Capitolo uno
Franca
Era una notte buia e tempestosa… scriverebbe Snoopy.
Guardo fuori dalla finestra. Dalla mia postazione tra la tenda e il vetro del quarto piano del Sonnenblume mi sembra di sormontare di qualche metro gli alberi più vicini del giardino privato che lo circonda. Le piante si arrampicano fino alla staccionata di legno che le separa dalla strada e dal parco esterno, polmone verde della città. Come in un progetto architettonico, i più lontani ondeggiano in prospettiva allo stesso livello dell’appartamento numero 402, mentre quel poco di luce diffusa dai lampioni in lontananza traccia un orizzonte frastagliato e mobile.
Il vento, troppo freddo per un inizio ottobre, agita la massa uniforme di chiome scure che all’alba ritorneranno rami portatori di foglie gialle, come a voler restituire il sole dell’estate appena conclusa.
La stanza, troppo calda per una sera d’autunno, non ha niente fuori posto. Ogni oggetto testimonia un momento preciso del percorso di una vita. Tante foto, alcune ancora in bianco e nero, sfilano nella parata dei ricordi. La stessa figura femminile attraversa le stagioni della propria bellezza, gli uomini sono diversi. Li guardo e so che non sono tutti. Mio padre, ad esempio, non ha trovato spazio su quelle pareti o nelle cornici appoggiate sulle superfici piane, nel bel mezzo di centrini di pizzo inamidato. Questo particolare mi ferisce. Sto cercando di ricomporre un puzzle dove nulla è come i pensieri ripropongono.
In questa galleria mancano anche due dei miei quattro fratelli, figli di un uomo che non ho conosciuto. L’ho visto a volte in qualche album di foto a casa di parenti, ma di lui conosco poco più di niente. Molti anni fa quell’uomo ha scelto di scendere da una vita diventata troppo scomoda. Ha tolto il disturbo senza dare spiegazioni: come tutti i suicidi avrà trovato la propria verità tra cervello e cuore. Valida e dolorosa.
Una voce che viene dal passato srotola un racconto che riaffiora tra i rumori del temporale e le voci di persone che salgono le scale oltre la porta d’ingresso. Appartiene a una di quelle storie origliate, giocando a ritagliare sagome di vestiti per bambole di carta dopo averle colorate, mentre donne adulte parlano tra tazze di tè al latte, crostate di prugne e biscotti allo zenzero. È la voce di mio fratello, quello di cui non ho mai conosciuto il padre, che borbotta qualcosa, è assicurato a un albero con un’intelaiatura di quelle che si usano per sorreggere i bambini ai primi passi. L’ho sempre immaginato vestito con una salopette azzurra, di quelle coi pantaloni corti e ampi che l’elastico a mezza coscia fa sembrare un palloncino. Probabilmente da qualche parte ho visto una foto in cui indossa quell’abito.
Quel giorno, accingendosi a partire, nostra madre deve aver pensato: Ti lascio con la fascia così non sei in pericolo. E forse glielo ha anche detto mentre gliela infilava.
Lo penso seduto, intento a giocare e a parlottare con le costruzioni di legno colorato. Le stesse costruzioni che un Natale ho avuto in regalo: cerchi, rettangoli, quadrati, ponti gialli, rossi e blu. Come ho fatto io anni dopo, sta costruendo una torre. Appoggia un mattoncino sopra all’altro. Come me batterà le mani quando l’equilibrio precario si arrenderà al peso dell’ultimo pezzo, quello che tirerà giù la costruzione.
È molto bello quel bimbo, ha la pelle chiara e i boccoli biondi come le bambole di porcellana che nonna Ruth, la seconda moglie del nonno materno, collezionava.
Quelle strisce di cuoio lo imprigionano all’albero come fosse un cucciolo. E lo era. Un cucciolo umano di due anni. Nello stesso ricordo, poco più in là, in un box all’ingresso della veranda, dorme tranquilla una bambina di sei mesi.
Nostra madre deve averle sussurrato: «Puoi anche piangere, tanto lì dentro male non te ne puoi fare. Sei al sicuro, bambina mia». Forse la bimba piangerà, o forse no. Fino a quando non avrà fame e resterà asciutta rimarrà tranquilla.
Nostra madre ha preparato due borse. Sono gonfie, riempite il più possibile e in fretta. Si guarda allo specchio, si ferma per passare sulle labbra il rossetto rosa, poi le strofina fra loro per stenderlo bene. Lo stesso gesto leggero che perpetuerà negli anni prima di uscire di casa.
Focalizzo i pensieri su qualche dettaglio: per terra forse un foulard, senz’altro chiaro. Vedo mia madre mentre lo raccoglie, se lo aggiusta sui capelli, si riguarda allo specchio ed esce di casa senza voltarsi indietro. La osservo mentre sale su un taxi chiudendo un capitolo della propria vita con una fuga.
Parla con l’autista, poi la sua voce si fa più vicina, meno acuta, e la scena cambia.
Dalla cucina dell’appartamento 402 del Sonnenblume mi chiede: «A cosa stai pensando?».
Non so cosa rispondere.
L’immagine di lei diciottenne che ha compiuto quei gesti lasciando da soli in una casa incustodita i suoi due figli, come fossero giocattoli di cui si era stancata, mi causa un vortice nello stomaco. “Abbandono di minore” direbbe un giudice, e forse lo ha detto il giorno in cui ha affidato i miei fratelli al loro padre.
Lei si è probabilmente discolpata dicendo: «Non li ho abbandonati, li ho lasciati soli per poco tempo, il padre stava per rientrare dal lavoro».
E se l’uomo, ignaro, si fosse fermato all’osteria come lei diceva fosse solito fare?
Negli anni successivi ha sempre giustificato la propria fuga lamentandosi delle continue assenze del marito, dei soldi che lui spendeva per bere con gli amici, delle altre frequentazioni femminili, dell’ostilità delle sorelle di lui. Come faceva a essere certa che quel giorno sarebbe tornato a casa presto?
Davanti alle fermate degli autobus spesso ci sono carte per terra e la gente che aspetta le evita o le scalcia o le ignora. Una giovane donna, ammettendo anche l’esistenza di gravi motivazioni personali, può fare la stessa cosa con le proprie creature?
Mia madre parla. Vedo muoversi le labbra e non capisco le parole, sento il vento oltre il vetro, il rumore dell’ascensore e i miei pensieri che si rincorrono. Provo rabbia, una rabbia rumorosa come le urla delle tempeste sul mare. Di certo non posso dirlo, potrei solo andarmene, ma non voglio farlo.
Per colpa di quella storia, il già difficile rapporto fra noi si è definitivamente sbrecciato anni fa.
Ero incinta quando ho chiesto al nonno. Anche mia sorella, che aveva fatto proprio il racconto non potendo ricordare nulla di quel giorno nel box, mi aveva dato la stessa versione dei fatti. Avevo domandato quasi per paura di poter ripetere quell’abbandono. Mentre mio nonno raccontava avevo tenuto le mani sulla pancia per sentirne la vita, l’appartenenza, per infondere protezione. Nemmeno alla follia avrei permesso di farmi compiere quel gesto.
In seguito, però, ho cercato di aggrapparmi proprio a quell’episodio per riuscire a interpretare atteggiamenti e scelte di mia madre che non riuscivo a capire.
Adesso, davanti a un’anziana che mi sorride, che sembra preoccupata dei miei pensieri, che fa di tutto per essere gentile, mi chiedo se la fragilità della vecchiaia saprà appoggiare un ponte di pietà e di perdono a cavallo del tempo.
«Questo vento farà cadere quasi tutte le foglie. Avrei voluto fotografare il parco domani. È così bello quando dal rosso passa al giallo.»
«Saranno mucchi di foglie. Speriamo li raccolgano in fretta coi camion. Da bambina mi facevi arrabbiare. Ci saltavi dentro e ti sporcavi sempre tutta. Eri un maschiaccio tu, sempre pronta a rotolarti per terra.»
Veramente mi piace ancora lo scricchiolio delle foglie secche sotto i piedi. Questo però non lo dico.
***
Mia madre si prepara per la notte. Io guardo oltre il vetro. Le luci questa sera hanno un magnetismo particolare. I lampioni delle strade e le finestre illuminate delle case in lontananza disegnano una mappa nel buio. All’interno di quello spazio scorrono le vite di mio fratello e di mia sorella. Con lui ho parlato al telefono nel pomeriggio, ci abbracceremo fra poco.
La notte vista dal Sonnenblume sembra ricamata da un triangolo equilatero luminoso dentro il quale, nell’oscurità, gli alberi della città addormentata appaiono immobili. Foglia dopo foglia invece, il vento li sta denudando e la pioggia macera il tappeto che si forma ai loro piedi. Non scricchioleranno più, saranno scivolose e pesanti.
Il mio osservatorio al quarto piano del condominio per anziani è nel mezzo della base del triangolo. Dai due spigoli del palazzo rivolti verso la città partono, una da destra e l’altra da sinistra, le linee che mi congiungono al pezzo della mia famiglia che sta cenando in un’altra casa in quel segmento di mondo. Questa sensazione di vicinanza è piacevole. Se fossi uno degli scoiattoli che all’imbrunire ho visto saltare da un ramo all’altro mi spingerei, albero dopo albero, fino alla punta. Lo farò passeggiando, seguendo una di quelle linee là sotto, lampione dopo lampione.
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L’insegna della fabbrica di orologi all’apice del triangolo, nel punto d’incontro delle due strade, è un luogo che conosco bene. Lì vicino sono cresciuti i miei nipoti, lì ci sono altre verità.
La clessidra luminosa visibile in lontananza sembra la stella cometa sulla punta di un albero di Natale. Potrebbe avere ai suoi piedi pacchi pieni di doni che nessuno ha ancora ricevuto, oppure solo la carta che li avvolgeva dopo che qualcuno li ha scartati con gioia. Opto per la seconda ipotesi; nonostante tutto, con quei doni qualche rara volta ci ho passato le vacanze e sono stata felice.
Ho sempre voluto bene ai miei fratelli “a metà”, ho provato per loro una nostalgia sottile e una stima enorme. Adesso li vivo come parte di quel che sono diventata. Esistono e sono persone con le quali sono in armonia. Loro, che forse hanno perdonato, certamente un giorno, come sto facendo io ora, hanno indossato la corazza per resistere nel tentativo di capire. Loro mi hanno insegnato che il destino si costruisce vivendo e che a volte lo si può pure imbrigliare.
Per un po’ mia sorella aveva riallacciato i rapporti con nostra madre, poi era stata riallontanata dai suoi atteggiamenti.
***
Sorrido, qualsiasi saga televisiva ha molte meno trame di quelle che un giorno leggerò dal quaderno fucsia che se ne sta appoggiato sotto la lampada, qui di fianco, sul tavolino del salotto. Un giorno, prima o poi. Adesso non mi sento pronta, devo prepararmi a farlo con calma. Il proposito di affrontare le “verità” di mia madre cercando di non giudicarla si sta rivelando alquanto difficile. Questa donna che gira per casa senza la protezione della passata bellezza è solo una povera vecchia ammalata, che protrae nei suoi giorni l’atteggiamento egocentrico e superficiale di tutta una vita. So che da una parte è un bene.
Per lei anche il cancro all’intestino che la abita è una cosa da non approfondire, un inquilino scomodo che ha reso le giornate più complicate tra sacchetti per stomia che non aderiscono alla pelle e drenaggi che si otturano. Nulla di più, e questo non dargli peso lo addomestica.
Io trovo faticoso anche solo abbracciarla tentando tenerezza. Un abbraccio dovrebbe essere spontaneo, invece per compiere quel gesto devo partire da una decisione ragionata, spingerla fino alle braccia e indurle al movimento. Non mi nasce dentro l’emozione in cui corpo, mente e cuore diventano unico respiro. Un abbraccio così non produce calore, non pulsa, non vive. Forse quel calore non è mai esistito, o forse si è spento non so quando.
Il quaderno fucsia è in bella vista sul tavolino, vicino al telefono e alla rubrica. In diverse telefonate lei mi aveva detto che stava scrivendo la storia della propria vita e che mi avrebbe consegnato tutto al prossimo incontro. Quel momento è arrivato, prende il diario e me lo porge come qualcosa di estremamente prezioso. Lo metto subito nella valigia e mia madre mi passa anche due mazzetti di lettere, sue e di uno degli uomini che sorridono dalle pareti di questa stanza. Le lettere sono ordinatamente raccolte in due astucci di plastica, così protette hanno attraversato indenni il tempo e gli spostamenti.
Mi ricordo di lui. Quando lo incontravo dovevo chiamarlo zio, e mi pulivo la faccia ogni volta che quello zio mi baciava sulla guancia, lasciandomi addosso odore di bar. Sgradevole puzza di grappa e tabacco. Lui era gentile e sorridente, sapevo che era un nemico, lo intuivo nonostante i miei pochi anni. Eppure anche quel nemico mi ha regalato una sorella, la più giovane. Siamo cresciute insieme nella casa di mio padre, ignaro.
La sera fuori è tentatrice. Nonostante sia fredda e piovosa sa invogliare a una passeggiata. Decido che è ora di uscire, ho voglia di aria e di camminare piano prima di lasciarmi prendere in un abbraccio e in un sorriso che desidero da mesi.
In quest’appartamento l’unico tentativo di empatia che mi sfiora è il perdono, ipotesi che tiene aggrappata la voglia di andarmene a quella di restare. Desideri opposti, talmente forti da essere violenti, che stanno avvinghiati allo stesso tronco come due naufraghi perché sanno che solo quel tronco li porterà a riva. Dopo potranno scegliere cosa fare, ma adesso nel mare in burrasca riescono solo a farsi sballottare dagli eventi. Questo a tu per tu con una madre incamminata verso la fine, questo provare ancora una volta a capire, mi sono necessari adesso. Lo so, ma ne sopporto il peso con fatica.
Il cellulare lancia un bip. È un messaggio di lavoro che arriva da lontano, spedito in automatico a tutti i dipendenti, anche a quelli in ferie. Se così non fosse indosserei il cappotto, scenderei di corsa le scale e mi precipiterei verso la macchina per andare alla riunione annunciata.
Ascoltare proposte valide che la politica trasformerà in aria fritta e ironizzare sul parlarsi addosso dei relatori istituzionali aiuterebbe a sentirmi leggera, cercare con pochi altri la soluzione migliore per portare a casa un minimo di risultato distrarrebbe la mia mente, ma la riunione è a nove ore di treno di distanza.
Prima di prepararmi per uscire scrivo la lista delle cose da fare domani: chiamare il portinaio per controllare il contatore della luce che continua a staccarsi; svuotare il congelatore ormai guasto da giorni; andare in stazione a comprare il biglietto del ritorno; cercare un coltello piccolo di quelli rossi con la croce Svizzera per un regalo promesso; prepararmi ad affrontare nuove tracce del passato e accantonarle senza lasciar trapelare nessun sentimento. Questo viaggio l’ho voluto fare per questo. Vorrei diventare il nastro di un vecchio registratore, imprimermi di parole e dati da scandagliare altrove, in luogo neutro, girando in tondo con calma, alla ricerca di un senso.
Vorrei solo ribaltare quel malessere che mi accompagna da sempre, riempire le crepe con attimi mancanti, capire perché mi sia impossibile pensare: Mamma, ti voglio bene.
Infilo in tasca la lista e mi guardo ancora intorno. L’ordine è perfetto come in tutti i luoghi abitati da mia madre nel tempo. Anche lei è ancora stravagantemente in ordine. Accurata nei minimi particolari lo è sempre stata. Le sue priorità erano: apparire sempre al meglio, truccarsi prima di farsi vedere dagli altri, mettere ai figli i vestiti “belli” per uscire così la gente non avrebbe potuto criticare, infilare le pattine entrando in casa per non segnare con la suola delle scarpe il pavimento lucido, stendere i panni in terrazza ordinatamente dal più grande al più piccolo.
Quante volte da bambina non ho invitato in casa le amichette perché mi vergognavo di quel dover scivolare su pezzi di feltro? Magari loro si divertivano pure, ma era imbarazzante bloccarle sulla porta con un: “Per entrare devi usare queste o mia madre si arrabbia”. Anche qui tutto è al suo posto, sotto controllo, se non fosse per qualche macchia più chiara lasciata sulla carta da parati da un quadro spostato altrove, o magari solo messo via in occasione della mia visita.
Il non visibile agli occhi segue regole differenti per noi due. L’ordine dentro mia madre è un iceberg che non può avere crepe, mentre niente dentro di me mi sembra in ordine.
Ho ancora un cuore pulsante solo grazie all’innamoramento che da sempre ho dentro. Quello che capita una volta nella vita, la cui esistenza può smuovere certezze e corazze creando turbini di emozioni, vuoti e sensazioni di pienezza improvvise. Ma soprattutto quello che potrebbe ripristinare in me la fiducia negli altri, persa goccia a goccia nel tempo. Guardando le foto degli uomini che, dalle mensole e dalle pareti, ignari della presenza uno dell’altro abbracciano in posa la stessa innamorata, credo di sapere il perché. Ma mi sto domandando troppe cose.
Quante vite può vivere contemporaneamente la stessa persona? Mia madre era poligama o polinfedele? Ninfomane o puttana? Le scelte sessuali possono essere una colpa? Ho il diritto di giudicare? Le azioni di mia madre erano causate da circostanze o era il suo modo di essere che la portava a non avere alcun rispetto per l’altro? E io, figlia, che aspettavo mio padre alla sera per scaldargli la minestra, che ho passato giornate ad accudire i fratelli più piccoli mentre lei era fuori, che mi schifavo quando i baffetti umidi dello “zio” mi sfioravano, come avrei potuto ancora fidarmi delle persone, non provare gelosia, trovare sicurezza?
Troppe domande rischiano solo di alimentare caos. Devo zittirle.
Rossella Scherl (proprietario verificato)
Caro Woody, ne è valsa la pena attendere!
Antonella Iaschi affronta il tema delle problematiche familiari e del conflitto madre/figlia a viso aperto, accompagnando Franca, la protagonista, in un viaggio dell’anima tra luoghi e ricordi, per lasciarsi alle spalle il passato e guardare al futuro. Un futuro fatto di nuovi incontri, nuovi profumi, nuovi sapori, nuovi colori, di intreccio di storie, di sorellanza empatica che accoglie e fortifica.
Un bel romanzo.