La Città Concentrica è una megalopoli protetta da una gigantesca capsula semisferica, in cui donne e uomini sono destinati a non incontrarsi mai. Trattati alla stregua di esseri inferiori, privati del diritto di un nome e costretti a lavorare senza sosta, gli uomini vivono nei sovrappopolati quartieri periferici, ignari del loro unico scopo: fornire il liquido seminale che assicuri alle abitanti dei Cerchi Interni la continuità riproduttiva. Quando Cab513, giovane esponente della comunità maschile, incappa nel corpo svenuto della fuggitiva Mizar, prendono il via una serie di eventi che costringeranno uomo e donna, essere inferiore e creatura semidivina, a una tormentata quanto inevitabile collaborazione. Inseguiti dalla spietata guerriera Zirlin, intraprenderanno un rocambolesco viaggio attraverso i Cerchi Esterni alla ricerca del luogo leggendario chiamato Valeford.
Prologo
Il sogno era sempre lo stesso. Il giorno sembrava sveglio da poco, offuscato dal tipico filtro azzurro che satura l’aria del mattino. Un lieve respiro di vento attraversava l’immensa distesa erbosa, mano invisibile e gentile che increspava con premura i suoi capelli e inebriava il paesaggio di un delicato profumo di gelsomino. L’uomo nudo respirava a pieni polmoni quell’aria piacevolmente fredda, mentre un sole svogliato, nascosto dietro il crinale dei monti, espandeva le sue braccia di luce agli angoli più bui del cielo.
Che strano, quel sogno ricorrente. Era diverso dagli altri, in qualche modo più vivido, quasi realistico. Provava una strana sensazione di déjà vu, l’impressione di vivere istanti già vissuti, di respirare ossigeno già respirato. Era consapevole che il suo corpo, quello vero, giaceva addormentato chissà dove, eppure allo stato attuale non poteva far altro che arrendersi per l’ennesima volta alla manifestazione del proprio subconscio.
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Mentre si rassegnava all’idea, il sole spuntava tra le pendici innevate di fronte a lui, irrorando d’oro l’intera valle. Adesso la luce era troppo intensa, a malapena riusciva a tenere gli occhi aperti. Eppure, sapeva di dover guardare. D’istinto accostò la mano destra alla fronte e, progressivamente, le sagome che lo circondavano presero forma: schiere di alberi appuntiti come baionette punzecchiavano un purpureo cielo in fiamme; un edificio snello, forse il campanile di una chiesa, si stagliava altero di fronte a lui, a circa duecento metri di distanza; pennellate di cespugli carichi di bacche e fiori di campo variopinti trasformavano il tappeto erboso in un meraviglioso quadro impressionista. Il silenzio si esprimeva in una molteplicità di suoni, tanto delicati e riservati da somigliare a tenui cantilene, litanie che le sue orecchie non avevano mai udito: il ronzio degli insetti, il canto degli uccelli, il brusio della brezza montana che scivolava sull’erba alta. Si sentiva bene, del tutto a suo agio, in pace, forse per la prima volta nella vita. Avanzò di qualche passo, senza fretta, accarezzato dal delicato tocco delle achillee fresche di rugiada, affondando i piedi scalzi nei soffici salici che pavimentavano il lieve pendio. Nudo come un neonato, camminava placidamente con un sorriso estasiato stampato sul viso, godendosi appieno ciò che la natura gratuitamente gli offriva.
Poi, in un attimo, tutto cambiò. Un battito di ciglia e la grande ombra era lì, di fronte a lui. Immobile nella sua immobile oscurità, distante poco più di una dozzina di metri, lo fissava con occhi invisibili dal centro del semicerchio solare. Intorno alla nera silhouette, la luce era fortissima, a malapena sopportabile. Adesso, tutto era fermo.
Un caldo asfissiante, innaturale, avvinghiò il suo corpo e, di nuovo, la luce parve espandersi e avvolgerlo, inghiottendo tutto ciò che rimaneva del sogno. Un crescente fastidio ai piedi, che presto si trasformò in vero e proprio bruciore, lo convinse ad abbassare lo sguardo verso il terreno, dove voluminosi cespugli di ortica avevano sostituito asfodeli e vedovine. In quel preciso istante, con un movimento lento e macchinoso che sembrò durare un’eternità, l’ombra mosse un passo verso di lui. Avanzò come sospesa a mezz’aria, senza emettere alcun suono, risvegliando nella sua mente paure ancestrali, fino a quel momento sconosciute. Seguirono due minuti di interminabile silenzio.
Una miriade di pensieri malevoli e angoscianti rumoreggiavano nella sua testa, come tarli del legno intenti a divorare una deliziosa cassapanca di mogano.
«La situazione non sembra volgere a tuo favore, caro il mio comodino!» esordì uno di quelli.
«E poi, se devo dirla tutta…» continuò un secondo insetto, dall’altro orecchio. «Mogano, qui, non ne vedo. Truciolato, forse.»
Arcadio
Romanzo interessantissimo e di grande attualità tematica. Ho conosciuto Hilary di persona e dire che è una persona seria e competente non basta a render giustizia a questo artista poliedrico.