Appare un bambino con le gambe paffutelle incollate al pavimento di marmo. Una voce maschile lo guida. Lui muove le mani, mostra i due denti che ha messo, si tocca il ciuffo di capelli neri. Biascica qualcosa, ma la voce non risponde, lo ignora.
Arriva una donna sulla sessantina, lo prende in braccio, si siede con lui sul divano e gli accarezza il viso. Lui ride, le mette le mani sulle guance, salta sulle sue gambe velate dalle calze. La donna gli chiede di elencarle i sette nani e lui inizia a farlo.
Non funziona stavolta.
Vado in cucina, scaglio la tazza nel lavello, sento il rumore dei cocci sull’acciaio. Apro il frigorifero e prendo una bottiglia di vino bianco. La stappo buttando via il sughero, riempio un calice e bevo tutto d’un sorso. Il sapore fruttato mi riempie la gola, la raffredda. Mi accascio a terra come quel bambino. Mi appoggio al bancone della cucina, avverto il tanfo dell’immondizia che non ho ancora portato fuori. Vorrei sentire l’odore delle calze, della naftalina sulla gonna. Ne ho bisogno. Mi alzo, metto qualcosa addosso, prendo la Vespa e guido verso la mia vecchia casa.
Ci metto un po’ prima di entrare. Resto a fissare la targa sbiadita con la scritta Mariani per non so quanto tempo, poi inserisco la chiave.
Salgo la scalinata di marmo, mi appoggio alla ringhiera nera e avverto la puzza di muffa che la casa ha assorbito. Prima profumava di soffritto e carote, di vestiti puliti stesi al sole, di candele.
Su queste scale c’erano bambini che correvano, gonne troppo lunghe che strisciavano sopra, cellulari appoggiati sui gradini.
Mia nonna è in cucina. La stringo.
«Scusa se non ti ho avvisato, nonna.»
«Non devi avvisare.»
Sollevo le spalle.
«Ci penso io a te, tu siediti lì.»
Mi indica la sedia bassa accanto alla porta di vetro che si affaccia sul cortile interno. Mi siedo e fisso il nido delle rondini sotto il tubo che circonda il cortile. Vorrei entrare dentro, sentire quel groviglio d’erba che pizzica fino a scorticarmi le guance.
«Hai visto il nido?» le chiedo.
«Sì, lo fanno sempre.»
«Perché non dovrebbero? È un posto stupendo.»
Nonna gira il sugo e si avvicina per accarezzarmi la testa.
«Sai che questa è casa tua» dice.
«Sì, lo so.»
Torna ai fornelli, butta la pasta.
«Quanti articoli hai scritto questa settimana? Non mi hai fatto leggere niente.»
«Non ne ho scritto nessuno.»
Nonna fa cadere il mestolo sul pavimento, formando una scia rossa.
«Come sarebbe?»
«Eh sì, mi ha licenziato.»
Raccoglie il mestolo, lo lancia nel lavandino e trascina una sedia per mettersi di fronte a me.
«Il tuo capo ti adorava. Che è successo?»
Il modo in cui mia nonna vede la realtà che mi circonda mi fa impazzire. Mi è bastato dirle che mi aveva dato una pacca sulla spalla una volta, dopo aver letto il mio articolo, per farle pensare che non potesse fare a meno di me. E invece poteva eccome.
«Pretendeva che passassi tutto il giorno con il collo piegato su una scrivania e io soffro anche di dolore cervicale.»
«Mario.»
«È così.» Alzo le spalle. «Non faceva per me. A me piace l’odore dell’inchiostro sulla carta.»
Scuote la testa, non mi crede. Non posso dirle che ho scritto due articoli penosi dopo essermi scolato una bottiglia di vodka e li ho pubblicati facendo incazzare sul serio tutta la redazione.
Sento il sugo che bolle nella pentola.
«Ora mangia, poi ci pensiamo» dice. «Ogni dolore a fame ritorna.»
Le sorrido, vado a sedermi a tavola. Sulla tovaglia a quadretti ci sono un piatto di affettati e un bicchiere già riempito con dell’acqua.
Nonna scola la pasta, la unisce al sugo, grattugia sopra del parmigiano e me la serve. Profuma di basilico.
Saranno ormai dieci anni che faccio il caffè a mia nonna e glielo porto in sala, dove sta guardando Beautiful dalla sua poltrona beige a fiori, eppure non ha mai perso la voglia di dirmi che è buonissimo e che ho imparato a farlo proprio bene.
Mi sistemo sulla mia poltrona, spingo con la schiena per far uscire il poggiapiedi e sorseggio il mio caffè. Non si può parlare durante Beautiful, a meno che io non voglia altro da mangiare.
Appena finisce, nonna spegne il televisore e mi guarda, stringendo le labbra coperte dal rossetto rosa.
«Come sei venuto qui?»
«Con la Vespa.»
Lei scuote la testa, riposiziona un boccolo biondo nel fermaglio e stringe le mani.
«Ancora quella Vespa, Mario?»
Annuisco, abbasso gli occhi. Lei mi accarezza i capelli e sospira.
«Non ce ne libereremo mai, vero?»
«Ho paura di no, nonna.»
L’immagine del mio corpo accasciato sulle scale di questa casa, in attesa di un messaggio che non sarebbe mai arrivato, e quella di mia nonna che mi lascia la tazzina di caffè sul gradino, accarezzandomi la testa e sussurrandomi che sarebbe andato tutto bene, mi scuotono, mi fanno sospirare.
«Eppure è sempre stata così strana.»
«È molto intelligente.»
«Se ti ha lasciato andare non lo è poi così tanto.»
La guardo negli occhi e le prendo la mano.
«Non devi preoccuparti più per me, mi sto occupando della situazione.»
«Hai conosciuto un’altra?»
«Non intendevo quello.»
«Che intendevi?»
«Nulla.»
«Mario?»
«Stai tranquilla, davvero.»
Mia nonna si irrigidisce, mi lascia la mano e va ad aprire la finestra.
«Chi ti vuole bene non è mai tranquillo» dice.
Posa i gomiti sul davanzale, dandomi le spalle.
«Lo so.»
Sono in un ristorante, stropiccio una tovaglia appena stirata che sa di lavanda, tocco le posate opache in attesa di un piatto di pasta. Ho sete, tanta sete, ma il cameriere mi ignora, sembra che non riesca a sentirmi. Arriva il cibo, fa schifo. Chiedo il conto, mi alzo quando vedo due cifre sullo scontrino.
Stringo una chiave a cui è attaccato il numero venti.
Mi sveglio. Il collo mi fa male, l’ho storto sul bracciolo della poltrona.
Mi gratto il mento, la barba mi solletica la gola. Il sogno appena fatto mi ha infastidito: sentivo il vento infilarsi nelle maniche della mia felpa. Un odore simile a quello delle ringhiere arrugginite mi si era appiccicato ai palmi.
Sento la nonna russare nella sua camera. Sarà meglio svegliarla e tornare a casa: sono già le cinque meno venti e non voglio rischiare di sentire quei rintocchi.
La camera di mia nonna sa di acqua di colonia e lacca.
Socchiudo la porta alle mie spalle e le sfioro il braccio per svegliarla.
«Io adesso devo andare, nonna.»
«Già?» chiede, sollevandosi e sistemandosi i capelli.
Annuisco.
«La prossima volta vieni in macchina, però. È vecchia quella Vespa.»
«Va bene, te lo prometto.»
La bacio sulle guance lisce e un po’ della sua crema idratante mi unge le labbra.
Chiudo il portone e vi poso la schiena per un attimo. Inclino indietro la testa, respiro.
Prelevo un foglio piegato in quattro dalla tasca dei miei pantaloni. Lo apro e lo poso sul sedile della Vespa. Prendo una sigaretta e la piccola penna che lascio sempre nel pacchetto e inizio a scrivere.
Se dovessi usare un solo luogo per riassumere la nostra storia, sceglierei questo. Sceglierei i ciottoli su cui slittavano le ruote della Vespa, la tenerezza con cui ascoltavi i discorsi in dialetto che si scambiavano le signore fuori dalla porta di casa, la scalinata che con te percorrevo senza alcuno sforzo, senza che mi mancasse mai il fiato. Sceglierei la terrazza che si trova di fronte alla chiesa, dove di notte si vedono le stelle. Noi ci siamo stati di giorno.
La tua pelle aveva assorbito l’odore del sole, qualche vecchietto con il cane interrompeva le nostre chiacchierate e il campanile suonava ogni quindici minuti. Poteva essere un giorno come altri, potevamo restare su quella panchina a fumare, a baciarci e a parlare di cose stupide, potevamo annoiarci, cazzo.
Almeno una volta potevi farmi annoiare, no? Sapevi sempre cosa dire, rispondevi a tutte le mie domande, mi abbracciavi e mi facevi dimenticare tutto il resto.
L’orologio segnava le cinque, ho chiamato il mio amico per chiedergli di uscire alle sette e tu hai riso quando gli ho detto che non serviva che si lavasse, che andava bene sporco com’era. Hai riso come non avevi mai fatto e io ho perso la testa. In quell’attimo ho saputo con certezza, per la prima volta, di essere innamorato di te.
DUE
Mi tolgono tutto quello a cui tengo. Mi tolgono tutto. Non posso avere niente io. Non posso avere ciò che voglio.
La mia bocca si riempie di saliva. Dalla gola sale un conato. Mi aggrappo all’angolo del tavolo della cucina, prendo il cellulare.
Non sta succedendo niente, sto bene.
Lo stomaco non mi fa male. Respiro col naso, gonfio il torace, trattengo il fiato.
La Cantina, il mio luogo, sta per chiudere. Me l’ha detto la cuoca, l’amica di mia nonna che dieci anni fa aveva bisogno di un lavoro e che mi ringrazia dal momento in cui ha indossato il suo grembiule bianco. Io non ci credo che la chiudano così, senza preavviso. Non ci credo, anche se lo dice lei che ci lavora, perché lei non sa che quel posto è anche mio.
Le strisce nere che le ruote del camion hanno lasciato sui sampietrini rendono la mia paura palpabile.
Raggiungo l’entrata, guardo male il tizio con i baffi che sta staccando gli adesivi dalla porta d’ingresso e mi trascino dentro.
Hanno già portato via tutto: i tavoli graffiati, le foto in bianco e nero, le bottiglie vuote sulle mensole, le carte da gioco consumate e macchiate, i calici scheggiati, le gambe sfilacciate delle sedie.
C’è solo un forte odore di vino.
Entro nella sala principale, afferro la piccola botte impolverata che si trova sul davanzale della finestra e mi accascio a terra, sulle piastrelle arancioni. I proprietari del locale mi guardano come si fissa uno che urla per strada, uno che stringe una bottiglia con un guanto bucato. Io fingo di non vederli e loro continuano ad avvolgere gli scatoloni con il nastro isolante.
Poi uno di loro mi viene vicino e mi dice che devo uscire, che non posso restare qui.
Vuole cacciarmi quest’uomo con il fiatone e lo stomaco gonfio.
Non lo sa chi sono, non sa quanti strati di me ho perso qui dentro.
Quando ho scoperto questo posto ancora mi bastavano due bicchieri di vino per ubriacarmi.
Facevo parte di un gruppo grande, riempivamo una sala intera e non facevamo mai pagare da bere alle ragazze. Ero io a raccogliere i soldi. Bastavano cinquanta centesimi a testa per veder spuntare due caraffe dalla porticina bianca forata da due cerchi di vetro.
Una volta mi sono ubriacato tanto da arrostire uno scarafaggio con l’accendino per mangiarlo al posto delle focaccine. Avrei fatto di tutto per far capire a Virginia che eravamo fatti della stessa pasta e anche se non ero riuscito proprio a ingoiarlo, l’avevo sputato in un lembo della tovaglia di carta senza che lei se ne accorgesse.
Ora che ci penso non so come io sia riuscito a fare una cosa del genere, data la mia fissazione per il cibo e per i germi. È assurdo che io mi sia messo uno scarafaggio in bocca. Mentre lo ricordo mi sembra di riferirmi a una persona diversa, a un conoscente che adesso definirei un animale, uno che non pensa a quello che fa. Però lei l’avrebbe fatto e la mia bocca è la sua bocca.
Se mi vedesse ora, con la botticella tra le ginocchia, a ignorare le parole di quest’uomo, mi definirebbe un maschio beta.
Il fatto è che qui, in ogni ruga del pavimento, ci sono le cose che ho fatto e che so di non poter più fare.
Lei non può capirlo, perché è abituata a buttare via le cose che non le servono più.
Vedo avvicinarsi Velia, la cuoca. Ha i capelli raccolti in uno chignon grigio, si pulisce le mani sul grembiule, si china e mi dà un buffetto sulla guancia.
«È finita» le dico.
Lei annuisce, io mi sollevo e le tocco la spalla. Il mio gesto forma una grinza sul suo maglione di lana grigia.
«Stanno già portando via tutto. Potevano avvisare, potevano aspettare un attimo» dico, alzando il tono.
Lei mi ascolta in silenzio, mi fissa e infila le mani nelle tasche del grembiule.
Mi accovaccio a terra e accarezzo l’incisione sul battiscopa.
«Questa resta qui, però» dico, osservando il risultato di una notte in cui mi sentivo invincibile, la scritta “A te, sempre”.
Velia si mette una mano sul petto.
«Dai, usciamo» dice.
«Riprendo la mia botte ed esco.»
«La tua?» Sorride.
«Sì.»
Il tizio con i baffi stacca l’ultimo adesivo dalla porta d’ingresso. Il camion ha già caricato tutto. I ragazzi mangiano una pizza seduti sul muretto.
Il tizio fa tintinnare le chiavi e chiude la porta.
Faccio l’occhiolino a Velia. Ha il viso bagnato e le mani conserte.
Devo salutare un ultimo posto, prima di andare a casa a ubriacarmi.
Faccio una piccola salita e mi fermo nel vicolo qui accanto. Sotto i miei piedi scricchiolano delle foglie accartocciate. Un lampione si accende sulla mia testa, illuminando la cascata di petunie del balcone qui sopra.
Sospiro, accarezzo il muro e mi allontano con la mia piccola botte tra le braccia.
Avverto la stessa malinconia che si prova dopo un bel viaggio, quando devi preparare la valigia per tornare a casa e sei consapevole di lasciare un luogo in cui non potrai più tornare.
Devo dire a Virginia che hanno chiuso la Cantina. Merita di saperlo, amava quel posto. Era suo in un certo senso.
Parcheggio la Vespa sotto casa sua, prendo la botte che ho retto con le caviglie per tutto il viaggio e vado a suonare al citofono.
Non risponde.
Prendo il foglio di ieri, strappo la parte della pagina su cui non ho scritto, la poso sulla gamba e scrivo:
- Mordimi.
Domenica dalle ventuno alle ventitré.
- Casa in costruzione.
Lunedì dalle diciotto alle venti.
- Parco abbandonato.
Mercoledì dalle venti alle ventidue.
- Benzinaio.
Giovedì dalle ventitré alle ventiquattro.
- Punto più alto del mio paese.
Venerdì dalle sedici alle diciassette.
Volevo dirti una cosa importante, per questo sono venuto qui. Non pensare che ti stia controllando o seguendo, perché non è così. Sto cercando di vivere la mia vita come mi hai chiesto di fare. Ma devo essere sincero, mi manchi un po’, un po’ tanto, come al solito. Per questo ti ho scritto questa lista, in modo che tu possa trovarmi, nel caso ti mancassi un po’ tanto anch’io.
Ti aspetto,
sempre.
Una signora con due buste della spesa mi lancia un’occhiataccia quando mi vede. Io mi alzo di scatto, le faccio inserire le chiavi e le dico che sto aspettando un’amica. Entro dopo di lei, le dico che preferisco aspettarla dentro, che fa freddo fuori. Lei annuisce e chiama l’ascensore.
Salgo a piedi fino al terzo piano, il suo. Mi ritrovo davanti alla sua porta in legno scuro, alla targhetta Cioffi sul campanello, allo zerbino con il gatto disegnato e mi sembra di sentirmi meglio.
Lascio la botte e infilo il biglietto sotto la porta.
Vorrei che il suo odore si sentisse fin qui. Vorrei entrare solo un attimo e annusare il suo cuscino, inalare il suo profumo, guardare cos’ha nel frigorifero.
Scendo e vado via prima che mi vengano idee strane.
Interruzione pagina
Chi mi ridarà indietro i ricordi? Lo farai tu? Sarai tu a restituirmi quella notte senza luna? Sarai tu a ridarmi quel momento nel vicolo, la promessa incastrata nel tuo sguardo e quella passione che ci consumava le labbra? Voglio indietro ogni cosa.
Quando giocavamo a carte e io ti proponevo scommesse che fingevo accettassi. Quando mi hai regalato quel portachiavi a forma di scarpa o quando ho spiccicato per te quell’adesivo dalla porta. Quando ti ho dedicato quel posto. Voglio indietro la sera in cui ho finto di non provare nulla per te. Dovevi lasciarmi andare, era il momento migliore per chiudere, ma tu non sei una che si arrende, giusto? Hai afferrato il lembo di stoffa del mio maglioncino come se stessi salvando una statuina di cristallo da una caduta che l’avrebbe frantumata. Io ti ho chiesto di lasciarmi andare con la voce graffiata dalla paura. Grattavo il muro con la schiena, lasciandolo sbriciolare, e mi sono seduto incrociando le gambe. Tu ti sei seduta accanto a me, mi hai detto che sarebbe andato tutto bene, che dovevo lasciarmi andare. Carpe diem, mi hai detto, ricordi? Io mi sono aggrappato alle tue mani e ho ammesso di essere troppo sbagliato per te. Volevo trascinarmi via da quel muro, da quel vicolo e dai tuoi discorsi frammentari, ma tu mi stringevi i polsi e mi chiedevi di restare. E io sono rimasto, mi sono fidato.
martina.tessitore17
La storia segue le vicende di Mario, un giornalista apparentemente normale che sta cercando, con difficoltà, di superare la separazione da Virginia, la ragazza di cui era innamorato. La rivede in ogni gesto, in ogni luogo. Cerca di dimenticarla uscendo con una ragazza di nome Rachele, ma ogni suo respiro non fa altro che ricordargli che vorrebbe che al suo posto ci fosse Virginia, con le sue abitudini, il suo profumo, la sua voce. Le scrive delle lettere per ripercorrere la loro storia d’amore, per ricordarle che lui è lì e resterà per sempre con lei.
Sin dall’inizio il lettore riesce a comprendere che in Mario c’è però qualcosa che non quadra, anche se non riesce subito a comprendere cosa in particolare: alcuni suoi comportamenti sono fin troppo strani.
Lui è ossessionato da Virginia, la vuole solo per sè, ed alcuni passaggi del libro, in cui si vede davvero la sua malattia, sono davvero inquietanti. Non si tratta spesso il tema dello stalking e dell’ossessione dal punto di vista del carnefice, ma Claudia Polsinelli riesce a dare una visione a 360 gradi della figura di Mario, rendendolo spaventosamente umano, ma allo stesso tempo disprezzabile.
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Recensione completa sul blog Le mille vite di un lettore!
booksjungle.ig
Vi troverete a leggere una storia piena di sofferenza, ansia e poca, pochissima lucidità. Allo stalker Mario non darete due lire, è avvolto da un’aureola di normalità e passività che spesso sarà per voi motivo di rassicurazione, empatizzerete con lui, farete quasi fatica a giudicarlo e alla fine riuscirete quasi a fidarvi delle sue parole. Che storia geniale e terrificante allo stesso tempo! facciamo all’autrice i nostri più sinceri complimenti.
Appoggiate questa campagna, non ve ne pentirete!
Giulia Fioretti (proprietario verificato)
Un viaggio attraverso la coscienza umana. L’autrice guida alla conoscenza del protagonista prendendo per mano i suoi lettori, rivelando punti di forza e debolezze del personaggio con delicatezza e totale onestà. Empatizzare con Mario diventa naturale e necessario. È proprio nell’inevitabilità dell’immedesimarsi che ho trovato originale e acuta l’intuizione di Claudia.
È davvero possibile riconoscere un mostro? Siamo davvero in grado di individuare un’ossessione morbosa dietro quell’amore incondizionato che ci hanno insegnato a rincorrere?
Claudia ci invita a seguire un percorso diverso, che non si esaurisce nella semplice proposizione del contrasto tra “bene e male” canonicamente intesi, è più complesso, meno netto e per questo tremendamente veritiero.
Una lettura travolgente, che rimane a lungo sotto la pelle.
Andrea Ganino
Un thriller che ti fa entrare nella mente del carnefice tanto da empatizzare con lui. Leggendo si entra nei luoghi nel romanzo e nelle emozioni del protagonista. Il finale è assolutamente inaspettato. Assolutamente consigliato.
Francesca Betti
Mario scrive a Virginia. Scrive di albe, rintocchi e lune piene; scrive da irato, fragile e docile davanti a caffè amari e luoghi da collezione.
Mario incontra Rachele, ma il corpo di donna che si insinua tra i suoi sogni notturni o in quelli a occhi aperti rimane lo stesso. Il profumo di tabacco secco e fragole che porta Virginia sul collo è solo suo e di giorni lontani.
Il passato diventa presente. Mario e Virginia sono scarafaggi distanti: uno pedina, l’altro si infila nel tempo futuro.
La corsa vana e la meta intangibile saranno vetro. Mille pezzi di vetro ed eterna ossessione.
Un libro particolare ed entusiasmante, che racconta la storia di Mario, un giovane giornalista alle prese con la fine tormentata della sua grande storia d’amore con Virginia.
Mario è distrutto e così decide, attraverso delle lettere, di ripercorrere la sua storia d’amore tormentata.
Lettere nelle quanto strazianti, ma che sapranno dare a Mario e a Virginia le riposte che cercavano.
Un libro unico nel suo genere, travolgente ed emozionante, una storia pazzesca con un finale davvero mozzafiato.
Krizia Liberato
Romanzo il cui tema centrale è sicuramente l’ossessione vissuta da Mario, il protagonista.
Ma il racconto da lo spunto anche per una differente prospettiva dell’ossessione, vista dall’esterno : quella che limita Mario nella conoscenza di una nuova donna.
Interessante anche il contrasto tra una nonna molto presente e apprensiva e una madre quasi inesistente nella vita di Mario. Dettagli che fanno da filo conduttore per poter comprendere sotto un punto di vista psicologico, il rapporto del protagonista nei confronti di Virginia. Consiglio la lettura di questo libro!
Ilario Camilli (proprietario verificato)
Un romanzo che si legge tutto d’un fiato e tratta temi attuali e urgenti come lo stalking e l’ossessione dal punto di vista del carnefice. Le emozioni del protagonista sono talmente vive e palpabili da sentirle proprie. Lo consiglio
Daniela Graglia (proprietario verificato)
Personaggi ben costruiti. Buona la struttura: un romanzo epistolare, a tratti romantico, a tratti inquietante. Non c’è spazio per malvagi e cliché. Mario è umano e ben caratterizzato: le sue dicotomie oscillano tra l’amore e l’ossessione.
Romanzo valido.
Claudia Polsinelli
La recensione di @winnie.the.book:
5⭐️/5⭐️
Ho adorato alla follia il romanzo, è uno di quelli che ti prende dentro, di quelli che non riesci più a staccare gli occhi dalle pagine.
Il testo ha come protagonista Mario, un giovane giornalista distrutto da una storia d’amore.
Grazie a lettere che il protagonista scrive, si ripercorre la storia travagliata tra lui e la bella Virginia, una storia che mi ha fatto ricordare, per certi versi, quella tra Dante e Beatrice.
Alla fine, Mario, riesce a rinsavire da tutto ciò, scoprendo la verità, con un finale sconvolgente e del tutto imprevedibile.
L’autrice è riuscita, con le sue parole, a far entrare il lettore in perfetta sintonia con il protagonista, certe volte era come se sentissi le stesse sensazioni ed emozioni provate da Mario.
Mariarosaria Guido
Stile inizialmente confuso, diventa più ricco e descrittivo nel corso della lettura, diventando molto coinvolgente.
Tema molto delicato e complesso da affrontare, il testo si concentra molto sulle emozioni, limitandosi ad accennare le cose materiali: questa scelta mi ha permesso di immergermi in una mente complessa e mi ha fatto capire quanto sia importante aiutare le persone con difficoltà e con ossessioni.
Claudia Polsinelli
La recensione di @missparklingbooks
✍✍✍
Questo è il racconto di Mario. Un ragazzo perdutamente innamorato di Virginia dalla quale viene però lasciato e che non riesce ad accettare la fine della relazione.
Sembra una storia come tante, invece vi assicuro che non lo è.
Perché si viene letteralmente catapultati nel mondo immaginifico di Mario, nelle sue reminiscenze, nelle sue minuscole fissazioni da sentirsi talmente in simbiosi con lui che smettere di leggere diventa impossibile. Viene sviscerato ogni minuscolo stato d’animo del protagonista in maniera impeccabile, ci si sente parte di quelle sensazioni, di quella claustrofobia emozionale ed ogni dettaglio prende vita, diviene vivido e sembra essere reale e pulsante. Poi arriva Rachele, la brava ragazza, quella ideale che però non cancella l’idea di Virginia che sembra essere indelebile, incisa ed intrappolata nelle manie di Mario, sui suoi ricordi, su Roma, sul fondo di ogni bicchiere di vetro colmo di vuoto.
“I ciottoli lucidi, i cuscini bassi quando ancora non andavano di moda”, ogni ricordo é intagliato nel pensiero come un etereo origami.
Una scrittura scorrevole, accurata, coinvolgente e pulita. Un’autrice emergente che con il suo racconto cattura completamente l’attenzione.
Una storia più attuale che mai perché se inizialmente sembra essere la storia di un amore non corrisposto, andando avanti con le pagine si scoprirà che nulla è come appare. Purtroppo.
Simona Gliatta
Per una storia finita male, c’è un’altra che è pronta a cominciare. Ma questo dipende solo da noi. E infatti Mario non riesce a dimenticarsi di Virginia, nonostante la vita gli abbia concesso un nuovo incontro. Sensazioni e ricordi sono ancora indelebili, ma, fin dal principio, qualcosa stona. Mario nasconde molta oscurità, presenta comportamenti inquietanti che si accentueranno man mano che si avvicina la fine del romanzo. La scrittura è lineare e scorrevole e l’autrice cerca di cogliere ogni dettaglio che scandisce la vita del protagonista. Fino all’epilogo inevitabile
letizia.ruggieri
Un romanzo che parla di un amore ossessivo, indefinito, intatto. La ricerca di una felicità che coincide con l’idea di felicità costruita dal protagonista su una persona specifica. Questa persona, però, non ha alcuna intenzione di incarnare quell’ideale e così lui perde la testa e la aspetta, le scrive, la tormenta e si tormenta, fino a condurci verso un finale inaspettato. Un tema purtroppo molto attuale affrontato con capacità e delicatezza.
carolinamari1993
L’ho iniziato ieri e non riuscivo più a smettere. Il personaggio di Mario ti entra dentro, non riesci più a mandarlo via, è una presenza forte e fragile nello stesso tempo, romantico e imprevedibile, folle e abitudinario. Le pagine di 20 righe fanno intravedere una storia d’amore sofferta, a piccoli sorsi, incompleta e meravigliosa, coperta di mistero come Virginia, questa donna irraggiungibile che ossessiona il protagonista. Ben delineato anche il personaggio di Rachele, donna indipendente e reale che si oppone all’immagine evanescente di Virginia. I luoghi sono così ben descritti che sembra di entrarci dentro. La scrittura è polisensoriale, si sente l’odore delle ringhiere arrugginite e persino del freddo. Il finale è un vero colpo di scena! Ho adorato la nonna, personaggio rassicurante e popolare. Con i suoi modi di dire e le sue premure l’ho trovata incantevole. Consiglio la lettura di questo thriller a tratti romantico, a tratti malinconico e misterioso, assolutamente divertente e coinvolgente.