Fu quindi il Michelangelo della Mattel a finire in prima posizione nella letterina di Natale 1991.
La notte di quella Vigilia, scartai il pacchetto con la smania di cui sono capaci solo i bambini di fronte a un regalo, ed eccolo lì. Quant’era bello.
Da quella stessa notte, in bagno ci andai stringendolo in mano e, volta dopo volta, la mia paura del buio si affievolì. A un certo punto, sentendomi ormai immune dalle forze del male del dark side of the corridoio, iniziai addirittura a lasciare la porta del bagno aperta.
Un passo alla volta e tutto svanì nel nulla.
Ho ancora ben presente l’immagine di Michelangelo abbandonato sulla mensola rossa della mia cameretta quando, dopo qualche giorno di tacita nostalgia, lo guardai e gli dissi: «Non fraintendermi, Mick. Non sei tu, sono io. È che ora sono diversa, sono cambiata e sento che la nostra relazione non è stata al passo. Dimmi che mi capisci, ti prego».
A proposito di eroi dell’infanzia e di 25 dicembre: per me furono eroi anche Babbo Natale e Gesù.
Un anziano obeso su una slitta volante che si accolla il giro del mondo in una notte per portare regali a milioni di bambini e un trentenne che si fa inchiodare a una croce per gente che non ha mai nemmeno visto, resuscita e il giorno del suo compleanno, anziché alzare trionfante il dito medio dicendo: «Oh, c’avete provato, ma sono ancora qui», fa regali a chiunque. Se non sono eroi questi…
A un certo punto però il dualismo fantasia-religione iniziò a crearmi un po’ di confusione su chi fosse il corriere. Gesù Bambino o Babbo Natale?
Chi è che si calava dal camino (che comunque non ho mai avuto)? Un neonato? Un anziano obeso con la barba? Un neonato nascosto nella barba dell’anziano obeso?
Tra gli adulti c’erano versioni contrastanti e io non sapevo più a chi credere.
Elaborai la teoria che Babbo Natale fosse il nonno di Gesù e iniziai a scrivere ad anni alterni la letterina a uno e all’altro, concludendo con “salutami tuo nonno” o “un abbraccio forte a tuo nipote” per non fare un torto a nessuno.
Poi arrivarono i giorni della rivelazione.
I primi dubbi furono sollevati da qualche mio compagno di classe bastardo che godeva nel distruggere l’ingenuità altrui.
Infine chiesi a mio padre: «Papà, Babbo Natale esiste?».
E lui: «Se ci credi, sì».
Se ci credi, sì.
Ho legato a quella frase l’aquilone della mia innocenza e della mia speranza, finché il filo si è spezzato e nemmeno me ne sono accorta.
Furbo, mio papà.
A ogni modo, sfogliando il catalogo dei miei eroi, mi accorgo che quelli che resistettero più a lungo al lento ma inesorabile avvento dell’adolescenza furono sicuramente loro: i miei genitori.
Erano infallibili, risolutori di ogni problema, il nucleo inscindibile della mia esistenza.
Come due sfere luminose che insieme avevano creato un atomo indivisibile dentro al quale c’ero anche io, e fuori tutto il resto: il male, i pericoli, il maestro di musica troppo severo, i compagni di classe stronzi, la febbre il giorno della Vigilia di Natale, il terrore dell’ora di ginnastica, la paura del buio, il timore di non essere abbastanza buona. Dentro invece c’eravamo noi tre, le risate la mattina presto, l’odore del vapore sbuffato fuori dal ferro da stiro ogni domenica, col sottofondo dei vinili di Mango, Whitney Houston e Eduardo De Crescenzo, i giochi nel lettone, le colazioni che profumavano casa di caffellatte, i cartoni animati fino a tardi il venerdì sera, il divano diviso in tre.
Solo una cosa stonava: una volta al mese mia madre si chiudeva in camera sua e piangeva. Tantissimo.
Com’era possibile che un eroe piangesse così tanto?
Un giorno decisi di chiedere a mio padre: «Papà, perché la mamma piange?».
E lui: «Quando sarai grande, capirai».
Altra frase a effetto che mi ammutoliva. Diceva tutto e niente. Mi faceva solo venire voglia di essere grande all’istante.
Qualche anno più tardi, mia madre, gonfia di orgoglio, mi urlò in faccia: «Amore, sei diventata signorina!», e rimpiansi con tutte le mie lacrime di aver desiderato che gli anni passassero in fretta per farmi diventare donna e capire.
“Quando sarai grande, capirai.” Era una minaccia. Se solo avessi saputo cosa mi aspettava, probabilmente avrei preferito passare direttamente dall’infanzia alla menopausa.
Per onorare la verità, il dialogo con mio padre avrebbe dovuto essere: «Papà, perché la mamma piange?».
E lui: «Perché è in premestruo, amore».
Capisco che l’idea di addentrarsi nella selva oscura dell’educazione sessuale non gli piacesse un granché, ma sarebbe servito a farmi godere il tempo che mi rimaneva prima di atterrare sull’isola felice di Ormoniland, in sella a un assorbente alato.
Diciamocelo: il motivo per cui certi discorsi i genitori non li fanno è più per preservare loro stessi che per proteggere i figli.
A ogni modo, pensando a quei momenti, riconsidero l’entità dei poteri di mio padre: entrava e usciva dalla stanza di mia madre con una tisana calda, una coperta, una fetta di torta, capretti da offrire in sacrificio e pugnali sacri, ma soprattutto col giusto grado di rassegnazione.
Capitan America: ciucciati il calzino.
Quel comportamento, o era mero spirito di sopravvivenza o era il più potente dei superpoteri: l’Amore.
Poi successe che mia madre e mio padre si lasciarono. Quello fu il più grande “Babbo Natale non esiste” della mia vita.
Da piccola avevo una lista di paure alle quali ero molto affezionata. Mi ci attaccavo con la forza sovrumana di chi sta per affogare in mare aperto e un istante prima di arrendersi trova un salvagente. Non è stato poi tanto diverso, crescendo.
LA TARTARUGA A ROTELLE
«Stasera andiamo a fare la spesa, ché manca di tutto.» Matteo mi accoglie con questa frase imperativa.
Mmm, che gioia! Dopo otto ore sfiancanti a lavoro, sono felicissima di uscire per andare a fare la spesa. Anzi, dai, aspetta, vado a prendere i coriandoli, Maracaibo! Questo è quello che penso.
«Preferisci Tigros o Iper?» Questo è quello che dico.
«Tu cosa preferisci?» mi chiede.
Un’influenza gastrointestinale, penso.
«Iper» dico.
«Iper?! Col casino che c’è a quest’ora non torniamo più a casa, dai.» E mi guarda come se fossi una povera stronza.
E allora cosa cazzo me lo chiedi a fare? Ma non dico nemmeno questo, e alzo gli occhi al cielo.
Io e Matteo: quasi cinque anni di storia, quattro anni e mezzo di convivenza, vent’anni di amicizia alle spalle.
Non saprei collocare la crisi in nessun punto preciso del nostro tempo insieme, ma a un certo punto è arrivata, e da lì anche i relativi avanti e dopo.
Tipo la nascita di Cristo.
Avanti Crisi. Dopo Crisi.
Nell’a.C. c’erano spensieratezza, risate, sostegno reciproco, cene con amici, passeggiate mano nella mano.
Ora, nel d.C., ci sono lagne e litigate intervallate da lunghi silenzi.
Non condividiamo più niente, da nessun punto di vista. Qualsiasi cosa lui dica per me va bene, purché la smetta di puntualizzare su tutto. È reciproco.
Le nostre discussioni sono diventate tornei di morra cinese: raccogliamo parole a casaccio alzando le mani in aria e ci buttiamo in faccia frasi crudeli, ognuno sperando di aver azzeccato quella giusta per annientare l’altro.
L’ho conosciuto che avevo sedici anni, mentre lui ne aveva ventitré.
Matteo ha lo sguardo severo come il suo aspetto. È ribelle, orgoglioso, difficile da contraddire. È un uomo dalla sensibilità profonda, ma nel senso che l’ha sepolta a chilometri dalla superficie.
Di lui odio che se contraddetto si comporta come un adolescente a cui i genitori negano lo scooter.
Di lui amo… non me lo ricordo più.
Quanti discorsi recitati, corretti, riletti e taciuti, prigionieri della mia paura di sbagliare, di esagerare, di rischiare, di venire abbandonata per aver detto quella parola di troppo.
Dovrei dirglielo, che non sono d’accordo con il suo modo arrabbiato di interagire col mondo e con me, soprattutto quando io e il mondo lo guardiamo alzando il sopracciglio di fronte al suo sdegno costante che – sì, lo ammetto – ci fa proprio pensare: quand’è che la smetterà di lamentarsi?
Non sono d’accordo col suo star sempre a pugni alzati, con le sue urla, con le sue convinzioni sorde, cieche, testarde.
Dovrei dirglielo, che non mi fido più di lui.
Se James Cameron avesse scritto Titanic con noi come protagonisti, l’avrebbe chiuso prima della metà:
SCENA SUL PONTE
Lei arrampicata sulla ringhiera.
Lui alle sue spalle le cinge la vita e le sussurra: «Reggiti. Tieni gli occhi chiusi. Ti fidi di me?».
Lei: «No».
FINE
TITOLI DI CODA
Vorrei litigarci, urlargli in faccia, invece io non dico nulla e lui continua a essere semplicemente se stesso. Perché sto permettendo al suo “essere lui” di invadere non solo il nostro noi, ma anche il mio io?
Sono certa che c’entri qualcosa con la tartaruga a rotelle.
Quando andavo all’asilo, a metà mattina arrivava il momento della ricreazione e noi bambini uscivamo dalle classi, ci ritrovavamo nel grande salone comune e potevamo giocare liberamente tutti insieme. In fondo al salone, ad attenderci c’era una cesta enorme, piena di giochi. Ognuno di noi poteva sceglierne uno, uno soltanto. Il più ambito era una tartaruga di legno con le rotelle, legata a uno spago che serviva a portarla in giro.
Arrivavano le undici, suonava la campanella e ci trasformavamo tutti in piccoli giocatori di rugby, correndo e atterrandoci a vicenda per poter arrivare per primi alla tartaruga.
Un giorno ci riuscii. Dopo mesi e mesi di tentativi falliti, riuscii a conquistarla, e a ripensarci ora sono sicura che nella mia mente, in quel momento, risuonasse la colonna sonora di Momenti di gloria, anche se ovviamente il film non lo avevo mai visto.
La appoggiai a terra, presi l’estremità dello spago e la trascinai per un paio di metri.
Trenta secondi dopo arrivò un altro bambino, che mi chiese: «Posso giocarci io?».
Nessuno mai, nella storia dell’asilo Maria Qualcosa di Bollate, aveva ceduto quella fottuta tartaruga, una volta conquistata.
Ma col cazzo! pensai.
«Sì, toh» dissi.
Gli allungai lo spago e lui se ne andò con la tartaruga al seguito.
Quello credo fu il giorno in cui ho iniziato a fare una cosa di cui poi sono diventata una campionessa: pensare “col cazzo”, ma rispondere “sì”.
e.brasola (proprietario verificato)
Ho iniziato a leggere la bozza, dicendomi “solo qualche pagina”, non lo leggo tutto stasera. Un po’ per volta. E poi ho delle cose da sistemare in casa.
Un’ora e 100 pagine dopo eccomi qui. Piena di emozioni. Sorrisi. Storie di amici e famiglie che un po’ assomigliano alle tue. Un pochino di magone. Risate, molte più di quelle che ti aspetti.
Ci sto mettendo di più a scrivere questa recensione che a leggere il libro, da quanto ti prende e ti porta “dentro” mentre neanche te ne accorgi 🙂
Ecco: è un libro di emozioni. Lo puoi leggere con tranquillità, con ironia o con intensità, con il sorriso, con un fazzoletto in mano o ridacchiando come un cretino in metropolitana. Parole, musica e silenzi che si intrecciano nel ritratto di un mondo e della sua protagonista, che te lo racconta come se non avesse mai fatto altro da tutta la vita! (Alla faccia del “libro di esordio”!)
Llibro consigliatissimo, non vedo l’ora di leggere di più di Sara!
Antonio Sposaro (proprietario verificato)
Libro meraviglioso , scritto da una mano fragile all’apparenza, ma In realtà coraggiosa E tenace. Sara ti prende per mano per tutto il tempo , senza staccarla mai. Ti porta nel suo mondo fatto di ricordi malinconici alternati a dettagli divertenti, come le cene di Natale con ”zia Roberta sott’olio”. Fare questo viaggio è stata una delle esperienze più belle che potessi fare. Aspetto con ansia un nuovo racconto perchè ho come la sensazione che questa ragazza abbia un mondo dentro di se che il mondo debba conoscere .