È convinzione diffusa che chi ha un bambino riceva un manuale segreto, accessibile solo attraverso il DNA del neonato. Niente di più falso.
Diventare padre significa affrontare questo e altri stereotipi e diventare campioni di specialità olimpiche uniche nel loro genere, come lo smaltimento di rifiuti tossici e le public relations con giovani neomamme isteriche.
Significa scegliere: puoi restare come sei o evolverti. E diventare un Walking Dad, un supereroe senza alcun potere. Puoi decidere di confidarti con gli altri papà e puoi decidere di scrivere ai tuoi figli delle lettere che leggeranno da grandi, in cui si spieghi al primogenito che è nato sotto il segno dei Gamberi, deliziosi gamberi argentini divorati con gusto nonostante la rottura delle acque, e a tua figlia che quando si innamorerà dovrà scegliere un uomo diverso da suo padre. E non è finita qui: diventare un papà significa affrontare una lunga evoluzione, passando dalle mani incerte che accolgono il primo figlio alle mani sicure che afferrano il manubrio di una bicicletta che si impara a manovrare a quarant’anni.
Questo è il monologo disincantato di un uomo che ha fatto la sua scelta.
Perché ho scritto questo libro?
Ci sono due cose che mi hanno reso davvero libero: la scrittura e diventare padre. Quando i miei figli dormivano, scrivevo delle lunghe lettere rivolte a loro. Doveva essere una cosa privata, un reperto archeologico da ritrovare nel futuro. Ma a volte le raccontavo, a padri, a nonne, a giovanissimi e nasceva un silenzio traballante che mi incuriosiva. Ho trasformato allora il testo in uno spettacolo e ho voluto pubblicare il libro. Perché non tutti siamo genitori, ma siamo tutti figli.
Ho imparato ad andare in bicicletta a quarant’anni.
È la pura verità. Non so come abbia fatto a ridurmi così, ma so esattamente come mi ha fatto sentire per molto tempo: un perfetto inadeguato.
Alcune tracce della mia infanzia, attraverso racconti e aneddoti, riportano che qualche pedalata senza rotelle è avvenuta, ma subito dopo è calato l’oblio. Forse sono caduto, cosa
più che accettabile, e mi sono spaventato in maniera esagerata, bloccandomi.
Ora, come per tutte le cose, bisogna sempre partire dall’origine, cioè dalla propria mamma e dal proprio papà. Mia madre è molto semplice da raffigurare. Basta andare su Google Immagini, digitare la parola “ansia” e subito verrà fuori. Mio padre è esattamente l’opposto. Ricordo perfettamente che quando io e mia sorella eravamo piccoli e andavamo in giro,
spesso chiedevo: “Ehi, c’è una vasca piena di vetri rotti e siringhe usate, mi ci posso tuffare?”. E mio padre, con estrema
disinvoltura, rispondeva: “Certo, vai pure”.
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Quindi non ho mai conosciuto il significato della parola
“equilibrio”, presupposto necessario per manovrare una bicicletta. Come lo puoi definire in maniera netta e comprensibile? Se arrivasse un medico risponderebbe: “L’equilibrio è il senso che ti permette di conoscere e regolare i movimenti del
tuo corpo in base a quello che ti succede intorno”. Anni luce dalla piena comprensione. Così ho cominciato a denigrare la
parola stessa, l’ho imprigionata in un cassetto, l’ho rimpicciolita e ingrigita fino a renderla ridicola e innocua.
Ad ogni modo, fin dalle elementari ho dovuto usare stratagemmi diversi per nascondere questa vergogna. Se non sai
nuotare le persone ti dicono che puoi sempre imparare, ma ammettere di non sapere andare in bicicletta è come confessare un crimine per il quale è stato incarcerato un innocente. Perciò se veniva programmata una gita in bici con tutta
la classe, la mattina stessa chiamavo la scuola simulando in maniera oscena un raffreddore o una brutta influenza intestinale. Oppure inventavo che la sveglia non aveva suonato, che ero stato colto da inaspettati mal di testa, che l’autobus non
era passato, che i treni erano in sciopero, che il gatto era fuggito sulle scale, ma mai e poi mai dicevo la netta verità: non
vengo perché non ci so andare, punto e basta. Dentro morivo e nasconderlo non faceva bene a nessuno.
Riuscire a giustificarmi al telefono era un’operazione semplice, seppur umiliante, mentre trovarsi davanti al pericolo
era immensamente più complesso. Poteva capitare di fare una passeggiata o una vacanza, vedere biciclette a noleggio e sentire che tutti, tranne me, stavano pensando la stessa cosa. In quel momento la capacità di improvvisazione, seppur miserabile, poteva salvarmi in calcio d’angolo. La mia intenzione era spostare la loro attenzione, cercando un meteorite dentro un
cielo azzurro limpido, ma niente da fare. Quindi gorgogliavo frasi scomposte e ridicole, tipo che avevo fatto una promessa
importante a chissà chi o un fioretto da mantenere fino all’anno successivo.
Succedeva spesso che gli amici partissero in bicicletta godendosi brezze e panorami che non avrebbero mai fatto parte
del mio patrimonio di ricordi, mentre io mi sedevo da qualche parte ad aspettarli, rimuginando e annoiandomi, sentendomi
un perfetto idiota. Per non parlare del motorino. Avrò macinato a piedi almeno venti equatori di asfalto per non essere
salito su di uno di quegli affari.
Poi sono cresciuto e ho imparato a disinteressarmi dei commenti o delle reazioni incredule delle persone. Ho cominciato
a scherzarci su e a rendere la cosa meno drammatica.
Quasi tutti, quando ti sveli, si offrono come insegnanti, dicono sempre che con loro sarà diverso e che in pochi giorni
imparerai.
Le prime volte andavo nei parchi pubblici, dove alcuni amici, armati di pazienza e di biciclette da uomo, mi incitavano
sull’onda del loro entusiasmo. C’era un solo problema da affrontare: l’imbarazzo. Non solo il mio, ma anche quello degli
ignari corridori che improvvisamente si trovavano davanti agli occhi la scena di un uomo adulto che preferirebbe stare
sopra un triciclo. Molti sogghignavano e altri fingevano di non guardare, manco fossi nudo. Ma gli amici sapevano sempre come alleggerire la situazione, pronunciando ad alta voce frasi come: “Fa così perché è appena uscito dal coma”.
Ci provavo, ripulendo i miei pensieri ogni sera, ma non funzionava mai. L’entusiasmo decollava nei primi minuti, ma
nessuna pedalata mi portava a stare in equilibrio su quelle maledette due ruote.
Anche le fidanzate si prodigavano, ma non è semplice farsi tenere in equilibrio dalla tua donna che ti afferra dal sellino,
barcollando e accampando scuse sulla dimensione sbagliata delle ruote. Provaci tu a mantenere successivamente una virilità perlomeno dignitosa.
Così mi deprimevo sempre di più, mi raggomitolavo srotolando pensieri pesanti, dando per scontato che non ce l’avrei
mai fatta. Si può vivere tranquillamente anche senza andare in bicicletta, mi ripetevo spesso.
E un giorno come un altro è successo il miracolo. Almeno, nella mia testa sarà sempre considerato un vero e proprio miracolo.
Un giorno di luglio ho pensato: Basta così, voglio imparare sul serio.
Ho insistito, sono salito migliaia di volte, ho sudato come una cotenna, mi sono arrabbiato, sono scivolato e rotolato
sull’asfalto, rovinando più di un paio di pantaloni, ma ero fiducioso. Pronto a superarmi, a fare pace con gli incubi, a comprendere che avevo tutte le potenzialità per farcela.
Andavo da solo sulle zone morte delle piste ciclabili, sgattaiolavo di notte nei parcheggi deserti e, naturalmente, sfruttavo i parchi pubblici della mia città.
E oggi, un normale martedì di fine agosto, mentre sono al parco del Valentino a Torino, durante una retata, la polizia mi ferma.
Pensavo non fosse possibile fermare i ciclisti, invece vedo spuntare una paletta e sento dirmi, con voce ferma e decisa:
«Accosti, grazie».
Io sto spingendo la mia bici rossa arrugginita con i piedi, sto facendo quello che fanno i bambini piccoli quando vengono
staccate le rotelle e tentano di spingersi in avanti per qualche metro senza pedalare.
Accosto, anche se sarebbe meglio dire “porto il manubrio un poco più in là sulla strada”, e rispondo educatamente: «Mi dica».
Loro mi squadrano e chiedono, sempre con voce ferma e autorevole, di favorire i miei documenti di identità.
Sorrido e mi giustifico mostrando il mio abbigliamento a dir poco penoso, ma adatto all’uso. Indosso una tuta con
cappuccio lurida e bucata che usavo forse al liceo: la mostro senza provare vergogna e confesso di non avere né tasche né documenti con me. La polizia arriccia il naso e rimane sorpresa. A quel punto mi appare nitido in testa il loro pensiero. Mi
hanno preso per un tossico, perché solo un tossico strafatto può andare in giro in quella maniera, e pensano che il mio
percorrere in continuazione lo stesso tratto di strada sia un chiaro segnale: sto facendo il palo ai miei colleghi spacciatori.
È ora di rispondere in maniera adulta e responsabile, devo chiarire subito questo malinteso. Senza guardarli negli occhi,
con una voce ingenua e speranzosa affermo: «Scusate, è che sto imparando adesso ad andare in bicicletta».
Loro mostrano un’espressione che pensavo non fosse compresa nel codice deontologico delle forze dell’ordine ed esclamano: «Alla sua età?!».
Ci sovrasta un gigantesco silenzio di accomodamento, poi ripartono con: «E come mai un uomo della sua età dovrebbe
imparare adesso ad andare in bicicletta?». Prendo fiato e rispondo: «Essenzialmente per due motivi».
Roberto Paola Scordari (proprietario verificato)
grazie, l’ho preso con l’offerta leggereacasa quindi vi ringrazio tantissimo presto la recensione
giupedretti (proprietario verificato)
Dario è una forza della natura…da quando papà all’ennesima potenza!
Elena (proprietario verificato)
Una lettura non solo per chi è genitore. Emozionante,divertente,amaro e dolce allo stesso tempo.E profondamente vero. Bravo Dario
Chiara (proprietario verificato)
Ho visto lo spettacolo nato in seguito alla scrittura del libro ed è meraviglioso, tenero, molto divertente. Fa venir voglia di fare figli e Dario è un padre da cui prendere ispirazione, almeno un po’! Non vedo l’ora di avere il libro tra le mani.