Lui non stava ascoltandolo, tuttavia capì che stava volgendo al termine dal tono della voce. I capelli rossi e ricci, la schiena dritta, la voce sicura: la Professoressa Giordano non era bella donna, tuttavia era colma di fascino. Lo guardò mentre poneva fine al suo monologo ed annuì con la testa affinché prendesse la parola. Quando iniziò con “Good morning everybody. In this research my objective” non poté fare a meno di osservare i suoi due amici accomodati al centro della sala sorridere e scambiarsi un’occhiata. Francesco riteneva che la caratteristica peculiare degli esami orali, da quelli svolti alla primaria sino ai dottorati di ricerca, è che nel momento in cui si inizia a proferire parola tutti i pensieri che sino a qualche secondo prima saettavano nella propria mente evaporano per lasciare posto all’eloquio; i concetti fluiscono uno dietro l’altro, a volte un pensiero ramifica e bisogna scegliere il percorso da seguire cercando di rimanere sulla strada principale. Ci si sofferma anche sulla gestualità, sul tono della voce ed al contempo si osservano le reazioni degli esaminatori: un sopracciglio che si inarca, un occhio che si abbassa, un angolo della bocca che si stringe e le spiegazioni di quelle reazioni cercano di penetrare nel pensiero dell’espositore. No, non c’è davvero tempo per pensare alle banali paure che sino a qualche minuto primo riempivano la testa. O almeno così era per Francesco Paloro.
Terminata l’esposizione guardò la commissione. Nella sala c’era silenzio assoluto. Il presidente di commissione chiese al controrelatore di intervenire per eventuali domande. Il Prof. De Meo annuì, avvicinò il microfono e chiese come il frutto della ricerca ricavato durante quei tre anni potesse essere traslato in ambito clinico, ovvero che benefici farmacologici potesse garantire quanto scoperto tramite i suoi esperimenti.
Una turbolenza lo riscosse dai suoi pensieri.
La donna accanto a lui strinse con forza i braccioli e nonostante cercasse di dissimulare la paura del volo le sue dita, che come artigli si aggrappavano al sedile, rivelavano la sua preoccupazione. Francesco fece finta di nulla, recuperò il telefonino che teneva in tasca e cominciò a guardare le foto della galleria. La prima foto che gli apparve era l’ultima scattata: il biscione inciso nelle mura della stazione centrale di Milano. Osservò il corpo sinuoso del mostro, le curve che gli ricordavano i tornanti delle strade montane usate per giungere nei borghi siciliani, la corona che, senza sfiorarlo, cingeva il capo dell’animale e poi il bambino che veniva divorato dalla bestia. Per qualche strana ragione gli venne il dubbio che in realtà il bambino non stesse per essere ingoiato, ma che fuoriuscisse dalla bocca del serpente, come nascituro. Cercò di ricordarsi la leggenda che lo riguardava, tuttavia l’unica certezza che aveva era che un uomo aveva ucciso un serpente gigantesco, o un drago, con l’intento di liberare un bambino precedentemente divorato dal mostro e che l’episodio era divenuto simbolo araldico dei Visconti.
Passò alla foto successiva.
Vi era ripresa una pizza, una margherita, con al centro una mozzarella di bufala. Era stata scattata tre giorni prima, l’ultima pizza prima della partenza mangiata insieme ad una piccola compagnia eterogenea costituita da colleghi di lavoro, amici di colleghi di lavoro e gente conosciuta in quei tre anni a Milano.
Sentì un sospiro emesso dalla donna seduta accanto a lui; non riusciva ad avere una respirazione regolare e Francesco sapeva che se l’ansia fosse aumentata avrebbe corso il rischio di andare in iperventilazione. L’attacco di panico non era così distante.
«Mi scusi signora, non vorrei disturbarla. È per caso diretta a Messina?».
La donna volse il suo sguardo verso il ragazzo. Era pallida, gli occhi sgranati forse dalla tensione forse dalla sorpresa di sentirsi rivolgere la parola da uno sconosciuto.
«No, Siracusa, provincia». Dall’accento capì che anche lei era meridionale.
«Ah, peccato. Mi serviva un’informazione per raggiungere Messina. Gli orari presenti sul sito non sono molto chiari»
«Non so, mi dispiace»
«Non si preoccupi, capirò una volta atterrato».
La donna iniziò a fissare il sedile di fronte al suo, poi prese una bottiglietta di acqua dalla borsa e cominciò a bere. Ad un tratto l’assistente di volo informò i passeggeri che da lì a qualche minuto sarebbero passati col carrello di cibo e, dopo, con quello dei prodotti-regalo. Il motore dell’aereo emetteva un suono costante; in lontananza, verso la coda del velivolo, si udivano i lamenti di un bambino, i genitori intenti a distrarlo. La donna accanto a lui sospirò ancora una volta.
«E’ mai stata a Messina o provincia?» chiese ancora il ragazzo.
Lei lo guardò per la seconda volta con uno sguardo misto di preoccupazione e d’impazienza.
«Si, sono stata a Taormina, anni fa. Anche a Capo d’Orlando»
«Non è mai stata a Milazzo, Barcellona Pozzo di Gotto, quelle zone lì?»
«No, solo di passaggio». Fece un attimo di pausa, poi chiese:
«Me le consiglia?»
Il giovane sorrise prima di rispondere.
«Faccio fatica a parlare delle mie zone. Anche se da qualche anno vivo a Milano li sento ancora mie. Considerato che sono luoghi che conosco bene ho la brutta tendenza di evidenziarne i difetti e mai i pregi»
«E’ una tendenza che abbiamo un po’ tutti eppure, nonostante tutto, abbiamo sempre voglia di tornare a casa».
Il giovane sorrise sentendo quelle veritiere banalità e sentì il carrello avvicinarsi ai loro posti.
«E lei? È mai stato a Siracusa?». Questa volta fu la donna a porgli la domanda.
«Beh, sì, anche io anni fa. Ho trascorso qualche giorno anche ad Ortigia e dopo proprio a Siracusa. Il teatro greco è magnifico. La prima volta sono andato durante le medie ma figurarsi se a quell’età si pensa a quello».
La donna sorrise. Il colore del viso sembrava meno pallido di qualche minuto prima, la respirazione regolare.
Il ragazzo riprese ad osservare le foto e all’improvviso sentì un dolore, intimo, sprigionarsi all’altezza dello stomaco. Lo avvertì salire su, sino in petto per poi manifestarsi sotto forma di soffocamento. Gli vennero le lacrime agli occhi e per celarle alla donna volse il capo verso l’oblò. Osservò le nuvole grigie sotto di lui e nel tentativo di controllare l’emozione prese a fissare le forme dei nembi. Sentì l’hostess passare col carrellino e chiedere se avesse bisogno di qualcosa e lui scosse la testa senza voltarsi. La sensazione ovattata si fece intensa, si sentiva più frastornato del solito ed avvertì prurito sulle spalle. Questa volta fu lui a sospirare.
«Presumo che stia tornando a casa per le ferie». Fu la donna a riprendere il dialogo.
«Si». Non aveva voglia di dire la verità ad una sconosciuta.
«Manca da molto tempo?»
«Non molto in realtà, sono tornato a casa circa tre mesi fa».
Non aveva più voglia di comunicare, le foto avevano fatto riaffiorare dolori sopiti per qualche minuto. Guardò l’orologio: mancava mezz’ora all’atterraggio. Lo steward presentò i fantastici sconti su profumi e orologi poi invitò i passeggeri ad acquistare gratta e vinci rivelando che la settimana scorsa un passeggero diretto a Lisbona era riuscito ad accaparrarsi un ricco montepremi. La voce del comandante annunciò l’inizio della discesa, prevedendo l’atterraggio nei quindici minuti successivi. Francesco avvertì l’aereo abbassarsi di quota e spostare la sua traiettoria verso est; la donna accanto a lui trattenne il fiato. Osservò ancora l’esterno attraverso l’oblò. Il pavimento di nuvole sembrava crollato in vari punti e gli squarci rivelavano quelle che parevano essere pozzanghere di mare e di terra. Volgendo ancora di più il capo riuscì a scorgere le Eolie, sette macchie scure emergenti nell’azzurro del Mediterraneo. Poi lo sguardo si volse verso la sua terra, il nord-est della Sicilia. Nonostante l’altezza riuscì a scorgere l’ampia insenatura delimitata dal promontorio di Tindari e da Capo Milazzo, un lungo sorriso fatto di spiagge e rocce rivolto verso le Eolie. In quell’area aveva passato venticinque anni della sua vita, in quelle spiagge aveva trascorso le estati, sul Tindari aveva anche svolto un pellegrinaggio, a Milazzo aveva trascorso i sabati sera. Era tutto lì, racchiuso in uno sguardo. Le nuvole si posero ancora di fronte al suo campo visivo, sentì ancora l’aereo scendere di quota, la pressione farsi più intensa e le orecchie iniziarono a dolergli. Stavano attraversando le nuvole ed il velivolo sobbalzò per qualche secondo, scosso da una turbolenza. La donna accanto a lui teneva gli occhi chiusi, il pallore era tornato ad invadere il suo volto. Il bambino in fondo all’aereo prese a gemere rendendo vani i tentativi dei genitori di calmarlo.
«Siamo quasi arrivati signora, stia tranquilla».
Lei annuì senza aprire gli occhi e quando la turbolenza finì lui aggiunse:
«Tutto bene signora, meno di un minuto ed atterreremo».
Sapeva che dal lato opposto del velivolo era possibile osservare l’Etna e attraverso l’oblò sperò di vederla, tuttavia non vi riuscì. Pensò a re Artù. Una leggenda narrava che fosse ancora vivo, nascosto all’interno della montagna dopo essere stato ferito nella battaglia contro Mordred. Si chiese perché pensasse ad Artù ma non seppe rispondersi. Si domandò anche dove avesse sentito della storia di Artù abitante le viscere del Mongibello, tuttavia, non riuscì a ricordare. Alla sua sinistra vide le auto percorrere l’autostrada, le case a multipli piani con i panni stesi e in lontananza distese di agrumeti, principalmente aranceti, ancora privi di frutto. L’asfalto della pista d’atterraggio prese a scorrere sotto il suo sguardo, a bordo il silenzio era rotto solo dal pianto del bambino, poi le ruote toccarono terra in modo deciso e il velivolo fu arrestato con altrettanta decisione.
Si sentiva confuso, frastornato ed aveva solo due certezze: era tornato in Sicilia e suo padre era morto.
Valentina Buemi (proprietario verificato)
Tra vapore e acciaio, Francesco scopre che la resilienza e l’umanità possono nascere nei luoghi più inattesi, creando legami indissolubili. Un racconto intenso, profondo e toccante che esplora le sfide e le trasformazioni personali.
Ne consiglio assolutamente l’acquisto!!