Mi chiamo Ludovica Giglioli e sono nata a metà degli anni Settanta, a Roma, a via della Camilluccia, “con due elle, due ci e una sola emme”, come mi ripeteva pazientemente mio padre quando imparai a scrivere da sola il nostro indirizzo. “Camilluccia viene dal principe Camillo Filippo Ludovico Borghese che, oltre al palazzo romano, aveva anche una dimora in campagna e per raggiungerla a cavallo passava proprio da qui: la Camilluccia, la piccola strada di Camillo” si premurava di aggiungere ogni volta, e a me sembrava un fatto importante, di cui andar fieri, anche perché uno dei tanti nomi di questo fantomatico principe era uguale al mio. Sulla strada del principe Camillo, le automobili, grazie alla quasi totale assenza di traffico, sfrecciavano a una velocità spaventosa, tanto che mio padre, con il suo humor nero e il suo adorabile catastrofismo, mentre ci esortava ad adottare la massima attenzione e destrezza nell’attraversarla, sentenziava preoccupato “Altro che via della Camilluccia! Sarebbe da chiamarla via della Morte!”. In realtà, la nostra strada non aveva nulla di funereo, anzi. Semplicemente non era una via per pedoni, né per individui senza auto o senza autista. Nell’immaginario collettivo degli anni Ottanta, la Camilluccia richiamava piuttosto ambasciate (come quella olandese e di alcuni Paesi del Medio Oriente), ville con piscina e comprensori di lusso, tra cui quello di Renato Zero. Da qui le reazioni ammirate quando, nei primi contatti con il mondo esterno, dichiaravo di abitare proprio lì. In realtà, il nostro rispettabilissimo condomino, seppur signorile e ben tenuto, non aveva nulla di sfarzoso. Era una graziosa palazzina arancione, con una dozzina di appartamenti tutti provvisti di ampi terrazzi, cui si accedeva tramite un bel giardino condominiale, con il suo pratino all’inglese, che in primavera si riempiva di margherite, e dei begli alberi. Pieno zeppo di libri (per dirla con le parole di un fattorino loquace “prima o poi i libri vi cacceranno”), di dipinti antichi e moderni, sculture e soprammobili, il salotto di quella casa è, a onore del vero, a tutt’oggi tra i più belli che abbia mai frequentato. Dalle grandi vetrate non si scorgono altro che i rigogliosi alberi di Villa Tre Colli, il parco prospiciente. È questo, ancora oggi, l’orgoglio di mio padre: “Vedi, sembra di stare a Cortina” ironizza spesso. E in effetti, oltre all’innata e inguaribile tendenza a procrastinare qualsiasi cambiamento, credo che a far rimanere i miei genitori nella stessa casa per oltre cinquant’anni sia stato proprio quel salotto, pieno di luce e di verde, a una manciata di chilometri dal centro di Roma. Se il doppio salotto luminosissimo (come direbbe un agente immobiliare) era il centro piacevole e mondano della casa, il resto era in realtà meno grandioso. Mi sono a lungo lamentata di non avere una camera tutta mia. La “cameretta”, per restare in gergo immobiliare, era infatti nei primi anni adibita a stanza della tata, o ragazza au pair, come si diceva pretenziosamente all’epoca. Ne avemmo tante: restavano poco, come dare loro torto, con tutto quel caos. In ogni caso, la mia agognata “cameretta” a un certo punto arrivò. Fu mio padre a sorprendermi e ordinare qualche mobile e a liberare la stanza, dove erano passate rapidamente una sfilza di giovani tate e che era poi diventata una terra di nessuno dove venivano appoggiati libri e vestiti stirati. Eppure, nonostante le dimensioni e le premesse non proprio incoraggianti, in quello spazio minuscolo, riuscii nel tempo a ricevere amici e amiche, oltre che fidanzati. Era un buco, d’accordo, ma aveva il vantaggio di essere così vicino all’ingresso da consentirmi di sgattaiolarci dentro nel cuore della notte, anche ben oltre il coprifuoco, senza essere scoperta.
Nel periodo in cui ho vissuto a via della Camilluccia con la mia famiglia ho visitato con mio padre e mia madre (mio fratello di rado si univa) decine e decine di altre case in vendita. C’era una vaga e velleitaria idea, in cui nessuno aveva mai creduto veramente, a parte me, che nella mia beata ingenuità contavo di trasferirmi veramente in quegli appartamenti molto più centrali. Il chiodo fisso era infatti di muoversi verso uno dei quartieri alle pendici della collina in cui eravamo confinati, con un particolare anelito verso Prati, la zona dove si svolgeva gran parte della nostra vita: scuola, catechismo, sport vari. Persino il macellaio di fiducia (presso il quale avevamo un conto aperto, quando i nostri genitori partivano) era lì, a via Avezzana, a offrirci oltre che bistecche e straccetti, succulenti piatti pronti e persino prestiti di piccole somme di danaro (ma nemmeno mio fratello arrivò mai a tanto, almeno non che io sappia). Prati era (ed è tuttora, nella sua immutabilità) un quartiere geometrico, ordinato, elegante e sonnolento. Palazzi sabaudi e giardinetti disadorni si alternavano, graziosamente ma senza guizzi, a qualche bar alla moda e qualche boutique femminile con rapporti discutibili tra qualità e prezzo, ad appannaggio di avvocati e giornalisti della RAI che, tramandando le loro professioni di padre in figlio da decenni, detenevano le chiavi del rione con malcelata soddisfazione.
francesco capozza (proprietario verificato)
E’ un racconto appassionante. Il periodo della giovinezza di Ludovica sembra una storia unica, ma al tempo stesso, leggendo qua e là, si vive un déjà-vu che ci riporta alla nostra giovinezza. Mi piace molto e credo che piacerebbe ai ragazzi.
Andrea Uzzo (proprietario verificato)
Una storia nella storia che ti inchioda fino alla parola fine, divertente, ironica, ma al contempo ricca di riflessioni sulla vita da adolescente, da universitario e da neolaureato in cerca del tuo posto nel mondo. La scrittura è così immediata che la protagonista riesce raccontando la sua storia a farti sentire parte del suo gruppo.
Chiara Hribal (proprietario verificato)
Meraviglioso, frizzante, ironico. Questo libro è riuscito a farmi rivivere anni pieni di colori e di emozioni, in modo profondo e leggero al tempo stesso.