Lui non le rispose. Non ne aveva voglia. Seguiva solo un pensiero: aveva salvato una vita. Era stato bravo!
Passati dei minuti, lei ripeté con tono più forte: «Grazie. Posso sapere il nome del mio salvatore? Io mi chiamo Farah. Piacere».
«Mi chiamo Tancredi» le rispose, tendendo a chiudere la conversazione.
«Grazie, Tancredi. Sei stato grande!» Si sollevò da supina. Rimase seduta e lui ne vide meglio i particolari. Capelli scomposti e viso tirato, ma sembrava carina. Osservava il mare, il cielo, la spiaggia, si guardava intorno come se stesse conoscendo quei posti soltanto adesso. Il sole ancora caldo e la brezza la stavano asciugando. Sullo sfondo, un gruppo di case. Vicino a loro, dei bimbi seminudi si rincorrevano ridendo e strillando. Era viva, quindi, e le sembrava tutto surreale. Era lì, sana e salva, grazie a quell’uomo seduto poco distante da lei. Profondamente grata, lo osservava. Non le sembrava meridionale, ma che importava: l’aveva raccolta dalle onde mentre sfinita pensava di non riuscire a contrastarle e a non raggiungere più la riva.
Mentre lui rimaneva seduto, con le gambe piegate, i talloni affondati nella sabbia e i gomiti poggiati sulle ginocchia, lei provò a rimettersi in piedi. Fece qualche passo per avvicinarsi al giovane, ma un senso di vertigine la costrinse a fermarsi. Una sensazione di nausea le portò la mano verso la bocca. Lui rimase apparentemente impassibile. Si sentiva inadeguato, non ne capiva il perché e, soprattutto, non voleva darglielo a vedere. Poi si drizzò in piedi e le domandò: «Come stai?».
«Sembrerebbe bene, grazie. Devo solo riprendermi. Qualche minuto e andrà tutto a posto.»
«Quando ti sarai ripresa, potrai raggiungere quel gruppo di case, a destra. Chiederai dov’è la guardia medica, e lì si occuperanno di te.»
Lo guardò stranita, mentre lui mostrò sul viso una smorfia procurata da un sorriso stereotipato. Si girò su se stesso e andò via, lasciando tracce sulla sabbia e un grande vuoto.
Si sentì abbandonata, rifiutata, come rigettata in mare. I pensieri affollavano la sua mente, ma non riusciva ad articolarne uno che la distogliesse da quello su colui che le aveva appena girato le spalle.
Quella persona, la stessa che neanche mezz’ora prima l’aveva salvata dalla probabile deriva, che l’aveva stretta tra le braccia e con affanno e fatica l’aveva portata sulla sabbia asciutta; quell’uomo che scostandole i capelli dal viso l’aveva accarezzata, quello stesso uomo stava andando via così, non curante della sua salute, di come e dove sarebbe andata e di cosa sarebbe stato di lei. Senza alcuna domanda: chi sei?, da dove vieni?, dove volevi arrivare?, vuoi che ti accompagni in qualche posto? Non le aveva fatto nessuna delle domande che chiunque avrebbe posto nelle stesse circostanze. Non sapeva se essere più stupita o più amareggiata, più delusa o più incazzata, ma provò a dimenticare: la vita era ancora in lei, che era felice di poterla riabbracciare. Sorrise, rise. Alzò il capo e le braccia verso il cielo, si lasciò andare di nuovo per terra, iniziò a rotolare sulla sabbia. Voleva sentire ancora riaffacciarsi i suoi arti, i suoi muscoli, ogni parte del suo corpo e assaporarne la forte sensazione di rinascita.
«Tancredi, vieni. La cena è pronta. Jamu a manciari.»
«Arrivo, Lilla, prima devo farmi una doccia.»
Passò dal soggiorno velocemente. Aveva lasciato pantalone e maglietta sul terrazzino che precedeva l’ingresso della sua casa. Lilla avrebbe provveduto a recuperarli, a pulirli, a metterli a posto, come da sempre metteva ordine in quella casa e, spesso, anche nella vita dei suoi abitanti.
Lilla non era una governante qualsiasi, ma l’anziana donna che si occupava di tutto ciò che potesse fare star bene, o quello che lei intendeva come tale, il suo Tancredi. Finita la doccia, il giovane si recò a tavola, intorno alla quale la sua governante si muoveva con la solita destrezza. Serviva le pietanze con calma, con i ritmi giusti per ogni piatto, come per porre l’accento sulle attenzioni e l’affetto da lei profusi in ciascuna di esse. Lui iniziò a mangiare in silenzio, lentamente, a tratti con lo sguardo fisso. Prendeva a morsi il pane, anziché spezzarlo con le mani, come faceva di solito. Lilla, per fargli compagnia, mangiucchiava qualcosa. Avrebbe cenato a casa, più tardi, con il suo Santo. Scrutava la stranezza di Tancredi che, di solito, di fronte al cibo e a un buon bicchiere di ’nzolia, era ben disposto al sorriso e chiacchierava amenamente.
«Tancrè, che hai?» gli chiese.
«Niente, perché?»
«Mi pari stranu» aggiunse lei.
«Ma quale strano! Cosa vedi? Cosa c’è di strano?» rispose lui, con disappunto.
Lilla rimase sorpresa da quella sua reazione.
«Se non vuoi parlare, allora stiamo zitti, basta ca nun mi pigghi pi fissa dicennu nenti… nenti.»
Pesantemente, tra loro, subentrò il silenzio. Lui continuò a cenare come prima, lei prese qualche altro boccone e si alzò. Tolse qualcosa dalla tavola e si diresse in cucina dove iniziò a pulire, ma era già pentita di quello che gli aveva appena detto. Si asciugò le mani con lo strofinaccio, mentre tornava a sedersi accanto a lui. Lo guardò in attesa di un suo segno, di una sua parola.
«Allora?» lo incalzò.
Lui la guardò, diede l’ultimo morso alla pesca che aveva tra le mani, passò il tovagliolo sulla bocca e allontanò il piatto, segno che aveva finito il suo pasto.
«Oggi pomeriggio, quando ho finito di lavorare, sono andato in spiaggia. All’improvviso, ho visto in acqua una persona che annaspava. Pensai stesse annegando. Di corsa, mi sono tuffato e l’ho portata a riva.»
«Matri Santissima, veru? E comu stava?» lo interruppe lei.
«Stava bene» le rispose.
«Menu mali. Che bellu! Ma cu era? A ’ccu apparteni, lo sai?» continuava Lilla.
«Era una di quelli» rispose lui.
«Una di quelli? Di quelli chi?» gli chiese incuriosita.
«Una negra!» Nessuno dei due andò oltre.
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