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Un esule cileno, una ragazza bellissima e sbandata, un giovane scellerato che la amava e le perdonava tutto. Si erano lasciati vent’anni prima, nel pieno di una stagione esaltante e feroce, avevano preso strade diverse, non si erano mai più rivisti. Sulla loro coscienza pesa ancora il ricordo di due amici uccisi in un colpo andato male. Sono diventati degli emarginati, dei reietti, sono finiti nel dimenticatoio della storia. Solo un vecchio poliziotto della squadra politica, zoppo e mezzo matto, non li ha mai dimenticati. Poi uno dei tre ritorna, e scova gli amici di un tempo. Ha un piano pazzesco e impossibile, ma è disposto a tutto pur di realizzarlo. Fra loro scorrono ancora sangue, sesso, amore, violenza e desiderio di vendetta. E sullo sfondo di una Roma magnifica e indifferente, nel labirinto che collega il passato al presente, Dori Chris e Indio giocano la loro ultima partita.

CHRIS.

Nebbia sulfurea, macchiata da bagliori rossastri.

Nubi possenti, grigio piombo, si stratificano basse,

squarciate da lampi accecanti e congelano nella retina una

distesa di lapidi erose dai secoli. La pioggia insistente lava

le pietre dei sepolcri, dove sono appollaiati corvi vigili, con

penne traslucide e occhi di fuoco. Una notte degna di Edgar

Allan Poe, così dovrebbe essere questa notte. Invece è una

tipica notte romana del 2009, temperatura mite, luna che

diffonde sulle tombe del Verano una luce gentile, interrotta

ogni tanto da un passaggio di nuvole mosse dal vento in quota.

Fiori freschi, ghiaietta bianca sui tumuli. Lapidi passate a cera.

Un cimitero che sembra un giardino condominiale. Altro

che notte di Walpurgis.

Niente epica in questo paese di culidipiombo.

Niente tenebre, niente tregenda, elementi scatenati,

scheletri di guerrieri, elmi, spade. Vichinghi. Valchirie.

«Chissà come ce l’avevano la passera, le Valchirie? Muscolosa?

Secondo me ce l’avevano muscolosa».

Questo pensa a voce alta Eros Concio, in arte Panzer,

mentre tenta di disegnare una svastica su una lapide con

una pisciata.

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Il Panzer non ha visto molte passere dal vivo, neppure

ariane. Si è trattato per lo più di fugaci scorci di pelose fighe

colombiane, pagate ben cento euro in un bilocale pulcioso

vicino alla stazione Termini. Il resto della sua educazione

sessuale viene dai siti più sfigati dell’Internet, quelli dove

non paghi l’entrata, o dai giornaletti che teneva sotto la

branda a Pisa, dove lo avevano cacciato dai parà, la brigata

paracadutisti, prima ancora che avesse fatto un lancio.

Chissenefrega, lo stemmino con le ali e il paracadute lo

porta comunque sul bomber, anche ora che sta pisciando

con perizia sulla tomba dell’ebrea.

Poco distante Franz Dececchi, amico fraterno di Panzer,

bestemmia e fatica con la pala dentro una buca di circa un

metro.

«Ma vaffanculo, Panzer. Vieni qui a darmi una mano. Sto

scavando da mezz’ora e ho trovato solo questo». Un teschio

senza mandibola inferiore vola fuori dalla buca, colpendo

Panzer sulla schiena.

Luca Manfrò detto Teschio, in piedi su un sepolcro di

pietra con una Marlboro in bocca e una mano sul culo della

sua ragazza, osserva la squadra al lavoro. L’idea di scavare

al cimitero è tutta sua. Intrippato col satanismo, Teschio

si è letto un paio di libretti sul tema, li ha mescolati con

reminiscenze di fumetti porno-horror e videocassette di

filmacci americani anni Ottanta per confezionare una sua

personale idea di messa nera, una cerimonia sacra con ossa

e croci e sangue e coltelli. Bisogna pur motivare la truppa,

le cazzate fasciste ormai non scuotono più di tanto i suoi

guerrieri. Per distogliere i ragazzi da Resident Evil c’è bisogno

di un ingrediente, qualcosa di più – come dire? – mistico.

Qualsiasi cosa significhi.

Aveva pensato al sacrificio di una capra o di un agnello, ma

il prezzo dell’abbacchio è troppo alto e poi pensa che casino

trascinare una bestia urlante e puzzolente dentro il vecchio

box dove passa le giornate con i suoi nibelunghi. Meglio

quattro vecchie ossa e un CD a palla dei Rammstein, e chissà

di che cazzo parlano nei testi, ma l’atmosfera è quella giusta.

La sua ragazza, Tamara “Eva” Ranetta, con la chiappa

oramai insensibile, pensa ai cazzi suoi e in particolare a

quello dell’istruttore della palestra Skorpyo con cui ha avuto

un fugace ma intenso rapporto sessuale qualche ora prima.

La luna esce in quel momento dalle nuvole e illumina il

cimitero di una luce bianca e fredda.

«Caz-zo!» sillaba Teschio sottovoce, stringe gli occhi

per vedere meglio ed estraendo, nel contempo, la mano dai

pantacollant di Eva senza che lei nemmeno noti la differenza.

Teschio non crede ai suoi occhi: un barbone, un vero,

autentico, stronzo barbone. Seduto su una tomba con la testa

china, incassata nelle spalle, i lunghi e disordinati capelli che

piovono sul pastrano lungo fino alle ginocchia.

Sembra dormire con le mani in tasca, immobile.

Il colpo di genio folgora Teschio come una scossa elettrica.

Sacrificio umano!

Altro che capra, altro che ossa.

Fa un fischio ai suoi, allunga il braccio e indica il bersaglio

con l’indice e il medio che stringono la Marlboro.

Panzer e Franz salgono sul sepolcro per guardare meglio.

Eva, disturbata nei suoi pensieri da quell’intrusione, scende

con un saltino e, seduta su uno scalino, si accende una paglia.

«E se elevassimo una pira in onore di Odino?» dice Teschio

ai due indicando il barbone.

«Una che?» chiede Franz con l’espressione confusa.

«Una pira, deficiente. Un sacro rogo purificatore che

suggelli il nostro patto tra guerrieri».

«Ah, tipo Giovanna D’Arco? Quel film dove bruciano

quella stronza coi capelli corti e l’armatura».

«Tipo quello» conviene Teschio.

Panzer ghigna, salta giù, si avvia verso l’uscita del cimitero

con l’aria di chi ha paura che ci si diverta senza di lui.

Franz dà un’occhiata in giro. Solo tombe. Osserva il

barbone. Chiede: «Come lo facciamo? Dove?».

«Qui» risponde Teschio, irritato da tutte quelle domande.

Un po’ di iniziativa, cazzo. «Gli diamo fuoco. Poi lo

buttiamo nel buco che hai scavato e ricopriamo tutto. Che

te ne pare, Eva?».

La ragazza fa cerchi di fumo con la bocca, non risponde.

Panzer torna dopo qualche minuto con una tanica di benzina

che è andato a prendere in macchina.

Teschio tira fuori uno zippo e lo lancia a Panzer, che lo

prende al volo. Poi si avvia baldanzoso con la tanica verso il barbone.

Si ferma a un metro dalla vittima, svita il tappo della tanica

con lo zippo tra i denti, si gira verso gli amici ad ammiccare.

Quando si volta di nuovo verso il barbone lo zippo gli

cade di bocca. L’uomo ha sollevato la testa e lo guarda con

tre occhi neri. Il terzo occhio è la canna di un Uzi puntato

su di lui. Panzer stringe istintivamente la tanica al petto e fa

due passi indietro cercando di urlare, ma la voce non esce.

Una breve raffica di mitraglietta centra in pieno la tanica

che esplode, avvolgendo Panzer con alte fiamme arancioni.

Panzer urla.

Il barbone si alza in piedi, il suo spolverino lurido sventola

come un’ala di pipistrello, l’Uzi stretto in pugno. Quella

creatura da incubo si gira lentamente verso i tre, illuminata

da Panzer trasformato in torcia umana che grida disperatamente

e corre verso i suoi amici immobili, a bocca spalancata,

a guardare l’inferno.

Poi Franz urla: «La pistola!». Teschio si scuote, cerca

l’arma, sa di averla portata, pensa porcamerdadovecazzoè,

ricorda che è nel giubbotto, in macchina, si tuffa tra le tombe

travolgendo Eva. Teschio le urla: «Via via via!».

Franz, che non si separa mai dalla sua Glock, la estrae

dai pantaloni e la punta verso il barbone. Ma il barbone è

coperto dallo spaventapasseri in fiamme che corre tra le

tombe emettendo suoni per nulla umani. Franz gli spara

tre colpi in corpo. Panzer crolla su una composizione di

crisantemi, incendiando anche quella.

Il barbone è ancora fermo, con l’Uzi in mano. Franz

indietreggia gridando e sparando, ma inciampa sul bordo

di una tomba e cade di schiena nel buio.

La luna è sparita dietro un’ennesima nube di passaggio.

Il barbone avanza con calma tra le lapidi, si ferma di fronte

al tumulo dove è caduto Franz, getta appena un’occhiata alla

punta arrugginita della croce in ferro battuto che sbuca di

venti centimetri dal petto del ragazzo con gli occhi sbarrati

e la bava rossa sulla bocca. Una gamba si muove a piccoli

scatti. Il corpo inarcato a qualche spanna da terra, sostenuto

solo dalla croce che l’ha trapassato.

Il barbone solleva il piede destro, appoggia la suola dell’anfibio

sul torace del ragazzo.

Una delle mani aggrappate alla punta insanguinata della

croce si alza ad artigliargli i pantaloni. Lui spinge il piede

in basso.

Teschio ed Eva fuggono tra le tombe in due direzioni

diverse. Teschio corre tra le lapidi come un pazzo, scavalca

muretti, aggira cappelle, senza sapere dove andare, in cerca

di una salvezza impossibile.

La luna è ancora coperta dalle nuvole ma Teschio, con

il cuore impazzito, vede come in un miraggio l’uscita del

cimitero e si lancia di corsa verso il cancello. Corre ansimando

tra angeli e madri piangenti di marmo. Corre come non ha mai corso.

Davanti a lui si muove una delle statue che affollano il

cimitero. È Cristo che allarga le braccia per accoglierlo. Non

un Cristo misericordioso, però. In una delle mani impugna

una mitraglietta, e Teschio sente le gambe diventargli di piombo.

Mormora qualcosa, reminiscenze del bambino che un

tempo è stato, del chierichetto che serviva messa milioni di

anni prima: «Gesù».

«Non sono io, sai. Gli assomiglio solamente» dice una voce fredda.

Panzer sente un gran colpo al petto, come il calcio di un

mulo. Il barbone ha sparato a colpo singolo. L’impatto lo

solleva da terra e lo getta a braccia aperte sopra una tomba

scavata di fresco. Le tavole che coprono lo scavo si spezzano,

il corpo precipita nella fossa.

Il barbone scende dal piedistallo di marmo e cammina

lentamente. Sul piazzale c’è solo l’auto di Teschio, un gippone

Toyota. Accanto alla portiera aperta Eva, sudata e tremante,

fruga nel giubbotto di Teschio. Poi si gira verso il barbone

impugnando una pistola.

Ma lui, continuando a camminare col braccio armato

appoggiato sul fianco, guarda la ragazza e mormora: «Non farlo. Vattene».

Eva spara, mancando di molto il bersaglio. Cerca di mirare ancora.

Il barbone, con un’espressione rassegnata, alza l’Uzi e

lascia partire una breve raffica.

La maglietta della ragazza ribolle di qualcosa che viene

dall’interno. Spruzzi vermigli si agitano come rettili. Eva cade

all’indietro e rimane a tossire sangue sul sedile della Toyota.

L’uomo fa sparire l’arma sotto al pastrano con un gesto

veloce e disinvolto. Poi pesca in tasca una sigaretta e se l’accende.

INDIO.

La saracinesca si alza gemendo e lasciando cadere piccole

croste di ruggine.

L’uomo ha tratti sudamericani, strizza gli occhi alla luce

del mattino e srotola una canna dell’acqua sul marciapiede.

Un furgoncino Ape, parcheggiato davanti al negozio,

perde olio e dignità goccia dopo goccia.

L’uomo inizia a lavare il marciapiede. L’acqua sporca si

raccoglie in rivoletti nel canaletto di scolo e forma una pozza

in corrispondenza del tombino intasato. Lui fissa pensieroso

gli arcobaleni oleosi che luccicano dentro la pozza.

Una sigaretta fumata a metà cade nell’acqua.

L’acqua continua a scorrere. L’uomo alza lo sguardo.

Fissa un barbone fermo davanti a lui con una logora borsa

in mano. Dice: «Chris». Il barbone gli sorride: «Indio!».

Indio resta sorpreso e impalato davanti al nuovo venuto.

Chris guarda la mano di Indio che regge la canna, l’acqua continua a scorrere.

Indio segue il suo sguardo, si scuote, lascia cadere la canna,

entra nel negozio e chiude l’acqua, si asciuga le mani con

uno straccio. Tira fuori un pacchetto di MS, ne accende una

e fa cenno di offrire a Chris. Dice: «Cazzo!». Chris sorride e prende la sigaretta.

Senza dirsi altro entrano nel negozio.

Indio libera una poltrona di finta pelle, tutta screpolata

e ingombra di vecchie Domeniche del Corriere, poi mette su

il caffè su un fornelletto a gas in fondo alla stanza.

Chris si svacca sulla poltrona e si guarda in giro.

Indio, armeggiando con la caffettiera, chiede: «Quando sei tornato?».

«Da un po’» risponde Chris.

«Perché?».

«Boh, non so, guardarmi in giro, vedere come stanno le cose…».

La bocca di Indio si piega in un’espressione amara e

sarcastica: «Stanno di merda le cose, Chris».

Chris tira una lunga boccata. «Sembra proprio di sì.

Come sta tua madre?» chiede.

Indio giocherella con un cucchiaino e una latta piena di

zucchero: «Morta. Morta sei anni fa».

Chris annuisce. Poi, guardando fuori dalla vetrina chiede:

«Hai visto Dori?».

La caffettiera inizia a borbottare. Indio si gira e spegne

il fuoco. Poi, come a giustificarsi, si gira verso Chris e dice:

«Il caffè».

Chris si alza e accende il piccolo televisore di fronte alla poltrona.

Indio versa il caffè.

Sullo schermo immagini sgranate di corpi coperti da

lenzuola, tombe, poliziotti. Una voce che recita: “sembra

che le tre vittime siano da ricondurre alla variegata galassia

dell’ultradestra, che negli ultimi mesi ha…”.

«Tre un cazzo, erano quattro!» osserva Chris a voce alta.

Indio si blocca col cucchiaino a mezz’aria e dice: «Figlio di puttana! Sei stato tu?».

Chris lo guarda, sorride e alzando due dita dice: «Due cucchiai per me, Indio».

LENZI.

Il tenente di polizia Guido Mortara è concentrato sul ricordo

del mojito della sera prima. Il segreto del suo mojito è la

quantità degli ingredienti. Guido pensa che i mojito che si

bevono nei bar provocano solo frustrazione perché durano

poco e contengono troppo ghiaccio e poco alcol. Quindi lui

abbonda. E fa dei gran mojito.

Ne vorrebbe uno proprio adesso. Anche se non ha mai

toccato alcol prima dell’ora di pranzo in tutta la sua vita,

ora vorrebbe davvero uno dei suoi mojito, per togliersi di

bocca il saporaccio del caffè del bar di piazza del Verano.

Per stordirsi un po’, e sopportare meglio il ricordo di quel

sangue schizzato dappertutto.

Il tenente Mortara odia le scene del delitto. Odia camminare

in punta di piedi tra brandelli di carne, pozze di sangue,

puzza di morto e di merda, con la paranoia di inquinare le

prove e di macchiarsi scarpe e vestiti. E, più ancora delle

scene del delitto, odia i giornalisti che infestano le scene del delitto.

Col tempo è diventato bravissimo a trovare la posizione

giusta in quelle situazioni di merda. Lontana abbastanza

dalla macelleria e dalle domande dei gazzettieri, ma non

così defilata da farlo risultare assente – metti caso che un

superiore passi di là proprio in quel momento.

Insomma, è proprio da una di queste sue perfette postazioni

che il tenente Mortara avvista il commissario Lenzi.

E questo gli fa dire a voce alta un bel “ma porca puttana!”.

Il commissario Lenzi è un funzionario a un passo dalla

pensione. In Questura si dice che sia stato un pezzo grosso

dell’antiterrorismo negli anni Settanta. Ora è solo un anziano

rompicoglioni a cui vengono affidati piccoli incarichi,

indagini bancarie e controlli vari, uno di quelli che odiano

l’informatica e i metodi nuovi, che la mena a tutti i colleghi

sul “fiuto” e sull’“istinto”. Un rompicazzo, insomma, sempre

a impicciarsi nei casi di tutti, a dire la sua, ossessionato

soprattutto dalla pista politica, come se gli anni di piombo

non fossero mai finiti. Lenzi zoppica un po’, si dice per una

ferita in servizio.

E Lenzi, porca puttana, adesso sta zoppicando tra le

tombe della scena del delitto del tenente Mortara.

«Cazzo ci fai qui, Lenzi?» chiede il tenente avvicinandosi.

«Salve Mortara. Niente… facevo colazione in un bar qui

vicino. Ho visto le macchine, i giornalisti, e sono entrato.

Cos’è successo?».

«Tre morti, stessa arma, che tra l’altro non si trova. Anche

le vittime erano armate. Sembra un rendez-vous di droga finito male».

«Chi erano?» chiede Lenzi indicando le macchie di sangue per terra.

«Teste rasate, teppisti da stadio, probabilmente piccoli

spacciatori di borgata».

Lenzi guarda le svastiche sulle lapidi e mormora: «E quelle?».

Mortara sbuffa sapendo già dove il vecchio vuole andare a parare.

«Cazzate. Se guardi più in là ci sono anche dei 666 e dei

pentacoli. Tutto il repertorio della subcultura da periferia.

C’è pure un Viva la Lazio».

L’anziano commissario è fermo davanti alla lapide dove

stava seduto Chris la notte prima.

Mortara insiste: «Niente di nuovo, Lenzi».

Ma l’altro non sembra badargli. Fissa i bossoli per terra,

evidenziati da piccoli cartoncini colorati, poi il suo sguardo

risale alle parole incise sulla pietra, Luca Mari 13-5-1960, 5-10-

1981. Immediatamente gli occhi del poliziotto corrono alla

tomba vicina. Daniele “Tupa” Cattaneo 25-9-1959, 5-10-1981.

Lenzi sente un brivido sulla schiena, stringe i denti e

mormora: «No, niente di nuovo» e se ne va.

AMICI.

Chris e Indio sono alle prese col terzo caffè. Indio ha

anche messo in tavola dei biscotti Ringo e delle noci.

«Non pensi che qualcuno potrebbe collegarti con Luca e

Daniele? C’è ancora una condanna su di te, e pesante, anche»

dice Indio con la bocca piena.

Chris scrolla le spalle: «Ma va, chi se li ricorda ormai,

Luca e Daniele. Son passati più di vent’anni. E chi mi riconoscerebbe?

Sono un barbone, ho l’identità che voglio e

nessun indirizzo. Io non esisto».

Indio scuote la testa dubbioso: «Non so, Chris, mi sembra

una fesseria. Una sparatoria e tre morti non sono il modo

migliore per passare inosservato».

«Quattro morti» puntualizza Chris. «E comunque ho

dovuto difendermi. Quelli erano nazisti che mi volevano

bruciare. In pratica sono stato costretto».

Indio lo guarda, ironico, interrompendo platealmente

la masticazione del biscotto.

Chris si mette a ridere: «Ok, lo ammetto, è sempre una

bella sensazione ammazzare nazisti. Il mondo sembra più

pulito, dopo».

Indio si alza e ripone il pacchetto dei biscotti in un armadietto,

poi chiede: «Come mai giri armato?».

«Abitudine, Indio. Sai cosa ho fatto in tutti questi anni, no?».

Indio allarga le mani: «Ipotesi perlopiù. Ti davano in

Sudamerica, qualcuno in Cecoslovacchia».

«Messico, poi in Nicaragua. Una specie di piccola brigata

internazionale. Io, due tedeschi e qualche francese, uno spagnolo

e un olandese. Davamo la caccia ai contras. Cecchini.»

Indio sorride amaro: «Hai trovato la tua rivoluzione?».

Chris tira su col naso rumorosamente: «Ho solo ammazzato

un mucchio di stronzi per conto di altri stronzi, Poi son

finito in Africa. Poi in Bosnia. Lì ho detto basta. Ho vissuto

in un’isola greca per qualche anno. Facevo ritratti ai turisti,

quadretti con le casette bianche. E poi ho deciso di tornare».

«A far cosa, Chris? Non mi hai risposto» chiede Indio.

Chris lo guarda con un’espressione di sfida e risponde:

«Vuoi proprio saperlo, Indio? A finire un lavoro. Un lavoro

interrotto il 5 ottobre del 1981».

5 OTTOBRE 1981.

Quando si dice “anni di piombo” si immagina sempre

che il tempo allora fosse sempre grigio scuro. Quell’iconografia

da documentario operaista milanese, gente con

i cappotti che prende il tram la mattina presto, nebbia,

condomini tristi e Fiat 128 stinte.

Invece in quegli anni i ragazzi portavano vestiti colorati,

avevano i capelli lunghi e si facevano le canne ascoltando

musica bellissima. E c’era spesso il sole.

C’era il sole anche quel mattino di ottobre in cui Chris,

Luca, Daniele e una bellissima ragazza chiamata Dori si

incontrarono a ponte Milvio con una borsa piena di pistole

e un’Alfa Romeo rubata.

Chris saltò giù dal muretto e si avviò verso l’auto da cui

stavano scendendo i compagni.

«Dov’è Indio?» chiese.

«Già al posto di scambio. Stanotte ha pensato alla macchina

e alle targhe» rispose Dori.

«Ottimo. Si va. Pronti?».

«Pronti» dissero insieme Luca e Daniele.

«Sì» aveva già detto Dori, fredda.

L’Alfa Romeo partì morbida. Chris osservava Dori, le

sue dita sul pomello del cambio. Lei se ne accorse, cominciò

a giocherellarci con i polpastrelli. Chris ebbe una mezza

erezione. Dori gli piaceva da sempre, da quando l’aveva

incontrata a Venezia con un coltello in mano. Era scattato

qualcosa, da allora non l’aveva più dimenticata. L’aveva

ritrovata a Roma, lo stesso autunno. Lei era entrata nel

gruppo di Chris, portandosi dietro un piccolo arsenale di

armi razziate durante un assalto a un’armeria.

Erano cominciate le azioni. Prima macchine bruciate,

beccando quelle di secondini, poliziotti, fascistelli di quartiere.

Poi attentati con la benzina a centraline Sip, tralicci

dell’Enel. Senza un piano preciso, con obiettivi improvvisati,

scelti in base a voci, articoli letti sui giornali del movimento,

a vendette personali. La politica c’entrava poco in quei mesi

pazzeschi, anche se sembrava essere dappertutto. Erano

mossi da un’euforica disperazione, dalla voglia di fuggire

a un destino già scritto. Non si rassegnavano a un mondo

comandato da quelle grigie teste di cazzo che si vedevano al

telegiornale. Poi erano arrivati alle rapine agli uffici postali, a

qualche supermercato. Rapinavano per comprare altre armi,

ma anche per andare in vacanza, venti giorni ad Amsterdam,

un mese in Grecia. E proprio in Grecia, a Lindos, Chris e

Dori avevano fatto l’amore per la prima volta, su un grande

letto in cima alla terrazza di una casa bianca. Con la musica

dei Pink Floyd che veniva da un portatile Grundig. E lì era

cominciato qualcosa, non volevano sapere cosa, perché i

tempi erano così veloci e turbolenti che non c’era spazio

per progetti personali.

14.01.2016
Copie inviate ai sostenitori! Stiamo preparando l'uscita negli store (online e librerie), vi terremo aggiornati su questa pagina.
18.02.2016
Dal Polo Nord a Palermo, passando per Cape Town, New York, Joanhesburg e Conegliano Veneto, si può proprio dire che Deadflowers sta facendo il giro del mondo!

Commenti

  1. Romanzo dalla copertina fantastica. La storia è magistrale. Ottima scrittura, rapida e scarna ma così empatica da farti sentire dentro la storia. E poi un finale da film con un gran messaggio strisciante fin dall’inizio che esplode nel finale, proprio come devono fare i romanzi migliori. Lo straconsiglio 🙂

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Paola Tavella e Agostino Toscana
Paola Tavella, genovese, vive a Roma da trent'anni con i suoi figli e il bassotto Giove. Giornalista, scrittrice, ha lavorato per 15 anni al "manifesto" seguendo la lotta armata, i processi che sono seguiti e la detenzione politica. Nel 1996 ha pubblicato "Il Prigioniero" (Feltrinelli), cronaca dei 55 giorni di Aldo Moro raccontati da Anna Laura Braghetti, la sua carceriera. Da questo libro Marco Bellocchio ha tratto il film "Buongiorno, notte". Nel 2000 ha pubblicato "Gli ultimi della classe" (Mondadori) sul progetto napoletano Chance che riporta a scuola i ragazzi di strada, da cui Sergio Castellitto ha tratto il film per la tv "O' Professore". Con Livia Turco ha poi scritto "I nuovi italiani", un'inchiesta sull'immigrazione in Italia, e con Alessandra Di Pietro "Madri selvagge" (Einaudi) su maternità e biopolitica. Collabora con gli allegati del Corriere della Sera, com Amica, Uomo Vogue, Il Foglio. E' stata per due volte la portavoce del Ministero per le Pari Opportunità. Da vent'anni pratica e insegna kundalini yoga e meditazione.


Agostino Toscana nasce in Svizzera nel 1960.
Dopo gli studi al Liceo Artistico e all'Accademia di Belle Arti, inizia una lunga carriera nel campo dell'advertising.
Attualmente è Executive Creative Director di una nota agenzia pubblicitaria internazionale.
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