Un granchio, a poca distanza, sembrava guardarlo stranito, muovendo le chele prima di passargli accanto. Kue, questo il nome del bambino, provò a sentire se tutte le parti del corpo rispondevano ai comandi. Partì dalle piccole dita dei piedi. Le mosse una a una. Il primo: l’alluce. Poi il secondo, il terzo e il quarto dito, il quinto, per passare poi alle caviglie, ai polpacci, le ginocchia, le gambe, il bacino, i muscoli dell’addome. Provò a sentire pure quelle interne, le viscere. Quindi i polmoni, le braccia, le mani, la schiena, il tronco, la colonna, il collo, tutti i piccoli e grandi muscoli del viso, il mento, le labbra, i denti, la lingua, il naso, le orecchie, gli zigomi, gli occhi, la fronte e infine l’attaccatura del cuoio capelluto. Così gli era stato insegnato, fin da piccolo, dai suoi genitori.
Un’espressione cupa si dipinse sui suoi occhi a quel pensiero. Dov’erano finiti, si erano salvati?
Kue provò a rimettere in sesto i suoi ultimi ricordi prima che la navicella venisse inghiottita dalle fiamme.
I suoi occhi si erano fermati in un punto. Erano rimasti fissi in quelli della madre, il momento prima che perdesse conoscenza. Dentro vi erano passati flotte, costellazioni di emozioni, di sentimenti, sospesi nello spazio. L’appartenenza a una stessa specie, gli stessi cromosomi, lo stesso sangue che come polvere attraversava le stesse cellule. Un amore ingenuo, capace, feroce, dolcissimo.
Il ricordo della sua voce, una voce antica, sola, dimenticata, che proveniva dall’Essenza, dalla sua anima, dalla parte più sconosciuta. Diceva: “Fuoco brucia, cammina dentro me.” Poi più nulla, il vuoto.
Non ricordava più nulla; silenzio. Kue si alzò sulla schiena, tenendosi per le mani e rimase lì seduto sulla sponda del mare, guardando l’oceano. Vi rimase parecchie ore.
2 − L’isola
Il mare era calmo, le onde avanzavano lente, quasi timide, ma regolarmente accarezzando i fianchi distesi della battigia, prima di tirarsi indietro. Con un bastoncino di legno, Kue disegnava strane figure in terra. Erano i simboli della civiltà da cui proveniva. Vi era una grande piramide rovesciata che pendeva dal cielo e la cui punta sfiorava una serie di linee che indicavano il mare. Quando si decise ad alzarsi era già l’imbrunire. Il sole gradualmente scendeva dietro l’orizzonte, salutando il nuovo arrivato, prima di eclissarsi. Compariva allora una strada sull’azzurro, fatta di luci che brillavano dello stesso colore, per chi desiderava raggiungerlo. Una schiera di gabbiani faceva la posta sulla riva. Le loro grida riempivano lo spazio, rendendolo vivo. A turno prendevano la rincorsa prima di alzarsi in volo. Alcuni disegnavano un’ampia ellisse nel cielo per poi atterrare poco più lontano, altri si lanciavano in una direzione, lasciandosi dimenticare, altri ancora si posavano sulle acque dopo averle sorvolate radenti, alcuni infine prendevano il largo, fino a diventare puntini nel cielo.
L’attenzione di Kue si fermò su questi ultimi. Cosa vedevano?
Allora si tolse i vestiti, entrò in acqua, fece un lungo respiro e si tuffò dentro il mare, cominciando a nuotare in quella direzione. La sua mente era calma, lì sotto. Il corpo nell’acqua sembrava essersi perfettamente adattato, l’aria scorreva regolarmente nei polmoni. Nuotava velocemente, utilizzando le gambe unite come fossero la coda di un delfino e i piedi le pinne. Le braccia le teneva poggiate ai fianchi e a volte le portava davanti per sfiorare la sabbia, sentendone il contatto con la pelle e lasciandosi alle spalle una lunghissima scia. I suoi occhi potevano vedere chiaramente il fondale e tutto ciò che era lì contenuto.
I pesci, per nulla sorpresi, gli si affiancavano e gli giravano attorno, per sentirne l’odore e seguirne la stessa scia. Aveva già percorso un chilometro nell’arco di pochi minuti quando riemerse e, girandosi, vide l’isola.
Dal punto in cui l’osservava, questa appariva come un maestoso gigante disteso in terra, sulla soffice sabbia, la cui testa veniva nascosta dalle nubi. Una ricca e folta vegetazione ne copriva il corpo, come la pelle di un animale selvatico. Sul lato occidentale, dalla montagna si staccava un enorme sperone di roccia, dalla forma di una clava, su cui era poggiata la spalla del gigante. Sul lato orientale, la montagna cominciava la sua lunga e ripida discesa fino agli scogli che spuntavano dal mare come fossero dita di un piede. Kue, di fronte a tanta bellezza e a tale maestosità, si sentì piccolo piccolo e provò ammirazione. Sentiva che da quel momento in poi quella sarebbe stata la sua casa, il suo nuovo mondo e, se chiudeva gli occhi, ne poteva sentire il cuore pulsare, insieme alle molteplici voci della natura al suo interno.
3 − Il sogno nella foresta
Il sole alle spalle di Kue era già scomparso. La luna dall’alto osservava la scena, nascosta dietro un velo di nubi. I colori dell’arancio stavano lasciando il posto al verde scuro e al grigio del mare. Giusto qualche nuvola all’orizzonte conservava ancora un po’ di quell’ultimo chiarore. Kue, nuotando adagio, si ritirava verso la riva. La temperatura si andava abbassando, la sabbia cominciava a essere umida e, anche se la sua pelle ne era abituata, voleva trovare un posto dove ripararsi e dormire.
Gli alberi più vicini alla spiaggia erano senza fronde. Si vedevano una miriade di fuscelli, rami e rametti sparpagliati sulla sabbia. Bianchi come cadaveri, mostravano il loro scheletro in tutta la loro altezza. Facevano un po’ impressione. Sembravano pirati scampati a una cruenta battaglia che, fuggendo impauriti, erano giunti alla spiaggia ormai allo stremo delle forze e lì avevano incontrato qualcosa che li aveva pietrificati, aveva tolto loro la speranza, rinsecchendoli e spogliandoli dei loro abiti, un pezzo alla volta. Subito dietro, le ombre vive della foresta aprivano oscuri nascondigli, quasi fatti apposta per essere esplorati.
Le palme, con i tronchi che le formavano come un esercito compatto, si muovevano al soffiare del vento, cambiando forma al gigante. Kue mosse i primi passi lì dentro. Non aveva paura. Ma non sapeva cosa aspettarsi e quali difficoltà si sarebbero presentate. Era l’istinto a guidarlo, a spingerlo avanti. Si guardava intorno, cercando tra gli alberi un giaciglio, un posto al sicuro o qualcosa che potesse servirgli o in qualche modo proteggerlo, ma in quella oscurità si riusciva a vedere poco o niente.
Allora raccolse dei ramoscelli posti in terra, con ancora delle foglie attaccate. Ne fece un tappeto. Altri ancora se li tirò sopra, finché ne venne coperto. Come una crisalide giaceva nel suo guscio. Si strinse le ginocchia al petto e lentamente scomparve.
C’era suo padre sdraiato supino sul letto. Gli chiedeva se era capace di fargli un massaggio alla schiena. Kue, inorgoglito, gli diceva: “Non lo sai che ne ho appreso l’arte?” e cominciava a spargere l’olio, eseguendo delle frizioni lineari con i pollici ai lati della colonna, dal sacro fino alla cervice. Vide le dita delle mani, leggermente gonfie, e una a una cominciò a spremerle e da ognuna di esse fuoriusciva un liquido di colore diverso: arancio, giallo, blu, verde, indaco, come se lo drenasse, e sentiva che le mani stavano meglio.
Poi si ritrovò su una barca che attraversava un fiume e sopra vi era una ballerina vestita da regina. Era la regina dello spettacolo. Portava i capelli biondi a caschetto. Di lei s’era innamorato da piccolo, la prima volta che l’aveva veduta a corte, durante una rappresentazione teatrale, e solo adesso il loro amore veniva consacrato dal Dio fiume.
Due abili servitori posti a poppa e a prua con i lunghi remi spingevano la barca, accompagnandoli nella visita turistica. Le sponde del fiume erano ricche di vegetazione e di uccelli variopinti, dai becchi neri, lunghi e acuminati e le grandi ali bianche, verdi e azzurre. Kue una volta ne aveva visto immolare uno dai sacerdoti. Ora invece facevano da cornice al corteo nuziale e legati a dei fili sollevavano per aria l’imbarcazione portandoli lontano, sempre più lontano, oltre la cornice.
Kue e la sua regina si voltarono e guardarono verso il basso, salutando con la mano la folla e il padre e la madre abbracciati.
Boris Gagliardi (proprietario verificato)
Oblio Blu. Di Boris Gagliardi.
Inquadrare da un punto di vista letterario un romanzo come Oblio Blu non è affatto facile né
scontato. La prima cosa che mi è venuta in mente al momento di scrivere è stata l’impossibilità di
ridurne la definizione a “libro”. Oblio blu è piuttosto un’opera complessa, il condensato di
afferenze disparate a cui l’autore fa riferimento muovendosi abilmente, pur restando fedele a una
traccia intrinseca di matrice spirituale, in ambiti culturali e artistici molto diversi tra loro, fondendo
narrativa, arte, musica, spunti cinematografici e riferimenti a culture lontane nel tempo e nello
spazio, al cui servizio si presta un’immaginazione fervida e instancabile, un’abilità descrittiva
generosa e fedele al corso di un pensiero veloce, di una mente viva ed energica.
L’atmosfera del racconto è onirica, la percezione è – come propone anche l’autore – quella di un
viaggio. Un viaggio epico, che accompagna i diversi protagonisti a ri-conoscersi in un’unica Anima,
mossi da un obiettivo comune, che infine altro non è che l’integrazione, la com-prensione nel suo
senso etimologico più puro, quello di tener insieme parti diverse del Sé, talvolta apparentemente
così distanti se non addirittura opposte e in conflitto tra loro (l’angelo e l’assassino), arrivando in
conclusione a un rispecchiamento che commuove, che dona pace, dà senso, e ristabilisce
equilibrio.
Un accostamento con l’opera cinematografica di David Lynch è d’obbligo (“fuoco brucia, cammina
dentro me”): in più momenti della narrazione il lettore si trova smarrito a domandarsi quale sia il
confine tra sogno e realtà. La dimensione temporale è fluida: passato presente e futuro si
sovrappongo a tratti a rimandarci l’evidenza di come in una dimensione spazio-tempo non sia
effettivamente possibile operare una distinzione tra ciò che è accaduto e ciò che ancora deve
accadere, fino a portarci dolcemente – già verso metà romanzo – ad accettare che esistono cose
che il solo intelletto non può spiegare, e che forse non è neanche necessario capire, controllare
nella logica abituale che siamo soliti utilizzare quotidianamente.
Si alternano nella narrazione scene di vita quotidiana, comune, dal sapore familiare del possibile, a
lunghi excursus in un altro mondo, forse parallelo, in cui l’impossibile assume tratti che
inizialmente lasciano basiti ma rapidamente addomesticano il lettore a seguire il filo del racconto
senza porsi troppi interrogativi.
Il rimando alle profondità dell’abisso, come utero dell’Anima, a quell’oblio blu che dà il titolo
all’opera, è altamente suggestivo, e ben rappresenta lo stato fisico e mentale in cui il lettore è
chiamato a immergersi fin dalle prime pagine.
La Natura, del resto, è la protagonista silente del romanzo, in tutti i suoi elementi (terra, acqua,
aria e fuoco) e in tutte le sue forme: dalla foresta da cui parte il racconto allo spazio astronomico
in cui si trovano in viaggio i personaggi alla fine del romanzo, passando per elementi centrali come
un gatto o un cane che alternano il ruolo di testimone/osservatore a quello di co-autore in altri
momenti, artefici di incontri o portatori di messaggi … tornando al concetto di Anima, non ci
sorprenderebbe questa predilezione se ci interrogassimo sul luogo a cui ricondurla, e ci
rispondessimo nella Natura, e nelle relazioni, altro focus del romanzo.
La storia di ognuno dei protagonisti forse non avrebbe senso compiuto da sola, e mi piace
concludere come il cartaio che dispone le carte dei tarocchi invitando ognuno dei presenti a
scoprirne una: “Adesso il gioco può cominciare. Dobbiamo trovare la storia nascosta dentro e che
le contenga tutte. Non importa che abbia un senso o meno. Non sempre è possibile comprendere
tutto e questo è parte del Destino e del Mistero che ci avvolge.”
Buon Mistero, dunque, buon Viaggio, e buona Lettura.
Valentina Pica
Boris Gagliardi
“Oblio Blu”, l’ultimo libro di Boris Gagliardi
“Aveva paura ma poi guardava gli occhi di Marcel e vi vedeva il suo cielo riflesso”.
L’oblio è una “dimenticanza”. Non un fatto momentaneo, derivante da distrazione o da un difetto di memoria. È uno stato più o meno duraturo: quasi una scomparsa o una sospensione dal ricordo.
Il blu è il colore del mare, della profondità, del senso di libertà.
Così si presenta al lettore l’ultimo libro di Boris Gagliardi. Con un titolo fortemente evocativo che richiama quello che ognuno di noi almeno una volta nella vita ha vissuto: lo smarrimento, appunto la “sospensione” dal ricordo di noi stessi, di quello che siamo e di ciò che vorremmo realizzare.
Un senso di “vuoto” colorato dall’autore di blu, quasi ad indicare la via da seguire, che ci suggerisce di andare a fondo, di mantenere – nella ricerca – la nostra libertà e di continuare a respirare.
“Oblio blu” risponde a questo bisogno di ritrovarsi, con cura, leggerezza e delicatezza.
Accompagna il lettore attraverso le storie di diversi personaggi. Ogni personaggio viene disegnato in “un momento del suo percorso personale”.
Storie apparentemente slegate, ma in realtà interconnesse. Racconti di amori, di amicizie, di mancanze, di difficoltà, di interrogativi irrisolti, dove traspare quel qualcosa: un attimo, un incontro, un’espressione, un’emozione, una “connessione”, una canzone, un paesaggio.
È un libro in movimento – continuo – che ha il pregio di farti notare quel particolare che nella quotidianità ti scorre davanti in maniera quasi impercettibile. Ti fotografa quell’istante, lo imprime nella tua mente, ti consente di ritrovarlo e ti dà una risposta. Senza alcuna pretesa, senza nessun giudizio.
Oblio blu è nato da un sogno del suo autore, è “frutto della sua immaginazione”: “I personaggi esistevano in me, erano lasciati in disparte, ognuno per conto proprio”.
E noi sogniamo insieme a lui.
Giulia