«Good morning everybody. In this research my objective…» Per quante volte l’avesse ripetuta, quella frase stava dotandosi della sacralità di una preghiera e Giorgio e Vincenzo non avevano fatto altro che farglielo notare. Il giorno del dottorato mentre era in piedi, col microfono poco distante dalle labbra e il PC sul leggio di legno, aveva guardato i presenti riuniti in sala, tutti in attesa che il relatore ponesse fine alla presentazione. Lui non stava ascoltandolo, tuttavia aveva capito che stava volgendo al termine dal tono della voce. I capelli rossi e ricci, la schiena dritta, la voce sicura: la professoressa Giordano non era una bella donna, tuttavia era colma di fascino. Lo aveva guardato mentre poneva fine al suo monologo e aveva annuito con la testa affinché prendesse la parola. Quando aveva iniziato con «Good morning everybody. In this research my objective» non aveva potuto fare a meno di osservare i suoi due amici accomodati al centro della sala sorridere e scambiarsi un’occhiata. Francesco riteneva che la caratteristica peculiare degli esami orali, da quelli svolti alla primaria sino ai dottorati di ricerca, è che nel momento in cui si inizia a proferire parola tutti i pensieri che sino a qualche secondo prima saettavano nella propria mente evaporano per lasciare posto all’eloquio; i concetti fluiscono uno dietro l’altro, a volte un pensiero ramifica e bisogna scegliere il percorso da seguire cercando di rimanere sulla strada principale. Ci si sofferma anche sulla gestualità, sul tono della voce e al contempo si osservano le reazioni degli esaminatori: un sopracciglio che si inarca, un occhio che si abbassa, un angolo della bocca che si stringe e le spiegazioni di quelle reazioni cercano di penetrare nel pensiero dell’espositore. No, non c’è davvero tempo per pensare alle banali paure che sino a qualche minuto prima riempivano la testa. O almeno così era per Francesco Paloro.
Terminata l’esposizione aveva guardato la commissione. Nella sala c’era silenzio assoluto. Il presidente di commissione aveva chiesto al controrelatore di intervenire per eventuali domande. Il professor De Meo aveva annuito e avvicinato il microfono, e aveva chiesto come il frutto della ricerca ricavato durante quei tre anni potesse essere traslato in ambito clinico, ovvero che benefici farmacologici potesse garantire quanto scoperto tramite i suoi esperimenti.
Una turbolenza lo riscosse dai suoi pensieri.
La donna accanto a lui strinse con forza i braccioli e nonostante cercasse di dissimulare la paura del volo le sue dita, che come artigli si aggrappavano al sedile, rivelavano la sua preoccupazione. Francesco fece finta di nulla, recuperò il telefonino che teneva in tasca e cominciò a guardare le foto della galleria. La prima foto che gli apparve era l’ultima scattata: il biscione inciso nelle mura della stazione centrale di Milano. Osservò il corpo sinuoso del mostro, le curve che gli ricordavano i tornanti delle strade montane usate per giungere nei borghi siciliani, la corona che, senza sfiorarlo, cingeva il capo dell’animale e poi il bambino che veniva divorato dalla bestia. Per qualche strana ragione gli venne il dubbio che in realtà il bambino non stesse per essere ingoiato, ma che fuoriuscisse dalla bocca del serpente, come nascituro. Cercò di ricordarsi la leggenda che lo riguardava, tuttavia l’unica certezza che aveva era che un uomo aveva ucciso un serpente gigantesco, o un drago, con l’intento di liberare un bambino precedentemente divorato dal mostro e che l’episodio era divenuto simbolo araldico dei Visconti.
Passò alla foto successiva.
Vi era ripresa una pizza, una margherita, con al centro una mozzarella di bufala. Era stata scattata tre giorni prima, l’ultima pizza, prima della partenza, mangiata insieme a una piccola compagnia eterogenea costituita da colleghi di lavoro, amici di colleghi di lavoro e gente conosciuta in quei tre anni a Milano.
Sentì un sospiro emesso dalla donna seduta accanto a lui; non riusciva ad avere una respirazione regolare e Francesco sapeva che se l’ansia fosse aumentata avrebbe corso il rischio di andare in iperventilazione. L’attacco di panico non era così distante.
«Mi scusi, signora, non vorrei disturbarla. È per caso diretta a Messina?»
La donna volse il suo sguardo verso il ragazzo. Era pallida, gli occhi sgranati forse dalla tensione forse dalla sorpresa di sentirsi rivolgere la parola da uno sconosciuto.
«No, Siracusa, provincia.» Dall’accento capì che anche lei era meridionale.
«Ah, peccato. Mi serviva un’informazione per raggiungere Messina. Gli orari presenti sul sito non sono molto chiari.»
«Non so, mi dispiace.»
«Non si preoccupi, capirò una volta atterrato.»
La donna iniziò a fissare il sedile di fronte al suo, poi prese una bottiglietta di acqua dalla borsa e cominciò a bere. A un tratto l’assistente di volo informò i passeggeri che da lì a qualche minuto sarebbero passati col carrello di cibo e, dopo, con quello dei prodotti-regalo. Il motore dell’aereo emetteva un suono costante; in lontananza, verso la coda del velivolo, si udivano i lamenti di un bambino, i genitori intenti a distrarlo. La donna accanto a lui sospirò ancora una volta.
«È mai stata a Messina o provincia?» chiese ancora il ragazzo.
Lei lo guardò per la seconda volta con uno sguardo misto di preoccupazione e d’impazienza.
«Sì, sono stata a Taormina, anni fa. Anche a Capo d’Orlando.»
«Non è mai stata a Milazzo, Barcellona Pozzo di Gotto, quelle zone lì?»
«No, solo di passaggio.» Fece un attimo di pausa, poi chiese: «Me le consiglia?».
Valentina Buemi (proprietario verificato)
Tra vapore e acciaio, Francesco scopre che la resilienza e l’umanità possono nascere nei luoghi più inattesi, creando legami indissolubili. Un racconto intenso, profondo e toccante che esplora le sfide e le trasformazioni personali.
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