fuori città. Ho una faccia accigliata, me ne accorgo dal riflesso del finestrino che sfioro appena con la testa. Fuori, quei cartelloni immensi, quella vista insopportabile.
Così, ho deciso, un giorno, all’improvviso. Non so cosa sia scattato dentro. Forse un grumo della rabbia accumulata per anni è imploso, forse un blackout improvviso del cervello. Mentre con gli occhi fendevo gli orrendi faccioni, meditavo la vendetta che prima o poi gli avrei scatenato contro. Sì, ma come? Non sono mai stato un tipo rissoso, piuttosto un grande incassatore, i pugni sono rimasti sempre in tasca, serrati con due mandate. Se ne fossi stato capace li avrei ammazzati tutti, ma il coraggio di certo non è il mio forte. Ammesso che ammazzare qualcuno sia un fatto di coraggio. Gli avrei potuto met-tere i bastoni tra le ruote, non troppo, appena un po’. Qualcosa di eclatante, ma senza dare nell’occhio. Un atto criminale, ma anche una bravata. Insomma, una via di mezzo tra l’omicidio e lo scherzo.
Così, ho avuto l’intuizione geniale. Una macchia di colore rosso proprio lì, su quei maledetti faccioni. Non su uno soltanto, ma su tutti i manifesti sparsi in città. Più loro l’avrebbero tappezzata, più la macchia rossa li avrebbe travolti, seppelliti, da una fazione all’altra, centristi compresi. Lo so, devo essere onesto: la mia fede politica è sempre stata camaleontica, protesa verso il colore con più consenso in quel preciso momento storico. Ma, in fondo, a cosa era servito? Nella mia vita avevo cercato d’esser fedele solo e soltanto alla mia bandiera bianca, travestita di volta in volta con i colori del vincitore di turno. Eppure, non era bastato. Allora mi sono convinto, giorno dopo giorno, che fosse giusto far soccombere tutti, vinti e vincitori, sotto la coltre rossa, fargli pagare un prezzo. Sì, ma come?
Bisognava essere pratici: vernice! Effettivamente: costa relativamente poco, non va via con la pioggia e l’effetto scenico non è niente male. Era fatta. Tutti i partiti avrebbero dovuto spendere altre migliaia di euro per tappezzare nuovamente la città. Poi, quanto sarebbe stato surreale quel cartellone, lungo i viali, alle porte del paese, con al centro un’enorme macchia rossa al posto del faccione pelato? Epocale, clamoroso, inedito, folcloristico! Ero entusiasta, il fiume era in piena. Così mi sono procurato cinquanta barattoli di vernice rossa. Per non dare nell’occhio, ne ho acquistati cinque per volta in dieci diversi negozi della città. La prudenza, prima di tutto!
Ventidue gennaio, l’una di notte. La città è sprofondata già da un pezzo nel torpore, il gelo presidia le strade, uno spacciatore, un cane, uno sfaccendato sbucano ogni tanto, qua e là. Per tutto il giorno avevo programmato con maniacalità ogni spostamento, riprodotto nella camera buia del mio cervello i negativi di ogni movimento. Il tappo da strappare con delicatezza, senza fare troppo rumore, la secchiata dal basso verso l’alto, la fuga nell’auto acquattata dietro ai cespugli.
La prima vittima designata era un piccolo cartello sul viale della stazione, niente di eclatante. Il bersaglio era il personaggio che più odiavo, l’illustrissimo signor sindaco uscente, candidato per la riconferma. La sola vista di quell’orribile testa pelata mi agitò a tal punto che inciampai rischiando di rovinare a terra. Poi, proprio mentre ero lì, con il secchio in mano e le braccia tese, ho avuto un tentennamento. Se lo meritava, non c’erano dubbi. Ma la paura. Quella fottutissima paura di non reggere il peso delle proprie responsabilità. La voglia. La voglia di punirli senza essere additato, di sparare sulla folla senza essere notato, di lanciare il sasso e nascondere la mano. La necessità imprescindibile di restare impunito, colpevole ma innocente, sollevato dalle imputazioni in nome dell’indiscutibile valore morale di cui era intriso il mio atto di giustizia, buono per tutti quelli che si erano da sempre contrapposti a lui. Tutti me l’avrebbero riconosciuto, ne ero certo. Ma quella paura. La fottuta paura che mi aveva inchiodato per tutta la vita e adesso, ancora una volta. Splash. La macchia grondava sulle gote del povero faccione e scivolava fin giù, cadendo a terra. Una liberazione. La fottuta paura, anni di leccate di culo. Tutto alle spalle. Solo una grande macchia rossa a seppellire passato, presente e futuro.
La città, al mattino, si era sorpresa truccata di un rosso che in fondo, a guardarlo bene, non le stava affatto male. Quella notte la maggior parte dei cartelloni erano stati seppelliti dalla coltre rossa, grandi e piccoli. Compreso lui, il grande accusato, quell’enorme faccia da culo stampata nel cartellone sui viali, alle porte della città. Era ormai impossibile scorgerne il volto, e quel rosso, quella macchia, sembrava aprire spazi temporali fino ad allora ignoti, che avrebbero spinto l’umanità verso galassie e mondi mai scoperti. La quarta parete era stata sfondata.
Grandi j’accuse da una parte all’altra, un polverone di proporzioni bibliche. Tutti, ma proprio tutti, cercavano di capire quanti fossero i colpevoli, come avessero fatto. Ogni fazione politica credeva fosse stata l’altra, nessuno si fidava di nessuno. Se avessero saputo che l’opera era il risultato della furia repressa di un uomo soltanto, non l’avrebbero mai creduto. Invece era così, quella notte, cartellone dopo cartellone, ero arrivato a svuotare tutti i barattoli di vernice. Sfinito, alle prime luci dell’alba, ero tornato a casa tinto di rosso. Mi ero sciolto sotto una doccia calda e avevo dormito come mai prima, non un segno di cedimento. Ma al mattino, la strizza aveva già preso il sopravvento. Tutti ne parlavano, i social scoppiavano di foto scattate in ogni luogo della città, tutte ritraenti una macchia rossa su una grande faccia. Qualcuno arrivò addirittura a creare una pagina Facebook intitolata “Sostenitori della macchia rossa”. Tutti, nessuno escluso, erano felici di quell’atto sovversivo. Perché, in fondo, in una piccola (ma non troppo) città come questa, basta poco per sembrare un rivoluzionario. Per essere controcorrente è sufficiente avere il coraggio di dire la verità, di fare ciò che di solito non si osa, perché sotto minaccia, esplicita o implicita. Oppure, in alternativa, gettare una macchia rossa su un manifesto!
Al bar tutti ne parlavano, gli amici, i parenti e persino io, da solo, seduto sul cesso, ne parlavo con me stesso. In giro si diceva che la polizia stesse indagando, che le telecamere avevano immortalato il terrorista. Perché così mi sentivo, un terrorista, di quelli usciti da un documentario sulle Brigate Rosse. Mi avrebbero inchiodato, era soltanto questione di tempo.
Ma già prima di pranzo, senza colpo ferire, gli squadroni organizzati erano tornati a imporre la loro legge, l’unica voce ammissibile.
L’entusiasmo subito si era spento. Le pagine social dei “seguaci della macchia” rimosse, la petizione su Change.org intitolata “Vogliamo la macchia rossa candidata alle elezioni” era ferma al palo, i mitomani già smascherati. Persino la polizia aveva smesso di far finta di indagare. A sera il gelo si era ripreso le strade, la gente era di nuovo asserragliata dietro le proprie televisioni, lo spacciatore, il cane e lo sfaccendato rivendicavano il vuoto che gli spettava di diritto.
Mi hanno sempre fatto salire il vomito i cartelloni elettorali giganteschi lungo i viali, alle porte della città, con quei faccioni enormi. Anche stamattina, sul pullman che mi porta al lavoro, ho la solita faccia accigliata. Mi capita ogni volta che penso alla mia vita sin qui. Poi, di solito, mi addormento. Non è un sonno profondo, è dormiveglia, coscienza incosciente. Qualche volta sogno, comincio a fantasticare sulle vite che avrei potuto vivere, sulle persone che sarei potuto diventare. Sono libero. Libero di sognare, addirittura, che la notte prima sia stato in grado di ricoprire i cartelloni elettorali della città con della vernice rossa, per vendetta. Quando mi sveglio tutto è al suo posto, proprio come questa mattina soleggiata. Fuori, scolorita dal sole, si scorge l’enorme testa pelata, e non mi stupisce che a vincere, ancora una volta, sia stato lui.
Fede Papicchio
Non vedo l’ora di avere il libro tra le mani!
Mattia Biondi (proprietario verificato)
Ho avuto la fortuna di conoscere Andrea, mi sento che farò parte di quelle persone che leggendo il libro penseranno “anch’io”.
Gabriele Garavini (proprietario verificato)
Conoscendo Andrea, sicuramente non deluderà.
Domenico Leone (proprietario verificato)
Non vedo l’ora di leggerlo… il tema è interessante… e già nell’anteprima mi ha incuriosito…