1
Il cinema era gremito in ogni ordine di posto.
Il rosso bordeaux pervadeva la serata. Le poltrone, la moquette, anche le pareti laterali dove erano posizionate le casse acustiche, tutto dello stesso colore.
Gli ottocento posti erano stati presi d’assalto con largo anticipo.
La proiezione era prevista per le ventuno. I giornalisti e la giuria sedevano nelle prime file. Anche se non era la posizione migliore per la visione del film, avevano i posti riservati come a teatro, dove la vicinanza al palco, agli attori, era sinonimo di prestigio e importanza per chi li occupava.
I giorni precedenti alla proiezione si era fatto un gran parlare del film del regista emergente Tullio Oppedisano, rimasto rapito dal romanzo di un esordiente, tale Eugenio Storti, che dal nulla aveva confezionato un’opera prima da lasciare senza fiato.
Vivida è la notte, era un romanzo ruvido, e lasciava il lettore incollato alle quattrocento trentatré pagine, coinvolgendo tutti i sensi da lasciare storditi. In soli sei mesi erano state vendute centomila copie, dando lustro alla piccola casa editrice, la Chiti edita, che in passato, aveva raggiunto con il suo romanzo di punta la tiratura massima di quattromila copie.
Oppedisano aveva ricevuto per posta il testo direttamente dall’autore. Era una delle copie mandate dall’editore allo Storti, previo pagamento. Il regista lo aveva guardato con sospetto, e solo la sua innata curiosità lo aveva fatto inoltrare nelle prime pagine. Aveva letto il libro tutto di un fiato rinviando gli appuntamenti della giornata. Non riusciva a capire bene cosa fosse a tenerlo incollato a quella storia. Doveva leggerla e basta. Lo stile era colloquiale, sembrava quasi di ascoltare la storia narrata in un bar di periferia.
Finito il libro, aveva inviato una mail all’autore e gli aveva chiesto i diritti per il film. Mentre lo leggeva, le immagini di quello che sarebbe stata la trasposizione cinematografica gli scorrevano in testa. Dopo sei mesi, il film era pronto per partecipare al festival del cinema di Foligno.
Mancavano oramai pochi minuti alla proiezione; Tullio Oppedisano sedeva in terza fila, accanto a lui la sua compagna Miriam che aveva curato il montaggio, e l’autore del romanzo cui era ispirato il film.
Eugenio Storti, inguainato in un tre bottoni aderente comprato due settimane prima, aveva il viso rubizzo per il nodo della cravatta esageratamente stretto. La camicia inamidata con il colletto alla francese premeva sulla giugulare e la faceva pulsare in modo frenetico, affaticando il suo cuore sedentario.
Il successo lo aveva travolto; lui, un impiegato ventinovenne, considerato mediocre per eccellenza, sposato con Ambra, sua compagna di liceo, non aveva eccelso mai in niente. La timidezza era da sempre la sua compagna preferita. Gli sport gli erano indigesti e si era accontentato del ruolo di spettatore anche quando dentro fremeva per buttarsi nella mischia.
La vita gli era cambiata; sua moglie, anche se non era con lui alla proiezione, aveva stentato a credere che quel capolavoro letterario, così lo avevano definito i critici, fosse opera sua, visto che non era a conoscenza di quella sua passione e tantomeno lo aveva mai visto scrivere una riga.
I radi capelli rossi erano bagnati d’emozione, così anche la peluria che lui atteggiava a barba. Gli occhiali che correggevano la sua forte miopia erano appannati e spesso utilizzava il ritaglio di stoffa di cui l’ottico lo aveva gentilmente omaggiato per riportare limpida la visuale.
Eugenio si preparò ad assistere al film con un formicolio alla punta dei piedi che gli saliva su per i polpacci, fino a fargli il solletico sulle natiche, per poi annidarsi fastidiosamente sotto le ascelle. Federico gli lanciò uno sguardo di complicità, lui contraccambiò; gli dispiaceva che Ambra non fosse presente per condividere il successo, ma aveva preferito evitare emozioni troppo forti. Le luci si spensero, stava per avere inizio Vivida è la notte.
Il film manteneva integra la struttura del libro senza discostarsene più di tanto, il pubblico in sala diede segno di apprezzarlo, sottolineando alcuni passaggi con applausi scroscianti.
In una scena, girata in un vicolo buio della periferia di Roma, s’intravide, tra i contenitori dell’immondizia, un grande ratto morto, in stato avanzato di decomposizione.
Una voce alle spalle dell’autore commentò la scena, chiedendo se il fetore che aleggiava in sala facesse parte degli effetti speciali.
Anche Eugenio percepì un forte sentore di putrefazione; poi la voce di Ambra gli arrivò nitida alle sue spalle.
“Eugenio, devi andare a lavorare.”
Gli venne il sospetto che il topo fosse incastrato tra le fauci di sua moglie, e poi da dov’era sbucata? Non era rimasta a casa?
“Svegliati Eugenio, sono le sette. Sbrigati, altrimenti fai tardi.”
Eugenio sbarrò gli occhi; nella penombra del mattino, l’alito notturno di sua moglie gli accarezzò le palpebre. Senza i suoi fedeli occhiali, riusciva a intravedere la massa scura di capelli e l’ovale del viso di Ambra, avvolta in una vestaglia di raso a motivi floreali, che lo sovrastava. Altro che proiezione, altro che best-seller, doveva sbrigarsi a togliere le chiappe dal materasso altrimenti avrebbe fatto tardi al lavoro.
2
Eugenio Storti non sognava mai, ne era convinto. L’esperienza provata quella notte era la prima e lo aveva lasciato come un infante senza la sua mamma. Era tutto così reale, per un attimo aveva creduto di essere uno scrittore emergente che aveva finalmente violato la barriera dell’anonimato.
Eugenio però non aveva mai scritto più di due righe, se non gli auguri per un collega o un amico, anche se, di amici veri, forse non ne aveva. L’unica attinenza con ciò che aveva vissuto nel sogno, era la sua mediocrità. Lui ne era consapevole, sin da quando era poco più di un fanciullo.
Eppure, suo padre era stato un grande sportivo. Non di quelli famosi, però nella cerchia dei suoi amici, e lui ne aveva tanti, era riconosciuto come il decatleta. Qualsiasi fosse lo sport, suo padre si applicava e riusciva. Eugenio lo aveva deluso, incapace di imitare le sue gesta. Lui ci aveva provato, con scarsi risultati e poi vedendo il viso di suo padre schernirlo, aveva preferito evitare il confronto.
Ricordava ancora i primi calci dati al pallone alla Vigor Perconti. Papà Fernando, era andato a vederlo con un sorriso che rischiava di inglobare le orecchie e l’aspettativa di vedere all’opera un futuro campione che fosse almeno alla sua altezza, che a quarant’anni suonati dava filo da torcere a ragazzi poco più che maggiorenni. Eugenio non amava il calcio e non aveva mai chiesto di essere iscritto a quella maledetta scuola. Pochi allenamenti ricucirono il sorriso dalla faccia di suo padre che non trovò più il tempo di andarlo a vedere. “Forse non è portato per il calcio”, aveva detto Isabella, sua madre, a quell’uomo grande e grosso con la faccia rabbuiata. Così decisero di provare con il tennis, sebbene Eugenio non lo avesse chiesto. Fernando eccelleva anche in quello sport e decise di investire una piccola fortuna in lezioni private con l’esperto maestro del piccolo circolo che frequentava. Il professionista rinunciò a una parte del compenso, suggerendo loro un’altra attività per il bambino: per il tennis non era assolutamente portato. Fernando ci rimase male e quasi aggredì l’istruttore. Come si permetteva a offendere suo figlio, casomai era lui un incapace; che storie erano quelle. Con decisione, senza interpellare l’interessato, gli assegnò un altro coach, capace di far emergere le qualità che aveva il piccolo Eugenio. In realtà Fernando non aveva mai assistito a una lezione di suo figlio e quando, dopo due mesi, ebbe modo di vedere i progressi, si trovò a discutere anche con il nuovo allenatore, reo di non avergli insegnato nulla. “Forse nostro figlio non è portato per il tennis”, disse sua moglie. “Per quale cazzo di sport è portato allora?”, domandò Fernando sempre più adombrato. Nell’arco di tre anni Eugenio provò più di venti sport, riportando il medesimo risultato: zero assoluto. L’amara verità era che il suo piccolo cucciolo di nome Eugenio non era portato per lo sport, punto. Anche perché, i suoi genitori avevano dato per scontato che il dna di Fernando avrebbe influito in maniera determinante sulle sue attitudini, ignorando il patrimonio genetico di Isabella, che non aveva mai praticato alcuna attività fisica, se non prendere il sole e spalmarsi la crema abbronzante. Per non parlare dei suoi nonni che al massimo avevano scagliato le carte del tresette con veemenza sul tavolo da gioco dell’osteria sotto casa. Così, tutto l’interesse provato da Fernando nei primi anni di vita di quel ragazzino esile con una peluria rossa svanì. Da chi ha ereditato quei riflessi rosci?, s’interrogava il padre, dimentico del suocero soprannominato “il Fulvo”. La sua struttura mingherlina non cambiò con il crescere; la sua timidezza crebbe d’intensità, creandogli più di un problema nella socializzazione con i suoi compagni di classe. Studiava da solo, giocava da solo. Alcune volte Isabella lo sorprese a parlare da solo, rivolgendosi a un compagno immaginario. Pietro, così lo aveva battezzato, era il suo unico amico. Eugenio era convinto che solo Pietro lo capisse. Quando sua madre gli chiese con chi stesse parlando, Eugenio ingenuamente glielo presentò: “Piacere Pietro”, aveva detto lui. E Isabella avrebbe giurato di aver sentito una sfumatura diversa in quella voce. Poi si diede della stupida e non pensò più a quell’episodio per molti anni.
3
“Sei pronto? Tra dieci minuti dobbiamo andare. Questa volta non voglio fare tardi”, urlò Ambra davanti allo specchio del piccolo bagno bisognoso di un idraulico.
“Devo proprio venire? Lo sai che mi rompo a queste serate di cultura. Di cosa si tratta di preciso?”, chiese Eugenio in mutande, stravaccato sul divano del soggiorno.
“Me lo avevi promesso, e poi non c’è solo il concorso letterario, ci saranno dei musicisti e alcuni ballerini di tango argentino”.
“Ah, allora cambia tutto”, disse Eugenio sforzandosi di fare leva con il gomito per sollevarsi da quella posizione a lui congeniale. “Sai che scudisciate sulle palle. Stasera c’erano pure i Cenderoni”, concluse sottovoce, facendo attenzione che Ambra non lo sentisse.
“Mi raccomando, mettiti il completo nero. È una serata di gala”, lo esortò Ambra, con il pennello in mano alla disperata ricerca di dare colore al suo viso slavato.
Pure il vestito mi tocca mettere, quasi quasi rimpiango la colica che ho avuto alla Vigilia di Natale. “Un paio di jeans scuri e una camicia bianca non vanno bene?”, chiese in tono di supplica.
“Stai meglio con il completo, e poi il mio capo partecipa al concorso; non voglio che ci parlino dietro.”
“Va bene, come vuoi tu.”
Dopo trenta minuti, impiegati a trovare le giuste combinazioni cromatiche, salirono sulla Fiat Punto vecchia di dieci anni, immergendosi nel traffico della sera in direzione del Teatro Parioli.
“Com’è andata al lavoro?”, chiese Ambra, seduta sul sedile del passeggero con la schiena eretta e le ginocchia strette.
“Come al solito”, rispose Eugenio con lo sguardo alle vetture davanti.
“Non mi racconti mai niente del tuo lavoro; possibile che non accada nulla di interessante?”
“Che cosa può succedere con una scopa in mano? Vuoi che ti racconti come sono stato bravo a ripulire il mercato di Pietralata? Sai che emozione.”
“Non mi racconti mai dei tuoi colleghi, delle tue colleghe.”
“I miei colleghi? Li vedo poco e ci parlo meno.”
“E le tue colleghe?”
“Come i colleghi. Le vedo poco e ci parlo meno.”
“Non mi dici mai niente del tuo lavoro e non mi chiedi mai del mio”, disse delusa Ambra, con la piccola borsa stretta sulle gambe.
“Com’è andato oggi il lavoro?”
“Non me lo devi domandare solo perché te l’ho chiesto io,” disse cupa “certo che però potevi rasarti.”
“Cos’ha che non va la mia barba?” chiese, passandosi la mano a saggiarne la consistenza.
“Niente, è solo che rasato stai meglio.”
“Bah”, espirò Eugenio, indugiando più del dovuto nello specchietto retrovisore, a scrutare il riflesso della sua immagine.
Alla fine, lo aveva convinto a mettere la cravatta, lui che preferiva una scottatura d’alluce a quel cappio che gli sottraeva prezioso ossigeno. Per il colore della cravatta non avevano discusso molto, dovevano scegliere tra due, una amaranto, l’altra grigia (quella del matrimonio). L’amaranto aveva avuto la meglio, accoppiata a una camicia bianca slim che evidenziava tutta la sua magrezza.
Ambra lo guardava, carica di sentimenti antitetici. Lo amava, perché avendolo sposato da poco meno di un anno, era quello il sentimento che l’aveva accompagnata sull’altare.
Anche se, a dirla tutta, non si trattava di un amore passionale, di quelli che non ti fanno dormire la notte, che ti tolgono l’appetito. Non era stato un mare in burrasca ma una laguna increspata da una lieve brezza. Era l’amore che aveva visto nelle gesta dei suoi genitori, un amore che scaturisce dopo anni di convivenza. A lei sembrava lo avessero raggiunto dal loro primo appuntamento. Prima di sposarsi erano stati fidanzati per ben tredici anni. Tredici anni di brezze così leggere da non sostenere il più sottile dei jennaker.
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.